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.tBRERIA INTERNAZIONALE
MANUALE
DELLA
LETTEIUTUIU ITALIANA
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in 2011 with funding from
University of Toronto
http://www.archive.org/details/manualedellalet04danc
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MANUALE
DELLA
LETTERATURA ITALIANA
COMPILATO DAI PROFESSORI
alp:ssani)ro d^ ancona
E
ORAZIO UACGI.
Volume IV.
Nuova edizione interamente rifatta.
Quarta tiratura.
FIRENZP],
G. BARBÈRA, EDITORE.
1900.
Compiute lo formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione
e traduzione sono riservati.
4
MANUALE
DELLA
LETTERATURA ITALIANA.
SECOLO DECIMOTTAVO.
NOTIZIE STORICHE.
La storia d' Italia nel secolo XVIII somiglia in qualche modo
air ultimo atto di un lungo dramma: tutto quello che ancora ri-
maneva dell'antico sistema polìtico venne a line per dar luogo ad
un ordine «uovo di cose.
Sul terminare del secolo precedente i maggiori potentati d'Eu-
ropa, vedendo oramai vicino a morir senza prole Carlo II d'Ab-
sburgo, re di Spagna, padrone di gran parte d'Italia e d'Ame-
rica, pensarono di scompartirne, lui vivente, l'eredità; per evitare
(dicevano) il pericolo che verrebbe alla sicurezza comune, se gl'im-
mensi dominj spagnuoli s'aggiungessero tutti ai possedimenti di un
solo; ed anche perchè non si rinnovasse un'altra guerra di suc-
cessione, memori di ciò che avevano sofiferto per quella di Man-
tova e Monferrato alla estinzione della casa Gonzaga (1627-1631).
Ma Carlo II morendo (1» novembre 1700), aveva istituito suo erede
universale, con testamento del 2 ottobre dello stesso anno, il pro-
nipote di Luigi XIV, Filippo di Borbone, duca d'Angiò; il quale, col
nome di Filippo V, occupò subito il trono di Spagna, e fece inva-
dere il ducato di Milano, Napoli, la Sicilia, la Sardegna e lo Stato
de'presidj in Toscana, che allora dipendevano da quella corona.
L' imperatore Leopoldo 1, l' Inghilterra e l'Olanda collegaronsi
contro Filippo e contro il re di Francia, alle cui arti attribuivasi,
uè senza ragione, il testamento di Carlo II: e la prima scena (dice
il Muratori) di quella terribile tragedia toccò alla povera Lonf
j^m hardia; indi la guerra si allargò anche ad altre partì d'Italia o
^H fuori. Le milizie imperiali furono commesse ad Eugenio dì Savoia-
L
2 SKCOLO XVIII.
Carignauo, detto Principe Eugenio; il quale, benchò nato a Pa-
rigi (18 ottobre 1GG3> e creHciuto in Francia, mal contento del re
LuIkì XIV, che s'era rifintiito di darj^Mi un comando ncircHcrcito
francese, passò nel 108;{ al Kcrvizio deiriinpcratore Leopoldo I, e
fu uno de' più illustri capitani del suo tempo. Dell'esercito franco-
ispaiio, che doveva efuerre;:{jiare in Italia contro f,'li Austriaci, ebbe
il comando Vittorio Amedeo li, duca di .Savoia, tino all'anno 1703:
nel quale, mutando consiglio, perchè era infastidito dell'alterigia
francese e spa{,Miuola, e gli pareva più vantaggiosa l'amicizia degli
alleati, strinse lega coll'imperatore. Allora Luigi XIV, per vendi-
carsi, mandò il duca di Vcndòme e il La Feuillade ad assaltare
il Piemonte. I Francesi di vittoria in vittoria si conilussero fino
a Torino, che assediarono per alcuni mesi; ma quivi furono sì pie-
namente sconfitti dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Ame-
deo II (7 settembre 170C), che a stento salvaronsi, lasciando sul
campo ventimila soldati, le artiglierie e le bagaglie. La guerra
per altro finì molto più tardi coi trattati di Utrecht e di Radstadt
(1713-1714), che diedero alla Casa d'Austria il Belgio, Milano, Na-
poli, la Sardegna, il ducato di Mantova e i presidj toscani; a Vit-
torio Amedeo il Monferrato e la Lomellina, e la Sicilia con titolo
di re. Gli Spagnuoli per quei trattati furono esclusi affatto, ed era
tempo, dall'Italia, che nella lunga dominazione di oltre due secoli
(1503-1713) avevano spogliata e corrotta; ma Filippo V ottenne di
esser riconosciuto re di Spagna. In luogo degli Spagnuoli signo-
reggiarono in Italia gli Austriaci, i quali però furono meno rapaci
e meno corrompitori. A Carlo III Gonzaga Nevers, duca di Man-
; tova, fu tolto allora lo Stato e aggiunto (1708) al ducato di Milano,
1^. per aver ricevuto, durante la guerra, un presidio francese : del
resto anche Ferdinando Gonzaga, principe di Castiglione delle Sti-
viere, e Francesco Pico, duca della Mirandola, soggiacquero alla
medesima sorte ; donde apparisce che quello fosse un pretesto ;
e il vero si è che gl'imperatori Giuseppe I e Carlo VI volevano
levarsi d'attorno cotesti signorotti minori, capaci pur tuttavia di
mettere inciampo ai loro ambiziosi disegni sull'Italia.
Non durò a lungo la pace fondata su quei trattati, ma la ruppe
improvvisamente (nel 1717) e contro l'aspettazione di tutti, il car-
dinale Giulio Alberoni, ministro di Spagna. Costui, figliuolo di nn
giardiniere di Firenzuola, per qualche notizia della lingua francese
diventò segretario del duca di Vendòme, che allora guerreggiava
in Italia, e andò con lui in Francia ed in Ispagna. Quivi, dopo
che le vittorie del duca ebbero assicurato il trono a Filippo V
Borbone, occupò col suo ingegno e colla sua accortezza l'animo
di quel re e negoziò le seconde sue nozze con Elisabetta Far-
nese (15 agosto 1714), figlia unica di Odoardo II duca di Parma;
NOTIZIE STORICHE. 3
poiché Filippo era debolissimo di volontà, e l.i regina ambiziosa
e desiderosa di preparar principati a'suoi due fijj:li Carlo e Fili|)po,
abbracciò disegni vastissimi : non solo di restituire alla Spagna
quanto le avevano tolto gli ultimi trattati di Utrecht e Radstadt,
ma altresì di procacciare a Fili[)po la reggenza di Francia, che
il Parlamento (2 settembre 1715) aveva assegnata a Filippo, duca
d'Orléans, nepote di Luigi XIV, di fiaccar l'Inghilterra favorendo
Giacomo III Stuart, figlio di Giacomo II, clie pretendeva a quella
corona, e di assicurarsi dell'Austria suscitandole contro gli Un-
gheresi e i Turchi. E cominciò facendo approdare una flotta in
Sardegna nel 1717: dipoi occupò la Sicilia (1718): ma Francia, In-
ghilterra, Olanda, e poco appresso anche l'Austria, strinsero pron-
tamente fra loro a Londra una lega conosciuta nella storia col
nome di quadruplice alleanza (2 agosto 1718), volendo che stesse
fermo il pattuito in Utrecht. Stipularono che l'imperatore Carlo VI
d'Absburgo e Filippo V rinunziassero definitivamente il primo alla
Spagna ed ai possedimenti spagnuoli d'oltre mare, il secondo all'Ita-
lia ed ai Paesi lìassi; che don Carlo, nato a Filippo da Elisabetta,
avesse l'investitura di Toscana, Parma e Piacenza, come feudi
imperiali prossimi a diventar vacanti per la estinzione delle due
case Medicea e Farnese; che l'Austria ricevesse la Sicilia, in cambio
della quale il duca di Savoia, per non soggiacere a maggiori danni,
dovette, a malincuore, contentarsi della Sardegna pur conservando
il titolo regio. Il ministro Alberoni non impaurì di sì potenti av-
versari e si apparecchiava alla guerra: ma Elisabetta non volle
andar dietro alle sue imaginazioni, mettendo in pericolo quanto
già possedeva e quanto le veniva promesso pei figli. La Spagna
accettò quindi in Cambrai (25 gennaio 1720) i patti delia quadru-
plice alleanza, e la guerra cominciata dall'Alberoni in Italia fu
spenta e finì colle mutazioni già dette.'
Di questo componimento si dolse il papa (Benedetto XIII Or-
sini) dicendo violati i diritti della Santa Sede su Parma e Piacenza:
si dolse il granduca di Toscana, Cosimo III, perchè vedeva distri-
buirsi ad altri i suoi Stati senza curarsi di lui, ed anche perchè
1 L' Alberoni, venuto in Italia, ebbe divieto di metter piede negli Stati ec-
clesiastici, e fu in continuo pericolo finche visse Clemente XI Albani, che pur
lo aveva croato cardinale secondando il desiderio di Elisabetta. Morto quel
papa nel 1721, l'Alboroni intervenne al conciavo nel Vaticano concorrendo alla
elezione d'Innocenzo XIII Conti; ma soltanto due anni dopo (nel 1723) cominci-»
a mostrarsi pubblicamente, ed anche a ripigliare i suoi vasti disegni propo-
nendo un'alleanza de'potentati cristiani contro i Turchi. Fatto poi legato in
Kavenua (1738), voleva distruggere la repubblica di .San Marino (1739), e fu
trasferito a Bologna. Come uomo intollerante di quiete, ma pur dotato d'in-
gegno e di alte idee, diede materia agli storici di giudicare di lui molto di-
versamento: del resto fece alcune coso lodevoli senza dubbio; ad esempio, la
fondazione di un collegio per sessanta alunni in Piacenza, che fu chiamato
dal suo nome. Morì a lìoma di ottantotto anni il 20 girgno del 1752.
I
4 8EC0L0 XVIII.
negava di poasedcrli come vassallo dcU'iinporio, ma si bene come
successore alla repubblica fiorentina, la quale senza l'intervento
dell'imperatore, dopo l'eccidio del duca Alessandro nrj:j7j, aveva
eletto Cosimo I; e nemmeno l' imperatore contcntavasi di quei patti
che aprivano di nuovo le porte d'Italia alla potenza spagnuola.
In mezzo a parecchi negoziati, che allora più volte in brevis-
simo tempo composero e scomposero molte e diverse alleanze di
principi europei, l'Austria e la Spagna guardarono sempre con gara
incessante all'Italia: la Spagna per tentare di rientrarvi, T Austria
per teuernela esclusa; e quando ai 20 di gennaio 1731 morì An-
tonio, ultimo de' Farnesi, l'imperatore Carlo VI, tolto a pretesto
che la vedova Enrichetta d'Este figlia del duca di Modena poteva
essere incinta, fece occupare il ducato in nome bensì di Carlo
Borbone, ma per impedire che vi entrasse presidio spagnuolo. Nel
tempo stesso anche il pontefice (Clemente XII Corsini) sforza-
vasi di far valere i diritti feudali della Chiesa su quegli Stati.
L'imperatore si trovò poi indotto a cessare da quella opposizione,
confidando di poter conseguire un suo desiderio di molto maggiore
importanza. Perciocché, vedendosi senza prole maschile, avea prov-
veduto con una legge, chiamata prammatica sanzione, che tutti
i possedimenti di Casa d'Austria e la corona imperiale insieme
con quelli passassero alla maggiore delle femmine ; e per conse-
guenza a sua figlia Maria Teresa. E per indurre i principi d'Eu-
ropa a riconoscere eccezionalmente quella legge, ed assicurare
così a sua figlia una tranquilla eredità, acconsentiva egli frattanto
a loro in tutto ciò che gli era possibile. Per questo motivo nel 1732
ritirò il suo presidio da Parma e Piacenza, permettendo che vi
sottentrassero milizie spagnuole; dipoi prese parte, insieme colla
Russia, contro Francia, Spagna e Sardegna nella guerra detta di
Successione della Polonia (1733-1738), per procacciare il trono di
Polonia ad Augusto III, figlio di Augusto II, elettore di Sasso-
nia, ed ottenere da lui il consenso, fino allora negato, alla pram-
matica sanzione. Ma questa guerra fu disastrosa per l'Austria, e
cagione di nuove alterazioni in Italia. Gli Spagnuoli, con Carlo
Borbone, invasero le Provincie meridionali, e vinsero gli Austriaci
a Bitonto (25 maggio 1734) cacciandoli dal Napoletano. Carlo Ema-
nuele III, re di Sardegna, invase, coU'esercito sardo-francese, la
Lombardia; mentre un esercito russo decise la questione della
Polonia, costringendo alla fuga Stanislao Lecszinski, voivoda di
Posen, desiderato dalla nazione perchè polacco, ma troppo debol-
mente sostenuto da Luigi XV, re di Francia, suo genero. Però
nell'ottobre 1736 fu proposta una pace, che venne poi confermata
col trattato di Vienna ai 18 novembre 1738, con queste condizioni:
Che il Lecszinski, per compenso del trono di Polonia, ricevesse
NOTIZIE STORICHE. 5
il ducato di Lorena, e morendo lo trasmettesse alla Francia (come
avvenne nel 17G6); che Francesco Stefano, duca di Lorena, dive-
nuto nel 1736 genero di Carlo VI, per avere sposato Maria Te-
resa, in cambio di quella cessione ricevesse il granducato di To-
scana, rimasto vacante nel tempo di quei negoziati per la morte
(ai 9 luglio 1737) di Giangastone de' Medici ultimo della sua fa-
miglia; che don Carlo di Spagna, rinunziando alle Provincie che
gli erano state attribuite, cioè il granducato di Toscana e il du-
cato di Parma e Piacenza, conservasse il regno di Napoli e Sici-
lia, dove poi prese il nome di Carlo III; che l'Austria si tenesse
il milanese, già accresciuto del ducato di Mantova ed ora anche
di Parma e Piacenza, ma diminuito di Novara e Tortona cedute,
lieve compenso dopo tante promesse, al re di Sardegna, Carlo
Emanuele IH.
Due anni dopo questa pace mori l'imperatore Carlo VI (20 otto-
bre 1740), e bentosto si vide come fossero vane le cure colle quali
aveva creduto di preparare sicuro e quieto il possesso de' suoi
Stati alla figlia Maria Teresa. Federigo II Ilohenzollern di Prussia,
primo di tutti, poi Filippo V di Spagna, Carlo Alberto elettore di
Baviera, Augusto III elettore di Sassonia e re di Polonia e Carlo
Emanuele III re di Sardegna, succeduto per abdicazione al padre
suo Vittorio Amedeo II (1730), vennero in campo con varie pre-
tensioni; né tardarono ad immischiarsi in quella gran lotta, che
fu detta guerra della successione d'Austria (1740-174:8), la Franoia,
perpetua avversaria dell'Austria, e l' Inghilterra sempre intenta
ad impedire ogni accrescimento della potenza francese e bramosa
d'impadronirsi delle sue colonie in Oriente ed Occidente, mirando
alla signoria del mare. L'elettore di Baviera, vittorioso colle armi
di Francia, fu proclamato arciduca d'Austria, re di Boemia e im-
peratore col nome di Carlo VII (12 febbraio 1742): ma la costanza
di Maria Teresa, che seppe con la sua presenza suscitare nella
dieta di Presburgo l' entusiasmo dei prodi Magiari (25 giugno 1741),
interruppe quelle grandi sventure onde era minacciata. La guerra
fu combattuta e può anche dirsi decisa, di là dalle Alpi : quanto
all' Italia, nella primavera del 1741 vi approdarono in diversi punti
milizie spagnuolc, e furono sulle prime tanto avventurose, che di
conserva colle francesi, occuparono tutta la Lombardia, eccetto
il castello di Milano. Ma quando Maria Teresa, cedendo la Slesia
a Federigo II, finì la guerra con da Prussia (luglio 1742), mandò
nuovi rinforzi in Italia, e riebbe il perduto.
Intanto per la morte di Filippo V (9 luglio 1746) era salito sul
trono di Spagna suo figlio Ferdinando VI avverso ai Francesi, il
quale ritirò le sue genti dalla Lombardia, e fu cagione che sì
mutassero le sorti della guerra. I Francesi furono vinti e inseguiti
8KC0L0 xviir.
dagli Austro -Sardi, duc(3 il rr di Sardc({ua Carlo Kiiianuelc III,
fin Hul proprio confine. Genova, che aveva combattnto con loro, e
perciò era travai,'liata i)er mare diilT Inghilterra, aperHC allora le
porte agli AiiHtriaci, Hperando che per cnsero il loro capitano g«v
novcse (Antoniotto iìotta Adorno) non abuaerebbero della fortuna.
Ma qiKdla Hper.'inza fu orrilHhneute delusa: gli Auntriaci imposero
enormi taglie di guerra da jìngarai entro pochi giorni, e si diedero
a disarmare le fortezze genovesi mandando le grosse artiglierie a
('arlo Emanuele III, che hì proponeva d'assaltare Tolone. Però
i cittadini per disj)eraziunc presero le armi (5-10 dicembre 1716), e
scacciarono gli oppressori. L'anno appresso (1747) si difesero vit-
toriosam(;nte contro un esercito austriaco, che assediò la città per
far le vendette della ignominiosa cacciata. Questo impedì che i
Francesi fossero efficacemente inseguiti nella Provenza: e poiché
i contendenti erano stanchi ed esausti, cominciarono a trattare di
pace: la quale fu definitivamente conchiusa in Aquisgrana ai 18 ot-
tobre 1748, ed ebbe per l'Italia queste conseguenze: Parma, Pia-
cenza e Guastalla toccarono a don Filippo di Spagna, secondoge-
nito di Filippo V e di Elisabetta Farnese, sotto condizione che
ricadessero all'Austria, qualora egli passasse al regno delle Due
Sicilie morisse senza figliuoli maschi ; il re di Sardegna ebbe
l'alto Novarese, e tutte le terre a ponente del lago Maggiore e
sulla riva destra del Ticino fino di contro a Pavia, ma rinunziò a
Piacenza che gli era stata promessa da antecedenti trattati: Maria
Teresa, riconosciuta unica erede di Carlo Y, insieme col marito
Francesco di Lorena, che ebbe nel 1745 titolo ed autorità d" im-
peratore, conservò Milano ed il suo territorio così diminuito.
Questo trattato non potè mandarsi ad effetto innanzi il feb-
braio 1749. Allora (dice il Muratori) si disserraron le porte all'al-
legrezza de' varj paesi ; e l'esito di tante guerre fu molto meno
infelice che non poteva presumersi. Infatti, Roma, il Piemonte,
Napoli, lo Stato dì Parma Piacenza e Guastalla, il ducato di Mo-
dena, oltre le repubbliche di Venezia, Genova e Lucca rimasero
indipendenti. Conservò questa fortuna anche la Toscana, dove
(comegià si disse) era successo all'ultimo de' Medici il duca Fran-
cesco di Lorena ; benché per la guerra di successione contro la
moglie Maria Teresa, e poi per la dignità imperiale, non risiedesse
mai in quel principato. La Lombardia, a cui s'era aggiunto il du-
cato di Mantova, fu la sola parte d'Italia che il trattato d'Aqui-
sgraua (1748) rimise nella condizione di provincia dipendente da
uno Stato straniero.
A questa medesima sorte soggiacque, venti anni più tardi, anche
l'isola di Corsica. La quale, conquistata ai Saraceni e posseduta
in comune fin verso la fine del secolo XIII dai Genovesi e dai
NOTIZIE STORICHE. 7
Pisani, poi rimaatii ai primi, e governata asprissimamente, dopo
aver mostrato più volte (con le sommosse del 1735 e 1741) di non
voler durare in quella oppressione, proruppe nel 1752 a tal ribel-
lione, che una forza maggiore potè bensì reprimere per breve
tempo, ma non estinguere. Laonde i Genovesi, poiché s'accorsero
che nò da soli ne coU'aiuto d'armi straniere (Austriaci e Francesi)
avrebbero potuto conseguire durabil vittoria, nel 17G8 col trattato
(li Versailles del 15 maggio vendettero l'isola alla Francia; colla
quale fu poi incorporata il 15 agosto. Splendide prove d' ingegno
:\mministrativo e militare diede nell'ultima guerra della indipen-
denza córsa contro Genova e Francia Pasquale Paoli, tìglio di Gia-
cinto, il cui nome suona meritamente glorioso appresso i Córsi.
Segnatamente nei quaranta anni di pace dal trattato di Aqui-
sgrana alla rivoluzione francese (1748-1789) fecero in Italia straor-
dinarj progressi gli studj scientifici, ed in particolare quelli mo-
rali, economici e giuridici. Fiorirono allora pensatori insigni, tra
i quali dobbiamo ricordare Giovan Battista Vico (1G76-1744), creatore
della filosofia della storia: Antonio Genovesi (1712-17G9), filosofo ed
economista; Ferdinando Galiani (1728-1787), Pietro Verri (1728-1797)
essi pure economisti; e Cesare Beccaria (1738-1794) che rinnovò,
secondo i principj di giustizia, il diritto criminale col suo libro
Dei delitti e delle pene. Oltracciò in quel medesimo tempo furono
celebri consiglieri e ministri di principi il marchese di Ormea ed
il conte Bogino in Piemonte, Guglielmo Du Tillot a Parma e Pia-
cenza, il Cristiani ed il Firmian in Lombardia e sopra tutti il to-
scano Bernardo Tanucci in Napoli. A costoro si devono le riforme
civili, politiche e legislative, che migliorarono e resero assai più
liberali i governi degli Stati Sardi, del ducato di Parma e Pia-
cenza, della Lombardia e del Napoletano. Pietro Leopoldo I gran-
duca di Toscana (1705-1790), il più audace e sapiente dei riforma-
tori, fece quasi tutto da se, coadiuvato tuttavia da uomini di larghi
spiriti e di eletto ingegno, quali Giulio Rucellai, Pompeo Neri, il
senator Gianni.
A causa di questo notevole svolgimento ed incremento delle
scienze morali, come già altrove, così anche in varie parti d'Italia
cominciava a sentirsi un gran desiderio di abolire ciò che rimaneva
del medio evo : specie i privilegj e le immunità de' nobili e del
clero, che menomavano l'autorità de' governi, costituivano irra-
gionevoli e odiose dififcrenze tra i sudditi, sottraevano allo Stato
il frutto di grandi terre, il senno di egrcgj cittadini, e l'opera di
molte braccia. Ma i pontefici avevano creduto di perpetuare le
immunità del clero, scomunicando innanzi tratto chiunque tentasse
di abolirle: perciò le innovazioni richieste dal tempo in materia
del tutto civile e mondana, presero quasi sempre aspetto di quo-
8 SECOLO XVIII.
Htionr, n-Iij^ìoHa e tcoloKÌca. JJeniidctto XIV, Lambcrtlnl di Bolo
una C1710-17ÓH), al cui tempo cominciò qiutHto moto, H!im6 di dover
«'H8(5re condiHCCudcnte, studiandosi di calmare il malumore e le
discordio sorto per causa della Bolla U/uV/ent/u», emanata da Cle-
mente XI Albani nel 17i:{, contro le dottrine trianHrnihticlie del
1*. Quesnel, e fini il pontificato e la vita senza contrasti notabili,
con (ama d'uomo buono, ed anche di principe e papa sagace,
dotto e prudente. Ma il successore Clemente XIII (Carlo Kezzo-
nico veneto, clic pontificò dal 1758 al 17G'J) o che la sua indole
così volesse, o che le cose fossero procedute a tal segno da non
lasciargli parer possibile la condiscendenza, tenne altra via e tentò
inutilmente di opporsi alla general commozione. Già l'America e
parecchi Stati d'Europa, primo il Portogallo ('i settembre ITó'Jj, poi
Spagna e Francia ed in Italia i governi borbonici di Napoli e
Parma avevano discacciati i Gesuiti; i quali possedendo immense
ricchezze erano acerrimi difensori delle immunità e dei privilegj ;
e professando di essere una milizia della Santa Sedo, trovavano
l)res80 di lei sicurissima protezione. Dicevasi che la renitenza di
Clemente XIII proveniva dai loro consigli : e nondimeno, poiché
una istituzione sancita dai papi non poteva credersi regolarmente
e durevolmente abolita senza l'autorità pontificia, fu non solo pre-
gato, ma incalzato da tutte le parti Clemente XIII affinchè pro-
nunziasse l'abolizione della Compagnia di Gesù. Egli per lo con-
trario la giustificò da tutte le accuse con la Bolla Ajìostolicum
del 1765, né fu possibile indurlo a prendere una deliberazione
contraria a quel solenne giudizio. Del resto, come non è presu-
mibile che senza grandi e reali cagioni nascesse quel moto gene-
rale e quasi impeto universale di sdegno contro i Gesuiti, così
non doveva esser possibile che la Corte di Roma continuasse con
suo danno a proteggerli. Il cardinale Lorenzo Ganganelli di San-
t'Arcangelo presso Rimini, succeduto (1769) nel pontificato col
nome di Clemente XIV, mostrò ben tosto di credere che non
mancassero di fondamento le accuse levatesi da ogni parte; e
finalmente addi 21 luglio 1773 con la Bolla Dominus ac Redemptor
noster dichiarò estinta e soppressa la Compagnia di Gesù, abro-
gato ogni suo ufficio, ogni statuto o decreto concernente la sua
istituzione, e i diritti e i privilegj dei quali aveva goduto fino
allora; e poiché Lorenzo Ricci, generale dell'ordine all'epoca
della soppressione, non volle cedere all'autorità pontificia, fu im-
prigionato in Castel Sant'Angelo. Non mancarono, com'è natu-
rale, molti censori di questa Bolla; ma i Gesuiti, per allora al-
meno, furono soppressi, perchè i governi erano tutti volonterosi
di effettuare quell'abolizione che avevano lungamente sollecitata,
^'on mancò altresì chi cercasse di spaventare il volgo con funeste
NOTIZIE STORICHE. 9
predizioni di sventine apparecchiate dal cielo a punizione di tanta
enormità; tra le quali predizioni questa fu vera, iiur troppo!, che
i Gesuiti risorgerebbero.*
Clemente XIV non sopravvisse più che un anno e due mesi
(22 settembre 1774) alla soppressione della Compagnia; e sì per
questa, come per certe circostanze della sua morte, sospettarono
alcuni, e venne da molti creduto, che finisse avvelenato. Fu stimato
univerbalmcnte vivendo, e lasciò fama di buon principe e buon papa.
Nò con riputazione di minor bontà gli successe Angiolo Braschi
da Cesena, a cui piacque prendere il nome di Pio VI (1775-1800);
ma i tempi non gli lasciarono avere un pontificato tranquillo e
felice, poiché fu travolto dalla Kivoluzione Francese, alla quale
stimò, come papa, di doversi opporre con tutte le forze a difesa
della religione cattolica e dello Stato della Chiesa.
Già fino dall'anno 17G5, per la morte di Francesco I eragli
succeduto nell'impero il figliuolo Giuseppe, secondo di questo
nome, al quale poi Maria Teresa, morendo il 29 novembre 1780,
lasciò, in conformità del trattato d'Aquisgrana, tutti i beni eredi-
tarj della Casa d'Austria. Giuseppe, quando assunse l' imperio, ri-
nunziò a Pietro Leopoldo suo fratello minore il Granducato della
Toscana. Quivi, al tempo di cui parliamo, s'era introdotta in al-
cuni monasteri un' incredibile corruzione. Pietro Leopoldo I ne
diede notizia al pontefice Pio VI: ma si sospettò che egli cer-
casse occasione d'ingerirsi nelle giurisdizioni ecclesiastiche, come
già si era cominciato a fare da altri governi, e non fu ascoltato:
sicché all'ultimo gli bisognò dichiarare di non voler rinunziare a
ehi che si fosse il diritto di provvedere ai disordini de' conventi.
Tanto poi Leopoldo I, quanto l' imperatore Giuseppe secondavano
l)otentemente il desiderio dell'universale, accennato poc'anzi, di
abbattere i residui del medio evo, introdurre la maggior possibile
uguaglianza tra i cittadini, diminuire (sopprimendo molti conventi)
quel gran numero di persone che volevano dipendere unicamente
da Roma e che menavano vita oziosa ed affatto inutile, e rialzare
il poter civile col restringere la giurisdizione ecclesiastica, e col-
l'abolire quel terribile tribunale che si chiamò Sant'Ufììzio o Inqui-
sizione. Né gli altri principi d'Italia (Carlo III Borbone a Napoli,
Filippo Borbone a Parma e Piacenza ed anche Carlo Emanuele III,
sebbene alquanto più rimessamente, negli Stati Sardi) procedevano
in modo diverso: perché non solo la generale inclinazione del se-
colo, ma il proprio vantaggio li persuadeva a mettersi per quella
via, secondando la prevalente opinione. Pio VI conobbe quanto sa-
* La Compagnia di Gesù fu restaurata nel 1805 da papa Pio VII segna-
tamente per ie insistenti premure di Ferdinando IV re di Napoli. — Botta,
Storia d'Italia dal 1769 al ISli, lib. XXII.
10 SECOLO XVTir.
rchlx; .stato dillìcilr, od al trm|)0 stesso dannono opporsi rccisa-
iiK;iit(; a quella specie di assalto, elie da tutte le parti iiiovevasi
alle antiche prerogative del pontificato e del clero; e persuaden-
dosi elio (|ualora potesse tirare a «è T imperatore, audacissimo di
tutti, gli altri si ammansirebbero o jiotrebbero essere combattuti
senza j^randc pericolo, andò egli stesso a Vienna nel marzo del 17h:ì
per trattare personalmente con Giuseppe II. Ma quanto fu cortese
e onorevole racco{,'lienza, altrettanto fu irremovibile la volontà
imperiale, che non volle abrogare e nemmeno moditìcare in qual-
che parte le leggi del 1781 così contrarie alle prerogative della
Chiesa cattolica, proseguendo anzi con lo stesso impeto, spesso
sovercliio e tumultuario, la demolizione delle immunità eccle-
siastiche. La mala riuscita di quel viaggio fece scader sempre
più l'autorità pontificia, che Pio VI erasi proposto di rimettere
in onore.
Per la morte dì Giuseppe II (20 febbraio 1790), Leopoldo lasciò
la Toscana al suo secondogenito Ferdinando III e recossi a pren-
der possesso dei dominj austriaci e della corona imperiale: ma
durato non più di due anni in quel grado, col nome di Leopoldo II,
e mostratosi inferiore a ciò che aveva fatto come Granduca di
Toscana, sia per la diversità del paese sia pei gravi turbamenti
cagionati dalla rivoluzione di Francia, mori il 1° di marzo 17U2.
Gli succedette il figlio primogenito Francesco II, che prese la co-
rona imperiale il 14 luglio.
Fra gli avvenimenti più importanti di questo secolo, oltre alla
Kivoluzione francese, che è senza dubbio il più notevole e carat-
teristico, vogliousi ricordare, per formarsi un'idea esatta del tempo,
anche 1 regni famosi di Pietro I Romanow e di Caterina II Hol-
stein-Gottorp in Russia, non che quello di Federigo II Hohenzol-
lern in Prussia. Lo tsar Pietro I (1689-1725) si studiò d'ingrandire
e incivilire con ogni mezzo la Russia e di renderla simile alle
potenze occidentali, e la tsarina Caterina II (1762-1796) prosegui
animosamente e con sottile ingegno l'opera di Pietro I. Anche il
ducato di Prussia, diventato regno per concessione fatta dall'im-
peratore Leopoldo I nel 1701 a Federigo I Hohenzollern, crebbe
di territorio, di potenza e di ricchezza, mercè il provvido governo
di Federigo II nipote di Federigo I. Egli regnò dal 1740 al 1786.
Per suo mezzo la Prussia non solo fu uno Stato forte e ordinato
sapientemente, ma fin d'allora si scorse che gli Hohenzollern e la
Prussia intendevano farsi promotori della unità e indipendenza ger-
manica; come fu evidente nella guerra della successione austriaca
e in quella dei sette anni (1756-1763), nelle quali Federigo II mo-
strò di essere, oltreché valente scrittore e principe, anche insigne
capitano.
NOTIZIE STORICHE. 11
Mentre i governi riformatori e i rivoluzionarj di Francia tanto
altamente parlavano di civiltà e di libertà, si comitiva un gran
delitto politico, cioò,^ lo smembramento del regno di Polonia, che
fu ridotta proprio ad un'espressione geografica a total benefizio
dei tre potenti vicini, Russia, Austria e Prussia. Il delitto si con-
sumò in tre volte (1772, 17U:5, 17i)5): la Russia ebbe la parte del leone.
Meritevole di nota è altresì Carlo XII Wasa re di Svezia (1697-
1718) per la singolare arditezza delle sue imprese, che lo resero
simile ad un cavalier di ventura, con grave danno della Svezia,
tratta da lui nella lunga e micidial guerra del Nord contro i
Russi, i Norvegesi, i Polacchi; ed invero dopo Carlo XII, cui suc-
cedette la sorella Ulrica Eleonora, comincia la decadenza della
Svezia.
Tra i paesi che avventurosamente e per propria virtù acqui-
starono indipendenza e libertà sono le tredici colonie inglesi del-
l'America settentrionale. Ribellatesi alla madre i)atria, che voleva
sfruttarle più del dovere, combatterono contro di essa per circa
un decennio (177S-1783), e vinsero. Guidò gì' insorti coloni Gior-
gio Washington (1732-1799), il più gran cittadino del secolo. Venne
in Europa a sollecitare aiuti un altro gran cittadino e scienziato,
beniamino Franklin di Roston (170G-1790). Armaronsi in favore
degli americani Francia, Spagna, Olanda, finché l'Inghilterra con
lodevole avvedutezza politica riconobbe, nei trattati di Parigi e
Versailles (1783), la indipendenza delle colonie, che s' intitola-
rono Stati Uniti, e che sapranno bentosto ricavare maravigliosi
frutti dalla conquistata libertà. Più fortunata nelle Indie, l' In-
ghilterra potè colà spegnere le ribellioni di Hayder-Ali sovrano
del Meisor e del figlio di lui Tippu-Saib, assai più celebre del
padre, le quali durarono, eccetto brevi intervalli, dal 1778 al 1799.
Con l'acquisto di quella immensa e ricchissima regione asiatica
riughilterra cercò compensare la perdita delle colonie americane.
Frattanto procedeva in Francia la grande rivoluzione del 1789.
Il Terzo Stato (la borghesia) si sollevò contro il governo arbitrario
di Luigi XVI per rivendicare i diritti che gli spettavano come
legittima rappresentanza della nazione. Il moto crebbe vertigino-
samente di giorno in giorno. Ai 14 luglio 1789 fu distrutta la Ba-
stiglia; il 4 agosto l'assemblea costituente abolì ogni sorta di
privilegi : il 26 dello stesso mese formulò la dichiarazione dei di-
ritti dell'uomo e del cittadino, che si dissero i jjrì^ctpj dell' S!).
Luigi XVI, re virtuoso, ma debole e di corto ingegno, non seppe
né potè combattere o secondare la volontà del popolo. Infine, non
trovando altro scampo, gettossi in braccio all'assemblea legisla-
tiva, che lo depose (10 agosto 1792). I Giacobini inferociscono alla
notizia della invasione straniera; quindi le orrende stragi del set-
12 SECOLO XVIII.
tenihrc 17l>2 e la testa di Liiìkì XVI trottata coitk; «fida alla reazione
(21 ii(iUu:xìo ITXi). Più di mezza P^uropa e parecchi iJipartimenti
iiiHorgono contro la Jtepubljlica, proclamata il 22 Hettcmhre 17'J2.
Marat, Danton, Uol)e«pierro, la Convenzione nazionale, i Comitati
di salute e di Hicnrezza pubblica, il tribunale rivoluzionario man-
dano a morte migliaia di cittadini bOsp(;tti, vincono e cacciano dal
territorio francese eserciti inglesi, prussiani, austriaci, spagnuoli,
piemontesi. K l'epoca del /errore. Poi gli autori della rivoluzione
kI distruggono a vicenda, e dalla tirannide demagogica sorge il
Direttorio, che ha fine col governo soldatesco di Napoleone lìuo-
n;ìpart<; Primo Console.
La rivoluzione francese fece sentire i suoi effetti in tutta l'Eu-
ropa, e ben presto fu cagione di nuove guerre e di nuove istitu-
zioni in Italia, (^ui basterà dire che le armi francesi negli ultimi
anni del secolo XVIII condotte alla vittoria con arte nuova da
capitani giovani e quasi improvvisati, tra i quali maraviglioso ed
unico Napoleone Buonaparte, rovesciarono gli antichi Stati e or-
dinamenti politici, gridando per tutto quei gran nomi di libertà e di
repubblica. GÌ' Italiani, dinanzi a questa rivoluzione, che mirava
a rifare da cima a fondo l'ordinamento civile e politico de' popoli
europei, si divisero in due parti. Alcuni seguirono animosamente
l'esempio di Francia; altri, o perchè fossero disgustati del modo
arbitrario e violento col quale procedeva la rivoluzione, o perchè
contrarj alle nuove idee troppo differenti dalle loro, e che molti,
specie i campaguuoli ed il popolo minuto delle città, non com-
prendevano, si mostrarono del tutto avversi. Di qui turbamenti
gravissimi e feroci rappresaglie, sia che trionfassero gli uni o gli
altri. Sul tìnire del secolo, l' Italia vide Francesi, Austriaci, In-
glesi e Russi; e sorgere e cadere monarchie e repubbliche: il papa
prigioniero, le vecchie repubbliche di San Giorgio e San Marco
distrutte, e quest'ultima venduta dai francesi all'Austria col trat-
tato di Campoformio del 17 ottobre 1797, la casa Sabauda fuggiasca
in Sardegna, quella Borbone in Sicilia, Napoli, occupata dai fran-
cesi e capo della repubblica partenopea, insanguinata dalle bande
della Santa Fede e poi dai patiboli, Toscana dalle torme di villici
aizzati dai nobili e dal clero. Ma la venuta dei francesi nella Pe-
nisola, al grido di libertà ed uguaglianza, lasciò tracce profonde
in tutta l'operosità morale, civile, scientifica e letteraria del nostro
paese. E tra gli effetti più importanti fu certamente quello che sin
d'allora gl'Italiani cominciarono con fermo proposito, quantunque
da principio con poca sicurezza e unità di intendimenti, a volgere
il pensiero non solo alla libertà civile e politica, ma ben anche
all'indipendenza d'Italia da ogni dominazione straniera.
13
NOTIZIE LETTERARIE.
Non abbiistcanza studiato per quello che spetta alla cultura let-
teraria, e per ciò non giustamente apprezzato è stato finora il se-
colo XVIII. Forse ne fu cagione l'esser troppo prossimo a noi,
dacché allo studio e alle ricerche più invitano le cose lontane:
ora però che da esso più ci siamo dilungati, vien fatto oggetto
a nuove ed assidue ricerche. Forse anche dallo studiarlo si fu
distolti dal fatto che la Francia, irruente in Italia, nell' ultimo
quarto del secolo, colle idee e colle armi, parve interrompere e
mutare quel corso di eventi, che si andava svolgendo pacificamente,
specie dopo il trattato dì Aquisgrana: cosicché a molti dovesse
sembrare che, come il secolo decimonono fu cominciamento a noi
di vita novella, 1' antecedente segnasse soltanto la fine di un pe-
riodo d' ignobile decadenza. Opera vana sarebbe il voler ric(;r-
care che cosa sarebbe stato dell'Italia, sia rispetto alla politica
e sia rispetto alla cultura, quando non fossero accaduti quei grandi
avvenimenti, che a tutte le cose cambiarono forma e sostanza; ma
ben può affermarsi che non tutto il secolo XVIII fu tempo di
ignavia infeconda e d'intellettuale depressione.
Le vicende del Settecento offrono una prova di più che la di-
visione per secoli, utile e spesso necessaria, e ad ogni modo co-
munemente preferita nel distinguere il corso mutabile degli eventi
e delle idee, non sempre tuttavia combaci colla realtà delle più im-
portanti modificazioni nell'ordine politico ed intellettuale. Fino al
1748 la vita italiana in ogni sua manifestazione può dirsi continui
quella del secolo antecedente; ma d'allora in poi susseguonsi
anni di pace, di fecondo lavoro, di utili riforme, di audaci dise-
gni, e ne escono rifatti a nuove fogge gli Stati in che l'Italia é
divisa, e la cultura nazionale. Fiacchezza di pensiero e di opere,
servitù dell' intelletto e delle coscienze predominano nella prima
metà del Settecento : nella seconda invece quasi da per tutto tro-
viamo bramosia d'indipendenza e di libertà civile, e un cercare irre-
quieto nuove vie e nuove forme nelle leggi come nella scienza e
nell'arte, finché il turbine rivoluzionario che travolse la Francia,
donde in massima parte si comunicava all' Europa tutta quel moto,
non fu sceso impetuoso anche fra noi, lasciando, quando fu pas-
sato, i germi di un migliore avvenire.
La letteratura, adunque, del Settecento prende bensì le mosse
dall'Arcadia; ma quanto via via se ne discosta ! L'Arcadia era una
cosa campata in aria, un giuoco fanciullesco della fantasia, che si
fingeva paesi, costumi, affetti lontani ed alieni dal vero; ma puro
14 SECOLO XVIII.
questo obbc (li buono, che rinnegò il mal gusto del secolo prece-
(N'iitc, voIho le inenti, hc non a mat,'i,'ior severità <laj)|)riina, a
niajxj,'ior misura e corrctt(ìZza di concetti e di Htudj. 1/ intelletto
italiano, dopo aver delirato e bamboleggiato, ritornò sano a poco
;i poco, riae(iuistò co.scienza del reale, e riconobbe sé Kf<-sso e il
mondo che lo attorniava. Indi (piel carattere di pratica utilità, di
applicazione alle eftettive realità della vita, che ha generalmente
hi cultura italiana del tempo.
Dovendo a larghi tratti disegnare la storia letteraria del se-
colo XVIII, dobbiam qui subito ricordare coloro che al capo
venerando d' Italia aggiunsero una triplice corona, che ancor le
mancava, come di un d' essi sentenziò il Parini ; e sono, quasi è
superfluo scriverne i nomi, il Metastasio, il Goldoni e T Alfieri.
Condusse il primo a tal grado di perfezione il melodramma, da
potersene dire ([uasi il creatore, e per tutta Europa dififusc il suono
della poesia italiana. Fu a lui rimproverato, come segno di poco
amor patrio, l'aver abbandonato l'Italia; ma da Vi(Mina ei do-
minò veramente, e senza i contrasti che forse avrebbe incon-
trato di qua dalle Alpi, gli animi gentili di tutte le nazioni.
Corre anche oggidì da un capo all' altro del mondo una qualche
opera per musica, tedesca o italiana che voglia essere ; ma chi
bada più alla poesia, designata soltanto come ^ìarolef Adesso,
basta al più conoscer la favola. Allora, invece, insieme colla mu-
sica, che pur in sé non era spregevole, volevasi gustare la soave
poesìa del Metastasio, che anch'essa pareva ed era musica per la
mollezza del suono e la mitezza dei sensi signitìcati, dacché, primo
dopo il Petrarca, egli espresse tutta la dolcezza ond'è capace la
parola italiana, ed oltre la quale non v' ha che la pura melodia.
Per opera pertanto del Metastasio largamente si sparse la cono-
scenza del nostro idioma fra le varie nazioni, e il Metastasio fu
il testo sul quale esso fu appreso. Diede il Goldoni all'Italia una
commedia, non più abbandonata ai lazzi improvvisi, troppo spesso
ripetuti e già sazievolmente noti, dei comici dell'arte; ma pen-
sata e studiata sul vero. Non gli nocque certamente, gli giovò
anzi, l'esempio del Molière; e in tanta copia di produzioni tea-
trali si capisce che qualche volta anch' egli prendesse il buono
dove lo trovava; ma egli è grande dove appunto è nuovo, e le
commedie sue di costume veneziano sono quelle di maggior virtù
comica. E se non guardò troppo a fondo nella natura umana, se
non sconvolse fino alle intime latebre il mondo delle passioni per
darlo in mostra e farne spettacolo, seppe scovare, ovunque si
annidasse, il ridicolo, e lo presentò sulle scene con serena gio-
condità di forma, dando agli uditori delle sue commedie occa-
sione di spasso, anziché di strazio dei nervi e del cuore. Ed è
NOTIZIE LETTERARIE. 15
suo vanto clie la forma toatiah; da lui 8Ci,njìta piacesse anche
fuori d' Italia, e eh' ci fosse cliiamato in Francia a continuare e
rinvigorire gli scambi intellettuali fra le due letterature sorelle.
Ai grandi tragici francesi, più che al teatro nazionale e alla tra-
dizione appena fra noi rinovellata colla Merope dal Maffei, at-
tinse, sebbene sdegnosamente lo negasse, anche Vittorio Alfieri;
ma se nella forma generale del componimento tragico e in certi par-
ticolari si riaccosta ai tre del gran secolo, ci fece di suo nel creare
il personaggio e dargli una propria impostatura sulla scena; sic-
ché quei suoi eroi, invece della parrucca, hanno davvero la cla-
mide e Telmo, e non la cannuccia del cortigiano, ma il pugnale
la spada : un po' furibondi e declamatori sul palco, ma non cosi
raddolciti e smascolinati come i loro omonimi della tragedia fran-
cese : ammaestratori e istigatori di libertà ad un popolo servo,
non eccitatori soltanto di placidi diletti artistici a un pubblico di
re, di favorite e di nobili. La parola italiana, ammollita dal poeta
cesareo, riprese coll'Alfieri l'alta e nobile espressione che le aveva
primamente data l'Alighieri : egli la modellò all'asprezza del dia-
letto nativo, l'armonizzò ai fremiti dell'anima sua indocile, le co-
municò potenza di suono, e la fece squillare come tromba che sve-
gliasse e scuotesse i dormienti. E quando l' Italia, mercè le armi
francesi, ebbe un momento di effìmera e scapigliata libertà, le
tragedie alfieriane furono spettacolo e scuola di odio ai tiranni,
di devozione alle forme repubblicane, e ispirarono potentemente
anche gli autori dei moti politici della prima metà del secolo suc-
cessivo.
La storia, coltivata da alti ingegni ne' due secoli precedenti, di-
venta scienza nel secolo decimottavo — ed è filosofica col Vico, che
indaga la vita ideale del genere umano ne' suoi progredimenti e
regressi, e dà fuori dal cerebro suo, possente per novità e vigore
di pensamenti, 1' opera più originale che allora si producesse in
Italia, e può dirsi anzi, in Europa: — erudita col Muratori, che
primo vi porta la face della critica, primo cerca le testimonianze
sincrone e le raccoglie in un corpo, primo tesse gli annali d'Ita-
lia con sicurezza di metodo e pienezza di ragguagli, primo ci fa
conoscere la vita dell'età media: ond' egli è meritamente accla-
mato padre della storiografia italiana. Quest'uomo, nel quale la
dottrina fu pari all'ingenua rettitudine, e la laboriosità all'acume,
ricondusse l'Italia alla conoscenza della sua vita secolare, rimise
in onore i secoli dell' operosità sua commerciale e industriale e;
della libertà dei Comuni, che nella comune sentenza erano tempi
di fitta barbarie; e alla patria divisa e serva fece sentire l'unità
e nobiltà dell'esser suo nazionale. Mercè sua, la storiografia non
si restrinse a regioni o città, a periodi o ad episodj, ma potè esser
10 RECOLO XVIIf.
trattata nolT intcf^rità Hua, con^iiin^cndo effetti e cause e dalle
vic<Mide del passato traendo ammaestramenti a nuovi casi. Alla
fonila annalistica, della <iiia]e ci pur diede esempio insifi^ne, potè
succedere allora la vera storia, e primo si mise pel nuovo «en-
tiero, e sorretto da lui, il Deniiia.
E perchè accanto al Muratori, pur a debita distanza, non do-
vremmo porre Girolamo Tiraboschi, che anch' egli in un sol corpo
riunisce la storia della nostra letteratura, e se pure non giunge
a j,'iudicare delle opere letterarie in se e secondo la critica estetica,
raggruppa gli scrittori secondo 1 generi, ne chiarisce la biografia
e la bibliografia, ne rassegna le opere, e cosi fa utile lavoro, ancora
apprezzabile e da consultare tuttavia in molti punti con piena tidii-
cia? Con forze impari si provò anche Giacinto Gimma (lG68-17::Jó) a
darci una Idea della storia dell' Italia letterata, e s'ei cadde per via
colla grave soma, gli va tenuto conto della novità e nobiltà del ten-
tativo. Pur degno di menzione è Pietro Napoli 8ignorelli(1731-18]5;,
che tentò una Storia generale del Teatro drammatico, come Ste-
fano Arteaga (1747-1701)), gesuita mezzo spagnolo e mezzo italiano,
del Teatro musicale : e del primo è da ricordare anche 1' opera
sulle Vicende della Cultura nelle due Sicilie, colla quale egli volle
seguire e descrivere il corso della vita civile e intellettuale nelle
estreme parti d'Italia. Ne merita oblio scortese G. M. Mazzu-
chelli (1707-1768), che primo concepì il diseguo, dopo di lui sem-
pre più arduo, e frequentemente vagheggiato senza mai poterlo
effettuare, di raccogliere tutte insieme le notizie biografiche e bi-
bliografiche degli scrittori italiani d'ogni secolo, e che con mirabil
diligenza condusse a termine il poderoso lavoro per le due prime
lettere dell' alfabeto, preparò per la stampa la terza, e lasciò ma-
teria copiosa alle rimanenti. E quello che per tutta Italia osò
audacemente il conte bresciano, altri compierono per singole città
Provincie della Penisola : il Fantuzzi per gli scrittori bolognesi,
l'Affò pei parmensi, il Poggiali pei piacentini, il Barotti pei fer-
raresi, il Tiraboschi pei modenesi, il Degli Agostiui pei veneziani,
l'Argelati pei milanesi, lAsquini e il Liruti pei friulani, il Te-
nivelli pei piemontesi, il Fabroni, cui è pur dovuta un' ampia rac-
colta di Vite d'illustri di questo e del secolo antecedente, pei
pisani, il Giustiniani e il D'Afflitto pei napoletani, e altri per al-
tre parti d'Italia. E qualunque sia il giudizio che sul valore cri-
tico delle loro ampie, ma non ben ordinate e vagliate raccolte di
notizie, possan meritare il Crescimbeni (1663-1728) e il Quadrio
(1695-1756), le loro opere sono vasti magazzini (la parola non è
impropria) dove molta roba di vario genere e di pregio diverso
è accumulata un po' alla rinfusa ; ma chi sappia cercarvi e sce-
gliervi per entro, se ne avvantaggia. Merito reale di erudito
NOTIZIE LETTERARIE. 17
e benemerenze molte di bibliografo lia invece Apostolo Zeno
(lGOO-1750), clie colle Disseriazioni Vossianc gettò nnov.i Incc
sugli umanisti e sulle opere loro, colle note aW Eloquenza italiana
del Fontanini corresse infiniti errori e comunicò nuovi ragguagli
sugli scrittori italiani d' ogni maniera, e col Giornale dei let-
terati diede all'Italia un periodico di dottrina positiva, da non
dimenticarsi allato alla Frusta, colla quale il Baretti raddriz-
zava la critica, i\\V Osservatore e al Mondo morale, ove il Gozzi
sì adoperava alla correzione degli animi e dei costumi, e al Caffè,
che i Verri e 1 loro compagni facevano strumento di utili riforme e
banditore di nuovi veri. Nò va taciuto fra quelli degli storici, il
nome di Luigi Lanzi, che al metodo biografico del Vasari e a
quello annalistice del Baldinucci, sostituisce nel trattare le vi-
cende della pittura la divisione per scuole. Luogo speciale fra
gli storici civili del tempo va poi assegnato a Pietro Giannone,
il quale, rivendicando i diritti della società laica sull'ecclesia-
stica, prelude a ciò che, con miglior fortuna di lui perseguitato
ed innirigionato, faranno poi principi e ministri d'ogni parte della
Penisola, e se anche eccede nel suo assunto o cade in inesat-
tezze, nella storia non vede soltanto il succedersi de' fatti, ma le
mutazioni della legislazione e quelle del costume e lo svolgersi
delle pubbliche istituzioni. Archeologo ed erudito sopratutto è
Scipione Malì'ei ; ma l' accumulata e varia dottrina non è in lui
balocco pedanfesco, ma strumento efficace a correggere errori sto-
rici, a distruggere pregiudizj sociali, vanità cavalleresche, super-
stizioni popolari, combattendo con ragionato ardore, al pari del
Muratori, la intolleranza teologica e la bacchettoneria ignorante e
fanatica, contro la quale, gran piaga del tempo, si levava armato
di sarcasmi e di beile, sulla scena e ne'giorjialì, il bizzarro senese
Girolamo Gigli.
La scuola gloriosa dei curiosi della natura, come allora chia-
mavansi, che aveva avuto nascimento fra noi col Galileo e im-
pulso dai suoi alunni e dagli Accademici del Cimento, continua
ancora a far indagini nuove sul mondo e sull'uomo, e dall'uomo
scende all'insetto e dall'insetto risale alle stelle, e d'ogni naturai
fenomeno si dà a studiare e fermare le leggi, tuttavia conservando
le buone tradizioni letterarie di bella e perspicua esposizione: e
dopo averci dato il Manfredi, il Conti, lo Zanetti, il Cocchi, l'Al-
garotti, il Frisi, lo Spallanzani, il Piazzi, il Mascheroni, si chiude
col nome immortale di Alessandro Volta.
Allato a questa schiera va posta l'altra, non meno degna di
ossequio, di coloro che studiano i fenomeni del mondo morale ed
economico e le forme del giure applicato alla maggior prosperità
delle nazioni e al miglior governo de' popoli. Qui, per la novità
IV. 2
18 SI'X'OLO XVIII.
«lolla materia e pel contatto immediato coi pensatori d'oltr'Alpe,
troviamo meno da lodare dall'aspetto letterario; ma nella Htoria
(Iella cultura italiana spetta tuttavia un luof^o eminente al Ge-
novesi, al Oaliani, al Carli, al Verri, al Filangieri e, sopra tutti,
a Cesare Beccaria.
Nel campo delle lettere, e j)artieolarmente della poesia, a gloria
del secolo XVIIl hasterebbe il hoIo Parini, e accanto a lui ose-
remmo appena citare, a lun^fo intervallo, due altri nomi : quelli
cioè del Mazza e del Mascheroni: didascalici anch'essi nel mi-
glior senso della parola, in un secolo che di autori di tal genere
abbonda e, vago di addossare a Minerva le vesti delle muse, può
ricordare lo Spolverini, Il Lorenzi, il Passeroni, il IJondi, e pa-
recchi favolisti moraleggianti, quali il Itoberti, il Bertòla, il Pi-
gnotti, il Fiacchi, il Crudeli. Ma il Parini facilmente supera
tutti i suoi contemporanei, che la poesia volsero all'utile ammae-
stramento dell' intelletto o dell' animo, non solo nella nobiltà mag-
giore del fine, cui mira il suo poema, ma nella squisitezza del-
l'arte; e nelle Odi, pur qua e là ricordando, al pari del fiavioli,
del Cerretti, del Paradisi, del Fantoni, i classici modelli, sa esser
nuovo ed originale; né mai, qualunque sia l'argomento ch'ei tratti,
dimentica che ufficio della sua musa è remler saggi e luonrì suoi
concittadini. E alla correzione del costume ci giovò non poco, sì
colla pungente ironia e sì coli' ammaestramento morale, restau-
rando l'intima coscienza e il corretto costume, mentre l'Alfieri
ridestava 1' assopito amore alle politiche franchigie : intento l'uno
a far virtuoso il cittadino, a farlo libero e indipendente 1' altro.
A render più sano e gagliardo l'intelletto e l'animo degli italiani
giovò non poco il rinnovato studio di Dante : provato e sicuro in-
dizio del crescere od abbassarsi della cultura e del carattere na-
zionale. E noto come la Divina Commedia avesse nel secolo de-
cimosettimo solo tre edizioni, e di non gran pregio, e pochi che a
quella viva fiamma attingessero: trentuna stampa ebbe invece nel
decimottavo, e il sacrario non fu deserto di devoti cultori. Ben si
provò il gesuita Bettinelli a vilipendere il nome di Dante, ma il
petulante conato non portò durevoli effetti, anzi riavvalorò la fede
dei saggi. Il Gozzi ed altri sorsero animosi in difesa del massimo
poeta ; altri, come il Lombardi, il Dionisi e il Pelli, portarono con
commenti e studj nuova luce sul testo del poema, sui tempi e i casi
dell'autore. Non diremo poi che da Dante per ogni parte deri-
vino, come si credè e si ripete, il Varano e il Monti nella sua
prima maniera: ma certo è che, se non gli spiriti della poesia
dantesca e 1' alto suo fine, la forma esterna di quella e qualche
atteggiamento d' arte almeno, risorsero nelle terzine di cotesti e
tr altri poeti del tempo.
NOTIZIE LETTERARIE. 19
Carattere particolare della cultura italiana del secolo XVIII
è poi questo, eh' essa non rimase solitaria e chiusa in sé atessa,
ma si mescolò a quella di altre nazioni, e ne studiò e assimilò
la produzione letteraria. L' Italia non ebbe allora innanzi a se
soltanto il proprio passato e quello di Grecia e di Roma, ma tutta
quanta la cultura contemporanea europea. Lo condizioni politi-
che non le concedevano più 1' antico primato ; ma nello scambio
d'idee e di forme colle altre genti, non sempre essa fu imita-
trice, anzi qualche cosa contribuì di suo alla formazione del
pensiero europeo e della mondiale cultura; e basti qui ricordare
il Beccaria e il suo libro immortale.
Piena era l'Europa d'italiani, che varcavano le Alpi ad ap-
prendere costumi di altri popoli o a trovar più libero e vasto
campo ad una operosità, loro negata in patria, e le ripassavano
poi con nuove idee e accumulata esperienza. E se G. Lodovico
bianconi, che come medico e diplomatico fu addetto a parecchie
corti germaniche, si doleva che la Germania fosse piena di mal-
viventi e facinorosi ivi piovuti dall'Italia, non tutti erano di co-
testa risma, o mimi e musicanti, nò ciurmadori come Cagliostro
o turpi avventurieri come il Casanova; v'erano anche i buoni e
gli onesti, che servivano come d' intermediarj fra noi e gli altri,
e che, dando fuori di patria cospicua testimonianza dell'animo e
dell'ingegno italiano, spesso erano assunti ad ufficj delicati e im-
portanti, ornavano le metropoli straniere de' fregj dell'arte no-
stra. Il Goldoni aggiunse al teatro francese una commedia non
ancor dimenticata, e in francese dettò le vivacissime Memorie
sue; il (ialiani regnò nelle conversazioni parigine, e parve mira-
colo di spirito in un tempo e presso una nazione ove lo spirito
aveva raggiunto il colmo; quattro Cassini, dal secolo precedente
lino quasi ai di nostri, tennero in Francia il primato della scienza
e dell'arte matematica, e il Lagrangia onorò il nome italiano a
Berlino e a Parigi. Né sono da passar sotto silenzio l'Algarotti
e Girolamo Lucchesini, amici e ministri di Federigo II, Camillo
Marcolini ministro a Dresda, Filippo Mazzei, che godè la fiducia
di Washington e di Franklin, l'ab. Scipione Piattoli, lettore di
re Stanislao e principale autore della costituzione polacca del
'^ maggio 1791, e Giuseppe Corani, che dopo aver descritto in
un'opera, non degna della dimenticanza in che sembra caduta,
la miseranda condizione dei diversi stati italiani, abbracciò con
ardore, al pari di un discendente di Michelangelo, Filippo Buo-
narroti, la causa dei novatori francesi, e partecipò ai casi della
rivoluzione. Antonio Conti venne, in dispute scientifiche, scelto
arbitro fra Leibnitz e Newton; il Baretti fu segretario dell'Acea-
dtMuia di Belle Arti di Londra; Lorenzo da Fonte, lihreliista del
20 SFX'OLO XVIIT.
Mozart, fini In vita portando por piiino in America il cnlto «Iella
l<tt<;rafiiia italiana. Di;' via^,'(?iatori oltr'Alpc molti, reduci, nar-
ravan ciò v\ui avcvan visto, e notavano quello che formava la
gloria prosperità delle altro genti; o qui ricorderemo la dcHcri-
zionc della baviera del JJianconi, quella delle rive del IJcno del
JJertùla, elio primo died(! a noi una Idea della lellrratura alemanna;
e le lettere del Baretti huI Porto{,'allo e la Sj)agna, e quelle del
Kezzonico sulT Inj,'liilterra, e le relazioni scientifielic sulle regioni
orientali del Hoscovich, del Fortis, del Mariti, del Sestini, dello
►Spallanzani. Altri attingeva alla cultura straniera per risanguarne
la patria, rimasta troppo addietro nelle vie del pensiero moderno;
e il Haretti, il Cocchi, il C;ozzi si ispiravano alla letteratura in-
glese, alla tedesca il Hertòla, nuMitre il Cesarotti dava cittadinanza
italiana ai fantasmi ealcdoniei di Ossian; agli enciclopedisti e ai
fisiocritici si rannoilano il (lenovesì, il Verri, il lU-ccaria, Sallu-
stio Handini. Amnìiratori e segnaci ebbero di qua dalle Alpi due
grandi francesi : il Montesquieu, del quale oltre la descrizione di
un viaggio in Italia, resta wn volume di lettere da lui scritte al
Cerati, al Venuti, al Niccoliui, al Guasco; e il Voltaire, che car-
teggiò col card. Quirinì, col Goldoni, coll'Albergati, ebbe a suo se-
gretario mi fiorentino, Cosimo Collini e fu accademico della Crusca.
La sua dimora alle Delizie e in Ferney era termine a lettere di
omaggio e a frequenti pellegrinaggi : il Bettinelli, fra gli altri, nei
colloqui col « Patriarca » si agguerriva alla futura crociata contro
Dante, mentre il Casanova, se dobbiam prestargli fede, gli inse-
gnava ad amnìirarc e a legger bene le ottave dell'Ariosto: vi si
recava anche un senator veneziano, Angelo Quirini, futuro agita-
tore della morente repubblica, e, nel 1777, già sul limitare della
gloria, Alessandro Volta. Che se il Parini, con retto giudizio, ebbe
a dirlo proteo multiforme, troppo lodato e troppo a torto biasmato,
il Voltaire, ebbe anche fra noi in gran numero lodatori ed imi-
tatori del suo spirito bcftardo, ma sopratutto avidi lettori ebbero
le sue scritture di così svariata natura, e di forma così facile e
piacevole.
In questo cercar nuove vie e nel rimescolarsi colle culture stra-
niere non sempre restò immune la purità della lingua e l' italia-
nità dello stile: e la ragione del fatto è ben chiara. L'intelletto
italiano che aveva serbato l'altezza sua e la sua autonomia fino
al tempo di Galileo, erasi di poi come infiacchito ed isterilito; e la re-
gione che coiridioma comune aveva dato all'arte della parola il
massimo triumvirato del Trecento, quindi il Machiavelli e il Guic-
ciardini, e per ultimo il gran veggente di Arcetri e la sua scuola,
ora, sotto gli ultimi rampolli di Cosimo e di Lorenzo, predomi-
nando la servitù e la superstizione, non produsse più alcun nuovo
J
NOTIZIE LETTERARIE. 21
frutto (li speculazione uè alcun notevole esempio di eloquenza.
Così il filo della tradizione, se non interrotto, erasi nel Seicento
allentato : e quando sorsero teini)i migliori, gli ingt'gni di neces-
sità si volsero a studiare e riprodurre e adattare ai nostri casi,
le dottrine letterarie, filosofiche e politiche, che erano sorte in
Francia, e colle dottrine appresero le formule e i vocaboli, che
innestarono alla meglio sul tronco italiano, sciogliendo anche, per
conseguire più facile e pronta divulgazione, l'andare avviluppato e
nodoso del periodo letterario, e ragguagliandolo a quello più sciolto
e scorrevole degli scrittori francesi. Una certa vivezza e festività
e un buon sentore di toscanità appare soltanto presso alcuni
scrittori del veneto e presso il liaretti : ma ai più è comune poca
cura della forma e molto imbratto di forestierume. La dizione
infatti è sgrammaticata ed involuta nel massimo Vico, sciatta assai
spesso nel Goldoni, fiacca e prolissa nel Muratori e nel Genovesi,
che pur ha il merito di aver introdotto sulla cattedra, invece del
barbaro latino scolastico, il linguaggio nativo; francesizzante nel
Cesarotti, nei Verri, nel Beccaria ; gesuiticamente civettuola nel
Koberti e nel Bettinelli. Meglio, come avvertimmo, scrissero gli
uomini di scienza ; ma, tuttavia, fra i letterati, il Gozzi ha forma
schiettamente paesana, in che solo può desiderarsi un po' più di
nerbo ; e nerbo e brio e scorrevolezza ha il Baretti. La parola,
melodiosamente cascante nel Metastasio, fragorosa nel Cesarotti,
tronfia e pettoruta nel Frugoni, stridente nell'Alfieri, ha però nel
Parini saper vero di classicità e signorile atteggiamento, si da
fargli perdonare certe durezze di trasposizione. E l'arte del Parini
e la dignità dell'uomo e del poeta, che in lui mirabilmente si con-
giungouo, come sono la maggior gloria letteraria del secolo XVIII
sul suo finire, così sono auspicio ed avviamento alla letteratura
del secolo che gli succede.
[S.De SismONDI, Della letteratura Hai. dal sec. XIV al prin-
cipio del XIX, Milano, Silvestri, 1820, 2 voi. (traduzione parziale
dell'opera De la littérature du midi de l'Euro2ìe, Paris, 1818-19: il
voi. L»"» tratta del sec. XVIII); A. Lombardi, Storia della Iet-
terai. Hai. nel sec. XVIII, Modena, tip. Camerale, 1827-30,4 voi.;
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del
sec. XVIII, e de' contemporanei, compilata da letterati ital. d' ogni
provincia, e pubblic. per cura del prof. E. De Tipaldo, Vene-
zia, Alvisopoli, 1834-45, 10 voi.; C. UGONI, Continuazione ai Se-
coli del Corniani, Brescia, Bottoni, 1820-22, 3 voi., e Della Ietterai,
ital. nella seconda metà del sec. XVIII, Milano, Bernardoni,
1856-58, 4 voi.; St. TlCOZZI, Continuazione ai Secoli del Cor-
ulani, Milano, Ferrarlo, 1832 (o insieme col Corniani e la prima
22 SECOLO XVJII.
delle o|). cit. dell' Ugoni, Torino, Unione tipogr. editrice, H voi.,
1854-50); G. ZANELLA, Storia della Ietterai, ital. dalla metà del
settecento ai giorni nostri, Milano, Vallardi, 1880, e Delia letteratura
italiana nell'ultimo secolo, Città di Castello, Lapi, 188<;; G.CAit-
DUCCI, Prefazione ai due voi.. Erotici del aec. XV III, Firenze,
Harbèra, 1868, e Poeti Lirici del sec. XVJII, ibid., 1871, collezione
diamante; Veknon Lek, Il settecento in Italia, Letteratura, Tea-
tino, Musica, trad. ital., Milano, Duniolard, 1882, 2 voi.; Em, De Mau-
CHI, Lettere e Letterati Hai. del sec. XVIII, Milano, Briòla, 1882;
Em. Bertana, L'Arcadia nella Scienza, studj sulla Ietterai, del
sec. XVIII, Parma, Battei, 1890; Vitt. Am. Akullani, Lirica e
Lirici nel settecento, Torino, Clauscn, 1893; D. SCINÀ, Prospetto
della storia lelter. di Sicilia nel sec. XVIII, Palermo, 1824-27,
H voi.; B. Gamba, Galleria dei Letterati ed artisti illustri delle
Provincie veneziane nel sec. XVIII, Venezia, Alvisopoli, 1824, 2 voi.;
G. A. MOSCIIINI, Della letter. veneziana dal sec. XVIII fino ai
nostri giorni, Venezia, Palese, 180G, 2 voi. (sui letterati veneziani
e veneti del sec. XVIII molte notizie si trovano nel libro di Gi-
ROL. Dandolo, La Pepnbhlica di Venezia e i suoi ultimi cin-
quanl' anni, Venezia, Naratovich, 1855-57) ; N. TOMMASEO, Storia
civile nella letteraria, Torino, Loescher, 1872; G. Guerzoxi, //
Teatro nel sec. XVIII, Milano, Treves, 1876, e II terzo Pinascimento,
Padova, Sacchetto, 1874; Cil Dejob, Etudes sur la <7'a^ec?ie, Paris,
Colin, s. a., e Les femmes dans la comédie franq. et ital. au XVIII
siede, Paris, Fontemoing, 1899 ; EUG. BOUVY, Voltaire et l'Italie,
Paris, Hachette, 1898 ; E, Masi, La vita, i tempi e gli amici di
F. Albergati, Bologna, Zanichelli, 1878, e del medesimo, Parrucche
e Sanculotti nel sec. XVIII, Milano, Treves, 1886, nonché Studj
sulla storia del Teatro italiano nel sec. XVIII, Firenze, San-
soni, 1891 ; ISID. Carini, L'Arcadia del 1690 al 1900, Eoma,
Cuggiani, 1891; C. TivaroNI, L'Italia prima della rivoluzione
francese, Torino, Roux, 1888; La Vita italiana nel settecento, Con-
ferenze di 11. Bonfadini, Is. Del Lungo, E. Masi, V. Pica,
G. Mazzoni, F. Martini, M. Serao, E. Panzacchi, G. Bovio,
A. EcCHER, A. Fradeletto, Milano, Treves, 1896; M. Landai,
GescJiichte d. iialienisch. Literatur in achtzenthen Jahrhund., Ber-
lin, Felber, 1889 (v. su quest' opera, T. Concari, in Giorn. Stor.
Leti. Hai., XXXV, 113); TuLLO CONCARI, Il settecento, Milano,
F. Vallardi, 1889 (v. su quest' opera L. PICCIONI, iu Rassegna hi-
hliogr. della Ietterai, ital., VIII, 149).]
23
G. B. PASTORINI.
Nacque in Genova il 19 novembre 1650; fu gesuita e, nc'col-
legj dell' ordine, insegnò filosofia e teologia; si piacque delle di-
scipline fisiche, e fu studioso di Dante: un suo scritto, Bellezze
Dantesche, trovasi nella biblioteca di Genova. Bello è notare in
un gesuita l'amore alla libertà e grandezza della patria, che in-
forma il sonetto qui riferito, scritto in occasione del bombarda-
mento di Genova per opera de' Francesi nel 1686: bello è anche,
che altro sonetto dedicasse egli a Galileo, chiamandolo Divo in-
uegno. Oltre orazioni e panegirici, si ha di lui a stampa un volume
di Poesie (Palermo, 1741, 1756).
|Per la sua biografia e bibliografia, vedi P. Montanaro in Morjj
di illustri liguri, raccolti da L. GiuLLO, Genova, Pouthenier, 1810,
II, 334.J
A Genova.
Genova mia, se con asciutto ciglio
Lacero e guasto il tuo bel corpo io miro,
Non è poca pietà d' ingrato tìglio ;
Ma ribello mi sembra ogni sospiro.
La maestà di tue rovino ammiro,
Trofei de la costanza e del consiglio ;
Ovunque io volgo i passi o il guardo giro.
Incontro il tuo valor nel tuo periglio.
Più vai d' ogni vittoria un bel soffrire ;
E contr' ai fieri alta vendetta fai
Col vederti distrutta, e noi sentire :
Anzi, girar la Libertà mirai
E baciar lieta ogni ruina, e dire:
Ruine sì, ma servitù non mai.
GIROLAMO GIGLL
Questo bizzarro ingegno nacque in Siena ai 14 ottobre 1660, o
cangiò il cognome Nenci in Gigli, per adozione di un vecchio pa-
rente, che gli lasciò un cospicuo patrimonio, prontamente dissi-
pato. Si die dapprima al teatro, e specialmente al melodramma:
e il suo capolavoro nell'arte drammatica è il Don Filone ovvero
il Bacchettone falso (Lucca, Marescandoli, 1711), più che tradotto,
imitato dal Tartufe del Molière, coll'aggiunta di più scene, come
quella che riferiamo, e d'intermezzi mimici; e che da lui stesso
recitato, prendendo a rifaro noti bacchettoni di Siena, gli procurò
l'odio e la persecuzione di quella, che sotto Cosimo lU fu nume*
21 SECOLO XVIII.
josissini.'i corpoiazioiir defili ipocriti : /ovraj/w jtentifi nr.a, com' t-ii^U
(■t)l)(; H chiamarla. ]..a Hua commedia v^U la deflu), Hccoiido Tavcva
Heiitenziata e un f(''''^n i)crHona(,'((io ecclcHiaBtico, uiui vera tniHttionc
lonfro (jiiesta diabolica Hctta, latjualc a' di nostri, al coperto di fai^a
iiiaiisiictndine e divozione, f.'i tanta rovina di roba e di onore, nelle
case e nelle corti, nelle città e ne' regni.' » La $oreUina di don Piloni
(l'^irenzo, Pnperini, 1710), scritta i)iii tardi, è un aneddoto doinesticr»,
volto Hoi)ratutt() a metter in ridicolo la proiuia moglie, più di lui
attempata e oltremodo avara e devota. Questa commedia fu rappre
scntata da' Hozzi a Siena nel 1712. Eletto profe.s.sore di lettere to
scane nell'Università ])atria,HÌ die tutto agli «tudj filologici 0707- 13i,
trattandoli con vivacità, che 8pea.so cade nella Ijuffoneria, e indiriz-
zandoli a provare la superiorità, o almeno la parità di eccellenza, del
volgar sancse rispedito al fiorentino. A questo fine raccolse e pub-
blicò, come quelle di Celso Cittadini, tutte le scritture volgari di
Santa Caterina (Siena e Lucca, 1707-13, 4 voi,), cui accompagnò un
vivace Vocaholario Cateriniano (Roma, 1707; Manilla [Lucca] s. a.:
ristampato da P. Fanfani, Firenze, Giuliani, 1S80;, che gli sol-
levò contro le ire degli accademici fiorentini, dacché il suo as-
sunto non era trattato soltanto con argomenti scientifici, ma con
schernì e facete invenzioni. Buone accoglienze ebbe dall'^ccat^e-
mia degli Oscuri di Lucca.- Riunitisi però ai cruscanti i suoi ne-
mici per cause religiose, fecero proibire l'opera dal maestro del
Sacro Palazzo e sfrattar l'autore da Roma, intanto che gli altri
ottennero che il suo Vocaholario fosse a Firenze bruciato per
mano del boia, il Gigli esiliato da Siena e il suo nome cancel-
lato dall'albo della Crusca (12 settembre 1717) e da quello de'pro-
fessori. Dovè pubblicamente sconfessar T opera sua, che riuìase
sospesa alla voce Raguardare (foglio Rr. A e. CCCXXj, pur man-
tenendo l'opinione della prevalenza del patrio dialetto, che non
avrebbe ritrattata « anche se dovesse morire in fondo di torre; > ma
disapprovando la forma beffarda e ingiuriosa adoperata in difen-
derla. Tornato poi in patria, trovò disordinata l'azienda domestica,
e poco amorosa la moglie bacchettona, sicché risolse di finire i
suoi giorni in Roma, ed ivi infatti mori ai 4 gennaio 1722. Molti
nemici ebbe per le cagioni notate, molti altri per soverchia pron-
tezza di lingua: ma in lui tutti ammiravano la naturai festività,
la dottrina non comune, e l'originalità e scioltezza del suo modo
di scrivere, del che si avrà un esempio nel passo del Vocaholario
Cateriniano, che riferiamo.
Oltre a parecchie cose teatrali, farse, melodrammi, oratori,
YOrazio del Corneille e altre inedite, alcune delle quali tradotte
* Cfr. 6. Mazzoni, Il teatro della rivoluzione ed altri scritti ecc., Bo-
logna, Zanichelli, 1894, pag. 419 e seg.; L. G. Pelissieb, Scènes orvjinale^
du Tartufe de G. tradintes avec tire notice, iu Revuc d'art dramati^jne, 1889.
- Cfr. G. Sforza, G. G. e V Accademia degli Oscuri di Lucca nel Giorn,
stor, d. leti, itah, XI Y, 432.
GIROLAMO GIGLI. 25
<) ridotte dal francese, e poesie per la maggior parte facete o sa-
tiriche, abbiamo di lui, in prosa, la lìelazione del collegio ijclro-
niano delle halle Ialine (Siena, 1711»)» ove descrive come vera una
istituzione non mai esistita, per rinnovare l'uso dell'antico lin-
guaggio col mezzo di nutrici in esso ammaestrate (e la burla fu
creduta da parecchi verità); e gli Avvisi ideali o Gazzettino, ìiXmò
allora corse manoscritto, e solo a' dì nostri fu stampato (Firenze,
Harbèra, 1861 ; Milano, Daelli, 1864), dove, sull'esempio degli Avvini
che i menanti romani diffondevano a penna, si danno notizie fog-
giate dalla sua fantasia gaia e dall' umore i)ungente. Compose
anche col nome falso di A. M. Bonucci gesuita una lettera « in-
torno ai presenti sconcerti della Compagnia, » che Pietro liigazzi
nel 1847 (Firenze, Cocchi) pubblicò per scrittura di quel padre, più
tardi accorgendosi dell' errore, e confessandolo. Inoltre, il Diario
Sanese (Lucca, 1722), le Begole pei- la toscana favella (lloma, 1721),
le Lezioni di lingua toscana (Venezia, 1722), ecc. Le sue opere si
cominciarono a raccogliere, ma non se ne pubblicarono che tre
volumi (1707-1)8) colla data dell'Aia (ma Siena, Pazzini-Carli). Una
raccolta de' suoi Scritti satirici in prosa e in verso fu fatta da
Luciano Banchi (Siena, Mucci, 1865) ; sei lettere di lui si hanno
nelle Lettere d'illustri senesi pubblicate da G. Porri per le Nozze
Bar gagli- Scotti (Siena, Porri, 1868).
[Vedi su di lui F. Corsetti, Vita di O. (?., Firenze, all' insegna
d'Apollo, 1746; Manfredo Vanni, Girolamo Gigli ne' suoi scritti
polemici e satirici, Firenze, Cooperativa, 1888, ed ivi, p. 167, una
bibliografìa delle sue opere ; dello stesso autore. Ritratto critico
di G. G. fatto da U. Benvoglienti, nel Bull. stor. sen., 181)8, p. 2y'J
e seg.; Aia'IIì.]Moretti, (t. G., in Ateneo Veneto, aprile-giugno 1891,
p. 253-270.J
Raguardare, con un solo (j sempre usò La Santa, Leti. I,
nuni. 3 ; Yergogninsi li Pontefici e li Pastori, ed ogni crea-
tura dell' ignoranzia e svperbia e piacimenti nostri a
raguardare a tanta leggerezza ec. E sempre così il Leggend.
pure dei Santi nella Vita di s. Colomba : Raguarda dunque
nel volto mio, acciò tic mi conosca: ed ecco intanto un
acciò senza il che, quando il p. Bartoli ne voglia far auto-
l'itù, per la sua congregazione dell' impossibile.* Or ne verrà
pure una volta in acconcio di citare qualche bel passo del
nostro p. Nelli sanese domenicano, clie fra' satirici della
mia patria teneva una volta il primo luogo ; ma non so, se
da qualche tempo in qua egli l'abbia perduto. Veggasi la
settima delle sue satire manoscritte, che l'abbate Pier Ja-
capo Nelli, nostro gentilissimo amico e collega d'Arcadia, e
della scena plautina cosi grazioso imitatore, e d'ogni più
' Il Battoli intitolò im suo libro il xVon ai può.
26 8i:coLO xviri.
vasta erudizione fornito, presso di sé custodJBce, per tosto
pubblicarle. Sci-iveva il Nelli contro certo frate Deo, dome-
nicano puro di Siena, manco d' un occhio nel viso, di tutti
due neir intelletto :
Kajfuarclii, clic non ha 1' occhio mancino,
K paro un cvan;,'ol di san (ìiorannl,
Come Io legge il piote fiorentino.
Volendo rius^;iro all'uso di quulclie prete di Firenze (an'die
a" di nostri dalla (iorentina avarizia serbato) che per ispa-
rammio* di cera, ordina al cherico, clie all'evangelio di
s. Giovanni nel lino della Messa smorzi nell'altare la can-
dela nel corno dell'epistola, onde resta quel vangelo con un
solo lume dalla parte dritta. Il tante volte lodato p. D. Ber-
nardo de' (Cavalieri, accademico della Crusca, e maestro di
toscana eloquenza così ne' pergami che ne' suoi libri, nella
vita del cardinal Tommasi al cap. 4, parlando dell* educa-
zione datagli da' genitori: Bastava renderli attenti a ra-
(juardare ed imitare ciò, che incessantemente tediano e
ve deano.
L'abbate Francesco Maria Cagnani, pastore Arcade ed In-
tronato, che co' sudori di sua fronte ancor bionda sa colti-
vare gli allori tanto malagevoli e rari del gran poeta amante
di Bice, e di cui in più lecci d'Arcadia veggonsi incise le
misteriose cantiche, senza ({uel piti che puoi vedere de* suoi
Sonetti nella raccolta d'Arcadia, al tomo 5, nella seconda
cantica del bel poema della Penitenza dice :
Come la sposa orientai, coperta
La fronte in parte da virgineo velo
Cupida volge la pupilla aperta,
Ch'ai cuor presiede, e col f'urtivo telo
Mentre raguarda lo sdegnato amante
Lo sdegno uccide, e ne discioglie il gelo.
Dove questo misterioso cantore allude all' uso delle donne
orientali di tener la faccia coperta, salvo un occhio per
guida del camino, o altre azioni ; onde fu detto della sposa
de' Cantici: In uno ocnlorum ttioynim vulnerasti me: e Cor-
nelio a Lapide, con altri spositori, di tal velamento favel-
lano, che pure anch' oggi presso que' popoli, tenacissimi
conservatori degli antichi riti, vien praticato.
]\Ia imbranchiamoci ancora noi tra coloro, che usarono
questo verbo alla sanese, meglio che alla fiopentina con g
raddoppiato. Ecco un sonetto nostro all'improvviso, com-
posto in Roma in un festino, che il generosissimo sig. Leone
Verospi apprestò a madama Paola Durazzo, uno de' più illu-
stri esemplari della bellezza italiana de' giorni nostri. Il pen-
* Eiaparmio,
GIROLAMO GIGLI. 27
siero è sopra un certo stravagante oriolo, che in una ca-
mera quivi si vede :
Io vidi sotto illustre alta niagiono
Il Tempo travestito a pellefcMino,
Ch' in volto umile, ed a ginocchio chino
Distinguo l'ore in recitar corone:
E, passando con troppa divozione
Ad ogni quarto d' ora un bottoncino,
Come s' ogni Ave fosso un mattutino.
Dissi : Ecco un oriolo Don l'ilone :
E perchè Paola a ra;funr<lar talora
Stava tal' ingegnosa ippocrisia,
A lei gridai : Fuggi di qui, signora ;
Mentre dice costui l'Avo Maria,
Rubba, uccide, distruggo ; e forse ancora
Qualche bellezza a te può portar via.
Questo sonetto non fu ammesso tra gli altri miei nella
raccolta degli Arcadi, trovandosi che la chiusa appoggiava
sul falso ; poiché, non solo il tempo non rubbò, nò in quella
sera, nò in quel mese, nò in quell'anno bellezza alcuna alla
signora Paola, ma sento che, da tre anni eh' io non l' ho ve-
duta, sia fatta assai più bella d' allora, come vedrai dal suo
vivacissimo ritratto, che nella ventarola espressiva d'Amore
romito son giusto adesso per pubblicare.
E finalmente, non pure i Sanesi, e coloro che del dia-
letto sanese s' accordano all' armonia, ma il Boccaccio me-
desimo usò talora raguardare con un g solo. Nella novella di
Sofronia : Non vagì' ar dando, che ab eterno disposto fosse ec.
ed altrove : e raguardatore pure, come osserva il Salviati
nel citato libro, voi. I, part. L E nella stessa guisa il Passa-
vanti nel cap. 5 della Superbia : Raguarda tutti i superbi^
e confondili. Vedi anche Pietro Crescenzio, lib. X, cap. 16.
Nondimeno i compilatori del Vocabolario non posero che
raggnardare ; poniamo che in due modi dovessero indi-
carne l'uso, come fecero iX\ provedere e provvedere, ej^ro-
entrare e proccurare, e &' officio, e t(,fficio, e ufi zio e uf-
fìzio; ed il buon padre Rogacci, per non far liti, nella sua
dramatica num. 349, al Vocabolario vuole adulare. Ciò fu
latto, credo io, a piacimento del Salviati capoparolajo, il
quale nel citato luogo dice, che dalle buone orecchie il ra-
gnardare, il camino, V abbate, non si può soffrire: e pure
il tanto lodato autore del Dialogo del Fosso di Lucca e del
Scrchio, e dell'altro Dialogo del Filofdo, che nell'accade-
mie lucchesi tanta cultura mantiene per Y idioma grazioso
e puro e autorevole di quella città, dove si ha tanto de-
licato timpano per la favella, quanto a Firenze, e dove non
si vede che le sopradette pronunziate voci stroppiate ca-
gionino all' orecchie lucchesi delle posteme, come teme il
Salviati che possa accadere all'orecchie de' Fiorentini : egli,
dico, r eruditissimo Matteo Regali caro amico nostro, quello
2X 8i:C0L0 XVIII.
smod.'ifo r.'uUIoppianicnto di coiisonanfi in aloune voci, u
K(li)pI)iaiiieiito laluia, non riceve nello consonanze del ben
parlare, tutto che fra tante voci il nostro rafjuardare non
si sia avvisato di porre: ondo bisognerà < /" .ii-e cIkj
tutto il rimanente del mondo abbia roroccliic e, men-
tre veruno, da' liorentini in luora, a modo del Salviati cosi
pronunzia.
Legf?este mai ciò che si riferisce da Celio Rodigino degli
a})itanti di eoit' isola indiana chiamati Cubitelli^ Costoro non
sono i)iù alti ili un cubito ; ma fur(jno forniti dalla natura di
cosi grandi oi'occjiie, che sopra di ima si distendono e coll'al-
tra si cuoprono, di modo che abbiano le orecchie al bisogno
per letto ed al bisogno per tavola, e fra di loro addivenga, che
il senso dell'udito faccia a compagnia d' ullizio col senso del
gusto e del tatto : ed anzi servono loro le orecchie per
casa medesima, tanto che cento Cubitelli uniti insieme com-
pongano una terra, e mille di loro con mille paja d'orec-
chie una città. Cotali oggidì sono i Fiorentini : e parlo pei-
sinegdoche usando il nome del tutto per la parte, cioè quello
della nazione, per altro da me riverita, per la parte infa-
rinata da me riverita pure, benché al giudizio letterario
riconvenuta. Sono eglino rimpiccoliti in tutto il corpo poli-
tico ; e poiché (come dice il Villani al cap. 35 del quarto libro)
essi distesero sempre i loro confini più colla forza che colla
ragione^ fu ben dovere che fossero loro, già sono due se-
coli, tagliate quelle braccia, che avevano con tanta violenza
allungate ed aggravate sopra le vicine sorelle nazioni ; e
che fossero altresì tagliati loro i piedi, onde conculcarono
e le potenze sorelle e le vicine, e talora Y autorità della
santa Sede romana, con cui rappacificogli la nostra Santa.
Pertanto oggidì non è loro rimasto dell'antica denominante
corporatura altro che quelle grandi orecchie, che par loro
avere cosi bene organizzate meglio degli altri ai giusto
suono dell' Italiana favella ; e con queste orecchie loro si
compiacciono con tanto senso, e vi si distendono sopra con
tanto diletto, che qualche grave autor morale, stima possa
darsi ne' Cruscanti d'oggidì la molli zia auricolare; e con
queste orecchie finalmente vorrebbero rinvogliere* e co-
prire e fasciare tutta l' altra letteratura, e fare un regno,
per quanto potessero, da per tutto.
E di fatto voi osserverete in Roma (il che puote a molti
altri paesi applicarsi) tale abbatucolo scarpinello del Casen-
tino, cui fece la prima chierica il trincetto di suo padre,
tale abbatucolo, dico, imballato poco fa dal Mecatti vettu-
rale da Pampalone per contrappcsare il basto d' un mulo
del carico di quattro colli di baccalà, che sta leggendo a
Montecitorio un editto volgare della camera apostolica, e
Ravvolgere,
GIROLAMO GIGLI. 20
badando nella firma, che v'ò segnato il Cardinale camar-
icncfo, che camarlingo secondo la Crusca vorrebbe dirsi, ca-
vandosi di saccoccia non so che poca di sinopia, con cui
soleva a suo padre ciabattino ajutare a tignere i tacchi delle
scarpe, prendere a correggere per carità i barbarismi came-
rali. Indi, sentendo che il cianiniellaro vende le ciammellc
senza b, e che le sono calle calle, ma senza e?, vorrebbe,
per quanto possa, tenere a compagnia d' ollizio T orecchio
armonico lìorentino collo stomaco suo digiuno romano ; lin-
cilo risolve di mangiar, con protesta di non acconsentire alla
cottura della farina romana male all'abetaia, se non in quanto
il caler grammaticale lìorentino gli possa separare nel chilo
la cattiva ortografia, e lievitare con fiorentina fermenta-
zione la mal fermentata pasta romana. Ma che dico dell" ab-
batucolo imballato colla condotta ? ^ e' v' è queir altro venuto
in groppa del bardotto de' vetturali, queir altro venuto nella
bai'ca. K doppo Tabbatucolo, v' è il fratiiculo, il dottoru-
culo, Tavvocatuculo, il maestruculo di casa, senza {jiie' mi-
serabili venuti col bordone, e quegli altri col !)otteghino
da reni della Madonna che muove il capo, o col botteghino
di s. Antonio, colla cagna legata da fare i salti a piazza
Navona, ut capiat stolidum ìneriloria bolina vulgus^ che
ha la virtù di saper conoscere al sito ne' circoli coloro che
sono di Siena. 1^] quell'altro che racconcia i denti guasti,
e che vende un unto per la gola da far tornare la gorgia
agli oriundi di Fiorenza, benché ne manchino da quattro ge-
nerazioni; onde grida nuovamente il satirico antico: Quota
portio fiiecis Arhe(v. ?
Poter di Dio ! tutto lo scolo di Mercato Vecchio e di Guai-
fonda, et quidrpiid mejens natura creavit in Firenze (come
disse r altro gran satirico moderno, il quale cuìu Jiivenale
tonai), s' è volto ad inondare questo così bel paese. Clio
fatei* che non serrate la Porta del l'opolo ^ che non alzate il
ponto levatojo di Tonte Molle ? K come si ha tanta cura di
alzare degli argini contro le Chiane di Chiuci, acciocché il
trabocco di quelle acque non faccia uscire il Tevere dal suo
letto, e non ci è provedimento di tenere indietro (luesf inon-
dazione di succida e puzzolente gorgia fiorentina, che cava
oramai del suo letto tutta Roma? Pensate! La piena è già
venuta, la mota è già entrata por tutto ; ed ognuno, in cam-
bio di spazzarla da casa sua, ha piacere di guazzarvi den-
tro. Manca un servitore ad una famiglia ? bisogna pigliarlo
fiorentino, perchè egli sa fare ogni cosa, come de'grechetti
de' tempi suoi diceva il sopra citato Giovenale :
Qiioiiivis honiiiiein seenni attulit ad iios
(iiainmaticus, rlietor, gcoinotrcs, pietor, aliptes,
Augiir, schcnobates, medicus, magiis, omnia novit.
Nel carico condotto dal vettnraJo.
I
60 BRCOLO XVIIT.
E clie ha fatto quest* inondazione ? Omnis pulvis terra
rrrsKs est in sciniphcs : Kxod. rap. 8, num. 17. Costoro
sono fatti come lo zanzare infestatnci d' Kgitto. Voi non vi
porrete op^gimai in Roma ad una tavola imbandita, elio non
vi sentiato stiirl):iti i bocconi da (nicsto zanzare venute ad
intendere so si pai-Ii in qu(?l convito in contral)bando alia
brusca. Voi non v'assetterete alla toeletta d'una dama, che
non vi troviate due nojose zanzare cicisbee, venute a ri-
conoscere se tutti i vocaboli del mondo femminile ricevuti
da Parigi e da Londra sono registrati nel Dizionario fioren-
tino: e con questa occasione scire volunt secreta domus,
atque inde timeri. Voi non vi presenterete ad un tribunale,
che non sentiate opporvi il significato non giusto d' una pa-
rola espressa in un contratto, e prodursi il Vocabolario della
Crusca, preteso da' Fiorentini il vero testo de verborum si-
(jnifinntione ; poniamo che dalla sacra Ruota romana fosse
pronunziato, dovere ugualmente attendersi le voci sanesi e
di altre toscane nazioni ben parlanti, e non sempre al testo
parolajo fiorentino dovere aversi fede; e simil conto ne abbia
latto la Congregazione della visita delle carceri in (juest'anno,
allorché, ritrovando carcerati nelle carceri nuove un sanese
ed un fiorentino, per essersi notabilmente percossi a cagione
di una parola, che l'uno pretendeva essere offensiva, l'altro
no.... Fin qui era io giunto nella stesura dell'istoria di questa
rissa parolaja, quando, entrato nella mia stanza all'impro-
visa uno di quei molti amici miei, cui non si tien portiera,
volle vedere a che voce arrivato fosse il Vocabolario, e ciò
che in essa si diceva. Sodisfatto che ei fu, presomi per mano
mi disse: Amico, tutto va bene, ma permettetemi, per vostra
istruzione, che io vi conti una novella, che fra le Cento an-
tiche è r ottantesima nona. Dite pure io replicai ; ed ei : —
Si trovavano di brigata ad una cena molti cavalieri, fra quali
uno ve n'era, che averebbe fatto a ciarlar col Gatta, e con
voi quando eravate in disputa frullonica. Questi intraprese
a contare, terminata la cena, una storietta che non veniva
mai a fine; perlochè i servitori, che aspettavano d'esser
licenziati per andare ancor essi a cena, stavano impazienti
desiderando il termine, contuttoché ella fosse graziosa assai
e piacevole ; ma, non vedendosi alcun principio per questo
fine, uno di essi, che forse più affamato o goloso era degli
altri, chiamato a nome il cavalier favellatore, gli disse :
Signore, colui che v'insegnò codesta storia, non ve la inse-
gnò bene. E perchè? domandò l'altro." Perchè, risposegli,
non v'insegnò a finirla. Risero tutti, e così terminò la sto-
ria. — Or io non vorrei che fosse detto cos'i a voi, che non
raguardate punto a finir la vostra diceria su la voce ra-
guardare. Risi ancor' io, non per la novità della novella
che già vedut' avea, ma per la proprietà dell'applicazione :
onde, per fare che questa avesse 1" esito simile alla facezia
del servo, replicai : Tronchiamola dunque qui per compia-
GIROLAMO GIGLI. 31
cervi ; ma quanto alla cena sarà meglio che io venga a
farla da voi, che 1' averete migliore. — (Dal Vocabol. cale-
riniano, ediz. di Manilla, pag. 250.)
Bacchettoneria e Cupidigia.
Sapino.^ di casa, signora nonna.
Mad. Pernella {alla finestra). che miracoli, signor ni-
pote ! avete bisogno di qualcosa, eh !
Sap. Di vedervi e salutarvi.
Pern. M'avete veduta questa mattina.
Sap. Ma adesso vengo a vedervi, forse per l'ultima volta.
Pern. Come dire, lìgliuol mio? Aspettatemi, ch'io vengo
a basso.
Valerio. La vecchia è assai accorta.
Sap. ISIa, per altro, è poi tenera.
Yal. Dissimulate.
Pern. {sulV nscio). come dire, per l'ultima volta?
Sap. Signora nonna, oggi l' aria è assai cruda ; sarò a
servirla su in camera.
Pern. No, no ; non ho nò pure rifatto il letto, ed ho tutte
le mie ciarpe in disordine.
Sap. Staremo in sala.
Pern. Nò meno ; stava appunto facendo appicciare il fuoco,
ed a cagione del camino stretto è ogni cosa piena di fumo.
Sap. Entriamo almeno sul ridotto.
Pern. Nel ridotto ci è adesso Menica che spazza; e ci si
accieca dalla polvere. Or dite un poco, nipote mio, o come
a dire, per l'ultima volta?
Sap. Mi sono accorto, benché tardi, esser alquanto in-
dietro negli studi ; onde prima di avanzarmi da vantaggio
neiretà, penso di portarmi per qualche tempo sollecitamente
a Parigi. Cos'i ho ricevuto da mio padre l'opportuno con-
senso ; e mi restava solo d' abbracciare la mia cara signora
nonna, e baciarle per l' ultima volta le mani. Ella è già
inoltrata negli anni, ed io penso trattenermi colà qualche
tempo por studiare la filosofìa, le leggi, le matematiche,
con qualche principio di nautica.
Pern. O che voglia t' è venuta ora d'addottorarti ? Ah,
figliuolo mio, mi vuoi lasciar sola, eh? ah, ah, ah! lo non
ho in questo mondo altri che te, e quando ti vedeva, mi
pareva appunto di vedere la buon'anima di monsù Sape
tuo nonno e mio marito, del quale tu porti il nome. Diceva
bene don Pilone....
* Sapino. figlio di Hiionafedc, è stato cacciato di casa dal padre, per
aver svelato lo tiirpitudiiii di don Pilone, allo quali Buonafede, accecato,
non ciede. Sapino è deliberato di allontanarsi dalla patria, e l'amico suo
Valerio lo ajuta dandogli intanto trenta luigi d' oro, ma Sapino vorrebbe
ottenere qualche cosa anche dalla nonna, madama Pernella, anch' essa
bacchettona e fidente nella virtù dell' ipocrita don Pilone.
32 fiECOLO xviir.
Sap. E elio dicova colui ?
Val. (a parte). Moiisù Sapiiio, tiiri-sunuiaic
Snp. (Potere, diavolo !)
Prrn. Che non m'attaccassi mai a nessuna cosa di que-
sto mondo.
Sap. Se mi amafx», si^mora, permettetemi volentieri (|ue-
sto via;jr<(in, da cui son per ritrarno tanto profittai.
l'crn. Che occoi-re stare a via;/;:jiai-f; ? Hai roccasioiK-
in casa, e non te ne sai servire I
Sap. Come ?
rem. Oli don Filone non te le insegnerebbe tutte quell»
cose che vuoi impai-are ?
Sap. Don l'ilone m'insegnerebbe....
Val. (Dissimulate.)
Sap. (I*<'ti*re!) Don Filone m'insegnerebbe piuttosto dell»'
cose appartenenti allo spirito ; che di queste materie non
ha studiato giammai.
Pcrn. Se non l'ha studiate don Filone, bisogna che non
sian cose da studiare.
Sap. Ha acconsentito ancor esso che io me n'esca di casa.
Pern. Com'è stato d'accordo esso, vattene, figlio mio,
che farai bene.
Sap. Anzi, perchè io non sapeva staccarmi da mio padrf,
egli m' ha fatto uscire di casa per forza.
Peryi. Oh vattene dunque, e non indugiare.
Sap. Sta pronta la carrozza e le camerate, e solo mi
resta il ricever da voi la benedizione, con qualcheduno
de' vostri abbracciamenti e de' vostri ricordi.
Pern. Ah, Sapino mio, tu mi faresti piangere ; il cielo
ti benedica e ti accompagni : e se mai non ci rivedessimo,
to', eccoti un bacio ; tientelo per amor mio : e sai, dal mio
marito in qua, tu sei il primo che io abbia baciato.
Sap. Né pur io posso tener le lacrime ; e se non era
per commettere un termine d'inciviltà, certo che mi sarei
partito senza vedervi, per non provare il dolore di questa
durissima divisione : datemi dunque qualche ricordo.
Pe7'n. Che tu sia buono, e che tenga conto de' tuoi danari.
Sap. Quanto al primo, guarderò sempre che le mie azioni
corrispondano sempre alla mia nascita; quanto al secondo,
i danari mi daranno poca sollecitudine, perchè il signor pa-
dre me n' ha dati con troppa parsimonia.
Pera. Mostra un poco; quanti te n'ha dati? Veramente
bisogna compatirlo : cotesto di voi altri figliuoli sono spese
superflue, ed è meglio che gli spenda in benefizio dell'anima,
in quelle cose che dice don Pilone.
Val. (Monsii Sapino, dissimulate.)
Sap. (Potere!)
Pern. Mostra un poco, di grazia.
Sap. Eccoveli, signora: son luigi nuovi di zecca; e questi
dovrei piuttosto serbarli per un bisogno.
GIROLAMO GIGLI. 33
Pern. Sicuro, figliuol mio, questi non voglio che tu gli
spenda {gli prende), e ne terrò conto io per quando tu torni ;
perchè, per grazia del cielo, son sana e lesta, e spero
d'averti a rivedere, sai.
Sap. Diceva per un mio bisogno, quando sarò a Parigi.
Pern. No, no ; non voglio che tu gli spenda ; sarebbe
un peccato.
Sap. Ma se non ho altro, signora.
Pern. Manderò a dire a mio figliuolo che più tosto ti dia
tanta moneta spezzata. Non ti dubitare. Del resto, percln";
tu veda quanto t' ho voluto bene, ti voglio accompagnare
con un mio dono, che ricompenserà il valore de' trenta luigi.
Sap. Saril per vostra grazia, signora nonna ; ma quel
danaro ancora....
Pern. I danari vanno e vengono ; aspetta, aspetta, {torna
in casa)
Val. Siete pure imprudente ! Non vedete che la buona
vecchia intenerita, vi vuol dare alcuna delle sue gioje, e
forse quel prezioso diamante di quell'anello?
Sap. Finora mi pare che m'abbia tolto i danari.
Val. Che venga T anello, e non pensate ad altro.
Pern. {dalla finestra). Sapete, è una cosa che tien poco
luogo.
Sap. Tanto più mi sarà accetta.
Yal. K r anello senz' altro.
Sap. Ve lo diceva, monsù Valerio, che mi amava tene-
ramente !
Yal. Ve lo diceva, che voi dissimulaste !
Pern. {dalla finestra). È una gioja che avete a portar
sempre addosso, e non bisogna cavarsela mai.
Sap, Cosi farò. (È il diamante !)
Yal. Avete fatto il buon colpo : sapete voi che vai du-
ij^ento franchi ?
Sap. Manco male ! Tutto debbo al vostro consiglio.
Yal. Mal per voi se non sapevate dissimulare.
Pern. {dalla finestra). Per una malattia, per qualsivoglia
bisogno ; e ad altri che a voi, non 1' averci data a nessuno.
Sap. Tanto più m'obbligate. Ma di grazia, ricordatevi,
o signora, che la carrozza sta in ordine.
Yal. Eh abbiate llemma.
Pern. {vien fiiora tenendo roba sotto il grembo). L'ho
qui sotto il grembiale, e non l'ho portata quasi mai per
non la logorare. Dite un poco, indovinate che cos' è ?
Sap. Venendomi dalle vostre mani, non può esser altro
che un dono prezioso.
^ Pern. E prezioso di certo. Oh so che adesso non pensate
più a' trenta luigi, non è vero !
Sap. Quando così vi piaccia, potrete serbarmi quelli al
mio ritorno.
Pern. Staranno lassù sempre per voi. Orsù, nipote mio,
IV. 3
M SECOLO XVIII.
sappifitonfì tcnor conto, o. mettetcvela alla prima osteria
(l()\c andreti! stasni*a.
Sajt. Anzi voglio inetternicia adesso, so mi «ta bone.
reni. Vi sarà un pooo lun^a. Questa è la camicia che
si cavò don Pilone la prima volta che albergò in casa vo-
stra, e l'aveva portata tre anni, sonza cavarsela mui m.-ii.
Fi;,^liuolo, so ne terrete conto, andrete aceonipa/^MiafM con
una gran divozione.
Sap. Ali vecchia barbogia, vecchia interessata, vecchia
pinzochera falsa, ancora voi ! Monsù Valerio, m'è scappata :
Val. Sarebbe scappata ancora a me. (via)
Pern. Ah, meschino a voi ! Avete certamente qualche
demonio addosso, che nel toccare le cose buone s'è risentito.
Sap. Un demonio addosso l'avete voi, che è l'interesse
maledetto e l'ipocrisia; e non so chi mi tenga....
Pern. Ajuto, ajuto'. Monsù Sapino è spiritato. Ah, nipote
mio, fatevi scongiurare prima d'andar via, e non vi met-
tete a viaggiare in questo stato.
Sap. Facciamola finita, rendetemi quelle monete.
Pern. Oh questo poi no, che le gettereste via, voi che
siete spiritato, perchè da una parte ci è la. croce. Addio,
addio {via).
Sap. Madama Pernella? Monsù Valerio? Perduti i quat-
trini ! perduto l'amico ! Or vadane finalmente la vita, e quanto
ne può andare.
(Dal Don Pilone, atto II, se. li.)
ANTONIO VALLISNIERI.
Nacque a Trasilico di Garfagnana nello stato di Modena il
3 maggio 1G61 da padre medico, e ne continuò la professione, ag-
giungendovi però più particolarmente gli studj di storia naturale,
ne' quali riusci eccellente. Insegnò medicina pratica e teorica a
Padova (1700), occupando le vacanze in ricerche e viaggi scien-
tifici, specialmente intrattenendosi sui vermi e gli insetti, conti-
nuando e perfezionando per tal modo le sperienze del suo mae-
stro Malpighi e del Redi e distruggendo colle sue osservazioni
tanto nel regno animale quanto nel vegetale, l'ipotesi della gene-
razione spontanea. Onorato dai regnanti di quel tempo, desiderato
da corti e da università, ascritto ad accademie italiane ed estere,
celebrato dai dotti, fra i quali citiamo il Buffon e il Leibnitz, non
volle mai lasciar Padova, dove aveva pur incontrato tal volta
avversioni e persecuzioni per la novità e libertà del suo metodo
e delle sue dottrine, e dove morì ai 18 gennaio 1730. Scrisse, con
dottrina e acume, di geologia, di fìsica, di botanica, di anatomia, di
scienze naturali, precedendo in molti punti le moderne dottrine.
i
ANTONIO VALLISNIERT. 35
rispetto in specie alla parassitologia. Le sue scritture sono motlelli
non solo di scienza, ma anche di evidenza, chiarezza e briosa
eleganza. Tutte quante col titolo Opere fisico-medicìie stampate
e manoscritte, raccolte da Antonio suo figliuolo, furono edite a
Venezia dal Colcti nel 173:5, in 3 voi. in f. Nella Biblioteca di
Modena si conserva, come afferma il Tiraboschi, un volume di
Lettere di uomini illustri a lui indirizzate. Alcune lettere sue fu-
rono sparsamente pubblicate : p. cs. da A. F. per laurea Gaspa-
rotti, Padova, 1873; da U. Livi per nozze Mala fjola- Pi gnocchi,
Bologna, 1878; da C. Feruari per nozze Modona-Levi, Reggio
Emilia, 1881; da G. K. Zava per nozze Mori-Cini, Treviso, 1884;
le Dodici lettere inedite pubblicate e illustrate da G. BuOGNO-
LiGO, Foggia, Pascarelli, 1895, sono assai notevoli per arditezza
di dottrine e libertà di parola, sì da far desiderare che si raccolga
intero il suo carteggio scientifico.
IVedi per la biografia e bibliografia la Vita premessa dal Ui
Porzia alla raccolta veneziana delle Opere; il Tirarosciii, 2ii-
Itlioteca Modonese, V, 322; il FabroNI, Vitae Italor., VII, i);
I'Ugoni in Tipaldo, Biogr. del sec. XVIII, III, 4G0; L. CONFI-
(;ltaciii. Discorso intorno agli scritti di A. V., Padova, Semina-
rio 183G, ec]
L' Estro dei poeti e l'Estro degli armenti. — E l'Estro, se-
condo i poeti, un certo furore, die ^li agita e rapisce come
fuora di loro stessi, sforzandogli a cantare cose pellegrine
e rare, e infìno superanti V umana natura. Quindi è, che lo
chiamano alcuni sacro : altri, perchè qualche volta esce
da' limiti del buon costume, lo dicono cieco, violento, or-
ribile, e finalmente quando sono invasati da questo, e pos-
sono veramente allora gloriarsi d'essere poeti, l'onorano
anche col titolo di laurigero
Mi l'arò lecito riferire ciò, che intorno allo stesso ho ri-
trovato in un logoro manoscritto d' un antico pastore. . . .
Scrisse duncjue il buon vecchio, che si gloriava anche esso
d' essere seguace d'Apollo,
Sive lyrat cantua, medicaa eeu diaccret arlea,
non essere V Estro Poetico medicamente spiegato, che una
forte, ma regolata agitazion degli spiriti, fattasi o per
un'interna fermentazione, o bollimento de' nostri fluidi, posti
in un estraordinario moto da qualche cagione non naturale
(medicamente intesa) o dalla fantasia, che fa violenza agli
organi, de' quali l'anima si serve per formare le idee, in-
crespandosi e movendosi con tanta e sì strana forza le
fibre, che vengono spremuti e commossi con maniere pel-
legrine e insolite tutti gli spiriti, che sono destinati alle
operazioni della suddetta: onde allora i poeti formano anche
30 6KC0L0 XVIII.
ideo maravifjlioso e rare, riscaldandosi l'immaginativa e
liraiido^rii a forza come fiiora di loro stessi : di maniera cliu
(|UJikh(; volta in persone deboli, o di pasta troppo dolce, o
tropi)o lml^^'l^lente afluticate, tanto s' infiamma col tempo
o. si perverte dallo stato suo placido e naturale, ehe si vi-
ziano un'atto le fibre del loro ef^rvello, e si fan pazzi. Quindi
ò (segue il buon pastore, dichiarandosi di non parlare di
(|uei del suo secolo), clie avca udito dir da' più vecchi, e letto
ancora ne' suoi antichi annali, come molti celebri poeti,
erano all' impi'ovviso divenuti pazzi o maniaci, facendo con
rossore di quest'ai'te nobilissima e sacra, adoperata nel loro
lin{,'uaggio insino dagli Dii, facendo, dico, parere in alcuni,
essere fjualche volta la poesia una bella e gentile disposi-
zione alla pazzia. Parla, con eccezione sempre de" savj, ma
solamente di chi non ha gran fondo di materno senno, o
non ha una naturale saldezza di cerebrali fibre, restando
in quegli entusiasmi e empiti violenti, troppo sforzate e
qualche volta perpetuamente viziate. Al contrario, sog-
giugne, quando i poeti sono di soda tempera, o da un forte
e retto giudizio regolati, con quella insolita violenza degli
spiriti, e con quel gagliardo increspamento di fibre produ-
cono idee così nobili, e sopra il vulgo degli uomini innal-
zate, che creano il mirabile in chi gli ascolta, strascinano
gli uditori con loro stessi fuora di loro, gli sollevano in alto
e gli trasportano senza avvedersene in un certo beato di-
letto, che dimenticati d'essere in questo mondo, restano
come estatici, e si fermano attoniti
L'Estro di cui favelliamo è senza fallo derivato dairp:stro
de' naturali filosofi. Imperocché, come abbiamo nelle antiche
favole, bramosa Giunone di sbrigarsi afifatto d'Io già trasfor-
mata in vacca, fece che una Furia balzandole addosso in
forma d' Estro, ossia Assillo, talmente la molestasse, ch'ella
smaniosa e furibonda andò lungamente per molti luoghi gi-
rando; il che tutto conferma Plinio, come sapete.
È dunque V Estro, conforme i naturali storici, un ani-
maletto volante, il quale fu detto dai Greci Oestros dal
suono del volo, o dall' eftetto che produce, quia furorem,
quem Oestron vocant, animalibus, quae persequitur, in-
ducit, come fu scritto. Da' latini fu chiamato Asilus, dai
toscani Assillo, da alcuni scrittori malamente Tafano, e
da' nostri villani col vocabolo dei latini e dei toscani cor-
rotto, Asiolo. È alquanto maggior d'un moscione, noioso
molto a' buoi i quali pugne asprissimamente, e che temono
quasi più, che qualsivoglia altra ferocissima bestia. Molti
poeti antichi lo conobbero per quello ch'egli è, e se ne ser-
virono per maledizioni o per espressioni d" un'insolita e
molesta agitazione degli spiriti.
Chi se n' accende,
Divenga toro che l'assillo stimoli;
ANTONIO VALLISNIERI. 37
(liceva in una sua eglof,^a Lodovico Martelli : ed il Guerini,
volendo esprimere la lierezza d' uno, scrisse :
Feroce sì, clic par eh' abbia l' assillo ;
che il Pulci nel Morgante, in altro senso, con assai inge-
gnosa similitudine espose, dicendo :
Quanti ne pugne, par eh' abbian l'assillo.
Il che par tolto da un vecchio proverbio del nostro vol^'^o,
che per esprimere il vizio d'un uomo, o d'un lanciullo, che
mai non stia termo, dice: Pare, che nhhia l'Asioio indosso.
GT ingegnosissimi e politissimi fiorentini per ismaniare
per puntura d' assillo, dicono assiliai^e, e metaforicamente
anche di coloro, che baccanti danno nelle furie, quasi fe-
riti da (luella terribile bestioluzza. Così Dante scrisse, die
quella Mosca fece assillare Uberti e Amidei; ed il citato
l'ulci nel Morgante :
E parvo un toro bravo, quando assilla.
È ben però vero, che nessuno si piccò mai nò si prese
pena alcuna di cercare qual maniera d'animale fosse costui,
d'onde tirasse i suoi natali, e come poi facessp a stimolare
SI acutamente e a tormentare fino alla rabbia gli armenti,
ponendo in fuga non solamente le vacche e i pigri buoi,
ma (jualsivoglia più atroce toro: anzi al solo sentirlo fischiar
per l'aria, ognun di loro si raccapriccia, avvilisce, e un cos'i
subito terror lo sorprende, che confuso, inquieto, appassio-
natissimo, procura ogni scampo, e come acciecato, senza ri-
tegno alcuno, fugge e precipita per diritto e per traverso
iiisino giù dalle balze più spaventevoli. Senta Oppiano tra-
dotto dal greco :
Già de' lieti pastor, de' dolci paschi
Nulla euran, trafitti; e l'erbe vcidi
Lasoian, indi le stalle, e in un gli arnionti.
Infuriano per rabbia, e star non pouno
Lungo il mar, presso ai fiumi, infra le valli,
E nò men dentro i cavernosi sassi.
Enipion lo selve ognor d' alto muggito ;
E da crudele stimolo sospinti
Saltan pei campi furiosi, e vanno
Torcendo il piò con minaccioso orrore.
Ne contano tutti i pastori funestissime storie ; e non va
guari, che a me narrarono che un assillo gittatosi a vista
di molti sul dorso d'un bue, che unito a tre altri tirava un
carro ponderoso molto, fu cagione che si posero tutti e
quattro in sì ruinosa fuga, che giunti a un fiume vi si get-
tarono dentro precipitosamente d' accordo. E pure fuora di
questa strana occasione, si lascieranno ben uccidere sulla
ripa o sull'orlo di qualche precipizio i cauti buoi, ma non
38 SECOLO XVIII.
si farà ^Miiiinnai elio vi t)alzino con (jucl ricco oi^o^ìn,, c.in
nui assaliti dall' assillo vanno senza sapcn^ «Jovo vadano, •;
incont I-ano inflno la morto. In una llora di bnstiaini, che
in un luo^o su' nostri monti di Iteg^io dett^j Vtvv//'^ poci
fa si fece, volarono alcuni assilli, che sentiti ronzar por
l'aria da' suddetti, boncliò lo^^ati e co* loro " ' '
incominciarono prima a fremore, poi a dibat
monte contorcorsi, (; in Hno con orrendi mug^Mti a tentar
la fuga con tanto impeto, anzi furore, che in un batter
(rocchio nac(iue uno scompiglio terribile, e con danno delle
merci e de^li uomini irreparabile, tutto si sciolse in un
tratto, resto libero e voto il campo, salvandosi ognuno noi
miglior modo, che lo consigliava il timore e l'innato desi-
derio di conservare la vita. In quella guisa appunto, che
fuggono disperatamente le pecore la vista o gli urli del lupo,
e le colombe il falcone, cos'i gli armenti, l'assillo o l'estro.
Non v' è stato, per vero dire, alcuno fra* poeti o istorici
greci, latini o toscani, che meglio di Virgilio nella sua
(ieorgica abbia descritto il luogo, dove questi dimorar so-
gliono, e gli effetti che fanno, ed il terrore che imprimono
negli armenti, e insino il tempo, nel quale gli assaliscono,
come debbasi procurare che non gli tocchino. Porto i suoi
versi traslatati nella nostra volgar favella, benché non pos-
sano aver giammai quella maestrevole grazia, che dalia sua
divina Musa contrassero sino al miracolo :
Là di Silari intorno a i cupi boschi,
E d'Alburnio, che d'elei alto verdeggia.
Molti stanno ad ognor volanti insetti,
Cui Koma Assilli, ed Estri il greco appella ;
Aspra turba, che un vii sussurro acerbo
Forma ; e, da lei ferito, entro le selve
Di spavento ripien fugge l'armento;
Talché da i fier muggiti ognor percossa
L' aria ne freme, e freraon le boscaglie,
E dell'arso Tanagro ancor le rive.
Già con tai mostri esercitò Giunone
Gli orribili suoi sdegni allor, che giunse
A meditar vendicativa e altera,
Dell' Inachia giovenca il danno estremo.
Da questi adunque (poiché son più infesti
Quanto più ferve il giorno) or tu ben lunge
Tieni il gravido armento, il quale ai dolci
Paschi sia che tu guidi allor, che il sole
Spunta novello in oriente, e quando
Tornan le stelle a ricondur la notte.
E qui mi piace di riflettere : quale intollerabile martirio
è mai quello, che alle misere bestie apporta un così pic-
colo volante, infamato da Virgilio col nome di mostro, scelto
dall' ira di Giunone vendicatrice a gastigare la sfortunata
Io convertita in giovenca? Bisogna pur credere, che im-
ANTONIO VALLISNIERI. 39
pi'inia un acerbissimo dolore, che muova spasimi di morte,
^Macché per isTuggirlo, o nulla (luesta temono ovvero di
buona voglia V incontrano. ISe la pecora fugge il lupo, e
la colomba il falcone ; e aggiugniamo, se scappa dal cane
la lepre, dal leone il cervo, e così parecchi altri destinati
in preda a' più forti od a' più cauti, costa a tutti la vita
r incontro degl' ingordi loro divoratori ; ma che un vilissimo
assalitore insetto, incomparabilmente men forte, e migliaia
di volte men grande dell' assalito, che non fa altro che fo-
rargli la dura pelle, cotanto lo spaventi, lo turbi, gli faccia
provare crudelissimi ed insoffribili tormenti, mi pare una
cosa non all'atto indegna d'un vostro nobile pensiero. Anch'io
esporrò il mio debole sentimento, quando accennerò il fine,
per cui fora o trivella quel duro cuoio : non sentendo in-
tanto volentieri, che i nostri amici poeti desiderino tutto
giorno con ardore questo Estro, e sovente si vantino d'averlo
in corpo: perocché voi vedete, come avvelena gli spiriti,
come gli confonde, gli turba, e come maltratta coloro, i quali
appena esternamente assalisce, e buca la loro sola pelle.
Della nascita, della vita, e del fine di costui dissi qualche
cosa nel primo de' miei Dialoghi fra IMalpighi e Plinio. . . .
ma dirò molto più questa volta, avendo voluto rifare tutto
lo osservazioni più al minuto. . . . Premetterò alcune os-
servazioni, senza le quali non si può ben capire l'indole e
il genio di questo insetto agli armenti sì formidabile ; dipoi
passerò a descrivere il suo verme, la sua crisalide, e final-
mente il volatile e i suoi costumi.
I. Quando i bestiami dimorano sempre nelle stalle, o
quando sono diligentemente ogni giorno stroppicciati, fre-
gati e ripuliti colle stregghie di ferro, non patiscono certi
vermi, detti da' nostri contadini Tavoli, che annidano, sepa-
ratamente uno dall' altro, sotto la pelle, e dai quali a suo
tempo e in luogo proprio incrisalidati, scappa l'assillo.
II. Questi vermi non si veggono mai nelle gambe, o dove
giungono a percuotersi colla coda, o colla lingua a lambirsi,
ma sopra la schiena e ne' fianchi, e (lualche volta infra le
spalle e nel collo, in qua e in là seminati fino al numero di 30.
III. Non se ne osservano di sorta alcuna negli animali
troppo pingui, o mal sani : nò se ne scoprono mai in quegli,
che non sono stati forati dall' assillo, ponendovi appunto
nel tempo della ferita l'uovo, dal quale poi nasce il menzio-
nato Tavolo, verme, che resta sempre a nutricarsi dentro
il tumore, come fa quello delle mosche silvestri dentro le
galle delle querele, o altri vizj o punture o fenditure delle
piante: potendosi appropriare a questi ciò che disse in altro
proposito quel nobile pastore di Virgilio:
animasque in vtilnere jìonunt.
IV. Ogni tumore, dentro il quale annida il verme ha dal
principio tino alla fine un foro nel mezzo, che si va poi
40 BKCOLO XVIII.
(lilu(:iii(l(>, (jiiiinilo il verino matura n<l ò virino arJ uAciro,
corno fa appmilo la liorw.i d. " ■ ., nei Virtjmri.
V. Noli H('inj)ro (!i<'sc<' «j . irlo o v<Tin«* «i perfo
/ione, ma (lualchc fiata, o senza o con manifesUi cacone,
niuoi'c e infracida.
VI. Se passato ^Mii^mo, o insino alla metà in circa di
Indillo, nelle bestie; che aÌ)itano le pianure viein** alnif*ii'>
ai nosti-i monti (dove nell'amenissima ville;;f(iatui-a di «juesUi
estate lio rifatte le osservazioni), i detti vermi dei loro tu-
mori non escono, per l'ordinario muoiono Cquando peròsieno
di (jnelle condannate all'aratro nei campi aperti), per li
troppo cocenti ra^';,'i <lel sole, che ^di ucci(ìono ; ma (juando
sono di libei'tà, e possono nei pascoli e nei boschi tirarsi al-
l'ombra, scf,'uono a vivere, ed a suo tempo scappano fuora.
VII. Se colle dita si palpa il tumore, si sente il verm<*
star lento dentro ({uello, e potere per ogni banda a suo
capriccio voltarsi.
Vili. Cavato immaturo, se si tiene sopra la mano o si
mette sopra una tavola, sta sempre immobile e pare morto,
e solo con celerità si muove e da sé stesso fug^'e, quando
è arrivato alla sua total perfezione, e cerca luogo di (juiete
per divenii'e crisalide.
IX. Quando si schiaccia o si spreme con forza il tumoie,
e si fa schizzar fuora il verme molto immaturo, dilatandosi
violentemente l'accennato foro, esce con essolui solo sangue,
quando si faccia fuora più grande, viene accompagnato da
un certo sugo bianco e viscosetto, non fetente, con copia
minor di sangue ; quando è vicino alla maturità, esce col
solo suddetto sugo e senza sangue; e finalmente quando
è affatto maturo e da sé stesso fugge, nulla dal dilatato
foro distilla, e poco dopo, senza danno alcuno dell' animale,
salda e rammargina.
X. Facendosi uscire collo stringere la base del tumore, si
vede sempre uscire colla parte diretana avanti, dove sono le
sue bocche del respiro, come dimostrerò nella sua notomia.
XI. ISIa uscendo da sé, per andare a incrisalidarsi, esce
colla parte davanti, come fanno tutti gli animali, quando
sortiscono dal carcere del loro utero alimentatore.
XII. Non allignano questi vermi negli armenti, che sono
nelle pianure pingui o nei pascoli umidi, ma si osservano
solamente in quei che abitano i monti, i colli e le pianure
secche, e particolarmente dove sono selve o boschi vicini
a quelle.
XIII. Non se ne veggono per ordinario sopra vitelli, ma
sempre sopra tori, vacche e buoi.
XIV. Qualche volta se ne trovano nei cavalli, che vivono
su luoghi montuosi e pascolano con libertà nei boschi e nei
campi, né sono governati colle stregghie dentro le stalle,
e, per osservazione del signor Redi, anche nei cervi, e forse
jiei daini, nei camelli e simili salvaticlie bestie.
ANTONIO VALLISNIERI. 41
XV. giiuUe però, clie sono di Inumili e Colti peli arniate,
sono esenti da costoro, benché ne alimentino poi di un'altra
specie dentro il naso e infra le ossa della cavernosa loro
fronte, come ho dimostrato in altro luogo; della quale gli
armenti ne sono liberi per la lunga ed ispida lingua, con
che facilmente detergono le uova deposte dentro l'orlo di
(luello.
XVI. Questi vermi non diuìorano più di nove o dieci
mesi in circa sotto la pelle, nel quale tempo ingrassando
e pasciuti sino alla lor perfezione, abbandonano il tumore
da loro stessi, come si e detto nel i^i IX.
XVII. Usciti, si ritirano sotto qualche minuzzolo di terra,
e fra sasso e sasso, o si intanano dentro qualche buca o sotto
leggiero e facile terreno, e colà si quietano, come fanno i
vermi dei rosai, quei dei salci, del capo dei castrati, delle
pecore e simili. Quietati, diventano crisalide, come fanno tutti
i vermi delle mosche, delle zanzare e di tutti quanti gli insetti
che diventano volatili; della quale finalmente, dopo qualche
tempo, esce un nuovo assillo o estro simile ai genitori.
Da tutte queste osservazioni premesse, io mi avveggo,
che già col vostro sano intendimento voi comprendete una
cosa, non mai dai nostri vecchi pastori nò osservata nò
intesa, cioè essere T assillo o l'estro una rara specie di
mosca, armata nel fondo del ventre di un acutissimo pun-
giglione, con cui fora e trapana il cuoio a gli armenti, e
depone, dentro il buco fatto, un uovo accompagnato da un
agro e potentissimo sugo, clie irrita con intollerabili spa-
simi i nervi, che tessono il medesimo, e lo guasta e lo cor-
rompe in maniera, che finattantochò vi dimora il nato
verme, mai più non rammargina, e vi resta sempre nella
sua sommità uno spiraglio aperto, a guisa di listola mor-
ì)osa, da cui riceve il benefizio dell'aria esterna per lo re-
spiro, e di cui dilatato appoco appoco esce a suo tempo.
Dall'uovo dunque posto dall'astuto animale colà dentro
come al covaticcio, nasce quel verminaccio, che chiamano
i nostri rustici non malamente Taralo, quasi Tarlo, pe-
rocché in fatti, a guisa di certi tarli di legni verdi, si nu-
trica di quel dolce sugo nutrimentoso, che da quella rosura
distilla e geme. Cresce costui appoco appoco senza nota-
bile danno della sanità deiranimale; anzi i pastori argo-
mentano della sanità dello stesso dall' essere abitato dal
detto verme, il quale dimora stabile in quel luogo tutto
l'inverno, finché ingrandito incomincia a farsi vedere il tu-
more, entro cui annida, crescendo anche esso tanto, quanto
basta a conservare adagiato e comodo quell'ospite incle-
mente sino alla destinata sua perfezione : alla quale giunto,
esce da sé l'estate ventura, e cerca luogo di quiete, dove
si fa crisalide, della quale poi finalmente si sviluppa, e
scappa un alato simile ai genitori, che è V assillo o V estro
de' naturali filosofi.
42 Hìicoho xvin.
(Isoiio, si traUione qualche poco, corno immobile o sba-
loidifo, sopra o vicino la .spoglia del Vf-rciiio r-arcur**», «love
riM (;liiii.so: si scarica poco dopo dì certi cscrcineiiti lluidi
V jfialiicci : di poi cammina pian piano all'aria o al sole,
dove dimora llnaltantociiò le .-ili e le parti tutte del corpo
ancor tenere e molli s'indurino e si fortincliino : assicurate
lo quali e preso flato, allarga le ali e vola. Cosi fanno
tutti a suo tempo: dappoi nei luo;(lii ombrosi d'accordasi
ritirano, cioè nelle vicine siepi o nei boschi o sopra querele,
lezzi o roveri, come in parte avvisò pure nei citati versi
(juel Ira' pastori pastor più saggio, Virgilio.
Colà vivono, colà si nutricano, come le altre moscli«*,
di sughi di Mori, di fi'utta, di piante e simili, e l\)vse di
immondizie e sucidumi : colù, celebrano le loro nozze, e
restano fecondate le femmine : le quali in l^le stato poste,
stanno in agguato, se passa qualche toro o vacca o bue,
e fischiando per l'aria, vi si lanciano con empito sopra, a
guisa di fulmine, per forar loro la pelle, e deporre l' uovo
già fecondato, o gallato, come si è detto. Ovvero, guidate
da quello occulto incognito istinto volano in qua e in là,
e a bella posta gli cercano, per celebrare, a favore dei po-
steri, quella sì strepitosa faccenda.
Temono costoro la rugiada ed il fresco della mattina e
della sera, restando da quella bagnate le ali, e da questo
intorpidite le membra; perciò non s' arrischiano a scagliarsi
nò a tentare 1' assalto, se non quando il sole colle maggiori
vampe riscalda l'aria, come ottimamente notò pure Virgilio,
che negli interessi egualmente dei pastori che degli eroi
sentì tanto avanti. Quindi è, che con savio consiglio per-
suade a non condurre a pascere gli armenti, se non nell'au-
rora nel venire la notte, nel qual tempo stanno acquattati
e melensi, né s' azzardano alla grand' opera. Lo che trovo
pure in Omero, dove narra che davano doppia mercede a
que' pastori, che tanto di giorno quanto di notte pascevano
i bestiami, cioè nella notte i buoi, i cavalli e gli altri armenti
meno pelosi ; nel giorno le pecore, le capre e simili, i quali
per la lunghezza de' peli sono sicurissimi dagli aculei do-
lorosi degli estri. Cosi dunque traslatato dal greco in ita-
liano saviamente ragiona :
Ma quivi il buon pastor serapremai desto
Doppia alla fine egli n' ottien mercede :
La prima i buoi pascendo, e l'altra il bianco
Velloso gregge : imperocché vicine
Della notte e del dì sono le vie.
Sono parimente noiosi, come la plebe ingorda e teme-
raria delle altre mosche, ed escono sovente a stuolo alla
terribile impresa poco avanti che piova: o perchè questa,
non so come, antivedendo, pensino che le deposte uova
ne' dorsi delle forate bestie non saranno cotte cosi subito
ANTONIO VALLISNIERI. 43
dall' ardente sole, e più sicure e più morbido con dolco o
amica tepidezza resteran lomentate ; o perchè, essendo al-
lora in quel torbido moto più agitati, saranno anche più
commossi e meglio attuati e pronti i loro spiriti leconda-
tori. Le femmine sole vanno armate del pungiglione : im-
peroccliè sarebbe ai maschi inutile peso e ordigno ozioso,
non servendosene mai per vendicarsi o difendersi, come
fanno le api, le vespe e i calabroni, ma solamente per bu-
care in quel tempo la pelle e deporvi l'uovo: la quale prov-
videnza della natura vidi ancora osservata nel maschil sesso
delle mosche mie de' rosai domestici e de' salvatichi
Una volta, quando feci le prime osservazioni, non potei
distinguere il pungiglione, o perchè forse quello che mi
venne fatto vedere, era maschio, o perchè lo lasciai troppo
inaridire, o perchè noi seppi trovare. L' ho finalmente tro-
vato, e sta internato e nascosto negli ultimi anelli ; e m' è
riuscito distinguerlo composto e artificiosissimo, come imma-
ginava, simile molto a quello della mosca de' rosai, da me
in altro luogo descritto e disegnato. Egli è formato di tre
distinte parti, che tutte in un punto concorrono a questo
strepitosissimo lavoro, cioè d' un canale, come d' un ovi-
dutto, nel mezzo, che porta o guida e spigne V uovo nel
destinato nido, e di due dentati ed asprissimi come trapani,
che lo tengon nel mezzo, e gli fanno la strada, l'introdu-
cono, e lo guidano, come per mano, dentro la pelle. Questi
due trapani sono nelle parti laterali tutti armati come di
piccoli coltelletti, che col taglio e colla punta feriscono e
s(iuarciano: onde voi v'accorgete adesso, come quell'aculeo
neir introdursi e nel muoversi che debbo fare, alzandosi ed
allargandosi, ecciti intollerabili spasimi. Imperocché è ne-
cessario che si lacerino le fibre e i nervi tutti, che tesson
la pelle : il che non può farsi senza un atroce dolore. Ma
(jucsto dolore dello squarcio delle fibre e de' nervi non è
solo. Cola dietro al pungiglione, come cola dietro al dente
della vipera e al pungiglione delle vespe, delle api e de' ca-
labroni, una specie di mordacissimo veleno, che rabbiosa-
mente irrita, ammorba e per così dire abbrucia quelle di-
licatissimo file de' tronchi nervi, acciocché s'increspino e si
ritirino, e non possano più riunirsi e saldar la ferita ; la-
sciando colà, finché dura il verme, una specie di morbosa,
incallita ed arida fistola, che deve sempre stare aperta, per
r uso tanto necessario dell' aria che continuamente entra
ed esce del luogo, o ricettacolo dell'uovo deposto, acciocché
possa nascere, e nato respiri, viva e cresca. Penetra più
oltre il sugo, a quella sola parte mortifera, ed arrivando
sotto la pelle, fermenta co' sughi dell'animale e fa dilatare
le insanguinate pareti: onde s'appiana, si prepara e s'al-
larga una capace cavernetta all' ospite che debbo nascere,
e nato nutrirsi della linfa, che suol portarsi a quella parto
por irrorarla e alimentarla.
i
J I 8KC0L0 XVIII.
VA odoniiYi giunto, senza avvoderiiKMic, a<l osporvi, o ri-
verito pastore, lo ragioni, per Io quali tanto ricalcitrano,
nìuffjfiscono, tn.Mnano, fti^^^'ono e dipperatamentf} s'appas-
sionano, (juando sfnioiio <|tiel tristo romor<';.';^Mar per l'aria
fieli' ussiilo ; e jiiii anr(>ra, <|u.'irnio lo provano piantai) sul
loro florso : ni'jiitre non soianicnte ])rovano i' arguto dolore
delia iacerazion»? delie nervose Bensibilissime fibre, ma finello
ancora d'un aj^ro (; mordacissimo su;]^o, a fjuisa fli spirito
«li zolfo o di vitriuolo ir-ritantr», e Stranamente fermenta-
tore. — (Dal liaf/io/i/f/ftcnto sìiir Estro ffe' Poeti e deffli Ar-
menti, diretto ai Custode gen^-rale d'Arcadia, inserito nel
tomo I delie Opere di A. V., pa^^. 226 e segg., Venezia, 173.'!)
IACOPO ANGELO NKLLI.
Poco 8i sa intorno a qncsto comniedioffiafo BcncHC. Ettore Ro-
magnoli, biografo degli illustri suoi concittadini, lo fa nato nel 1070
V. morto di novantasei anni nel 17<'»0, ma il Pccci, suo contempo-
raneo, ci dice elio mori di novantaquattro anni ai l'I gennaio 17<*7,
Sappiamo de'fatti suoi, che nel 10U4 recitò neil'Accadinnia dei fisio-
critici una Orazione panegìrica di san Giustino, e nel 1760 preluse
alle onoranze funebri fatte al grande e modesto economista Sallu-
stio IJandini. Fu amico al Gigli, del quale il Gamba afferma conti-
nuasse il Vocabolario (Jateriniano, interrotto per ordine granducale
e bruciato dal carnerice: ma forse si disse che l'opera, dalla voce
Raguardare in giù, fosse d' altri, per togliere nuove brighe al
Gigli : e al pari del Gigli fu nemico dei bacchettoni e dei gesuiti,
dei quali scrisse: «io mi rido dell'odio loro, perch'essi rispetto
a me sono come il diavolo rispetto a' cristiani. > Vesti abito ec-
clesiastico, e visse ora in Siena, ora nel contado, in Castellina del
Chianti, donde alcuno lo fa nativo, ora a Roma o a Firenze, pre-
cettore in casa Strozzi. Alcune rime burlesche, una tragedia e il
suo carteggio si trovano nella Comunale di Siena. Le migliori Kcrit-
ture sue sono le Commedie, delle quali diciannove furono messe
a stampa, e se ne citano due raccolte, l'una cominciata a Lucca
nel 1731, ripigliata a Siena vent' anni dopo, poi interrotta di nuovo
per quattr'anni e da ultimo condotta fino al voi. sesto : l'altra, in
cinque volumi, che riproducono la materia dei cinque dell'ante-
riore, data fuori a Milano dall'Agnelli nel 1752. Altre rimasero
inedite, nò si sa se esistano ancora. Di undici di esse abbiamo
ora una ristampa procurata da Alcibiade Moretti, presso l'edi-
tore Zanichelli, 1883-89, in 3 voi. Nelle sue commedie imitò spesso
il Molière, e le scrisse in forma piana insieme e vivace e con lingua
schietta e senz'affettazione.
[Vedi sulla sua vita ed opere un saggio di A. Moretti nella
Rassegna Nazionale, anno XII, voi. LI, fase, del 1° febbraio,
pag. 409-42G, Firenze, 1S90.]
Iacopo angelo Nelli. 45
Un padre tenero.
Bonario (solo). fìiso^Mia che quella me' moglie nV abbia
liitto qualche malia; che, quando la vedo, mi sento tutto
abbassar V orgoglio e distruggere tutte le buone risoluzioni
che avevo fatte. Oh i' la feci pur col manico la corbelleria
(juando la presi! E pure un certo mio amico me l'aveva
detto.... ma e' m'era riuscito si bene a quell'altra, ch'i' calai
alla pania, e la presi fresca di età, perchè detti fede a
quel proverbio che dice : A cavai giovane vecchio caval-
cante ; ma i' ho dato in una bestia pazza, che m' ha tratto
giù di sella in maniera, che non ho più coraggio di rimon-
tarci. Se tutto il male po' poi fosse il mio, direi: ben mi
sta, e me lo succhierei con pazienza : ma quo' miei poveri
ligliuoli che colpa ci hann' eglino ? Uh, io non posso pen-
sare a quel me' povero Valerio, che non me ne scoppi il
cuore. Fuor di casa : senza quattrini : con degli incomodi !
Chi sa il poverino quanto stenta ! I' lo vo cercando per Fi-
renze, e non l' intoppo mai : vorrei pur trovarlo per dar-
gli.... (s' incontra in Valerio). Oh sia ringraziato il cielo;
che fai, Valerino mio, ch'ò tanto che non t'ho visto?
Valerio. Che vuol eh' io faccia, signor padre ?
Bon. Triboli, non è vero, poveretto, fuor di casa tua?
Val. Eh, signor no.
Bon. Sì, sì, non me l'hai a dare ad intendere, e di più
senza quattrini : tieni (gli cld un gruppo di denari).
Val. La ringrazio, signor padre, ma non sono in tanta
necessità.
Bon. A vestiti, come stai ?
Val. Competentemente. Ho portati meco tutti quei
buoni che aveva.
Bon. E poi saranno rotti, ve' ? l'iglia, fattene uno a tuo
gusto (gli (Id un altro gruppo di denari).
Val. Servirà quando ne averù bisogno.
Bon. E la salute?
Val. Grazie al cielo, la godo perfettissima.
Bon. Non hai ne meno un dolor di capo ?
Val. Sto perfettamente.
Bon. Ma se ti venisse ? Poverino, non averesti né meno
da pagare il medico, non è vero? Prendi, eccoti dieci dop-
pie (gli (Id un altro gruppo : ci lo ricusa).
Val. Spero che ciò non accadrà, ma quando accadesse
ho denari soprabbondantemente a tal bisogno.
Bon. Eh, non dir bugie! Prendi prendi (gli fa pigliare
i denari).
Val. Faccio per non disobbedirla.
Bon. In casa d' altri, lo so, si sta male : quanto ti com-
patisco !
Val. In casa del signor Buonamico sto, posso dire, an-
cor meglio che in casa propria.
4(i SECOLO XVlIf.
lìnn. VÀ\ non me 1" hai a «lir a iuv.\ .s»* ii \iuno una vo-
^Hia (T una coppia <!' uova o «l'uri pi(rcione, tu non !<• la
j)iioi cavare.
Val. \\\ quella casa non manca niente;. V. poi basterebbe
che io parlassi, per esser soddisfatta) di tutto.
lion. Ma la servitù....
Val. V. obhodienlissiina ad o^nii mio cenno.
Bon. Non importa, ci vogliono delle mance. Kccoti dieci
altre doppie {(/Uc le mette in mano).
Val. Signor padre, V. S. ha troppa tenerezza per me,
ed io....
lion. Non voglio che tu patisca: queste son venti più
per la cioccolata e pel caffè....
Val. Ma ella....
Bon. Zitto, zitto, non parlare, e goditele per amor mio.
Se tu sapessi quanto mi dispiace che tu abbi a stare fuor
di casa. Uh, uh, uh (piange).
Val. Non s' aflligga per questo, Io sto bene, ed in breve,
come spero, si cangeranno le cose.
Bon. (piangendo). Uh, uh, uh. Abbi pazienza, ligliuol
me' caro, uh, uh, uli. Quella benedetta donna.... uh, uh, uh.
Val. Le si farà mettere il cervello a partito.
Bon. Io non ci ho colpa, e vorrei.... uh, uh, uh.
Val. Non si tormenti in questa forma, le dico. Io sono
sicurissimo del suo affetto.
Bon. Bisogna che io me ne vada, perchè mi sento scop-
piare il cuore (paiate piangendo). Sta" allegramente, figliuol
mio (via).
Val. Faccia lo stesso ella pure. — Gran buon cuore che
ha mio padre verso di me, ed io sarei molto ingrato....
Bon. {ritorna). Valerino mio, dimmi la verità : tu non
hai un quattrino?
Val. Come, se me n'avete dati tanti voi adesso?
Bon. Tu non me lo vuoi dire : tieni ancora questi {si
"vota le tasche). Abbi pazienza, non ne ho più {partendo).
Uh, uh, uh. Gli è un ligliuolo d'oro il poveretto {via).
Val. È un padre che merita ogni obbedienza ed affetto.
(Da La moglie in calzoni, atto III, se. 5-C.)
LODOVICO ANTONIO MURATORI.
Nacque in Vignola nel modenese di poveri genitori il 21 otto-
bre del 1672 : studiò in Vignola, poi in Modena presso i gesuiti
con grande amore ed assiduità.' A Modena frequentò le conversa-
* L. Vischi, L. A. Muratori studente, nella Cronaca del Liceo Muratori,
Modena, Toschi e C, 1882.
LODOVICO ANTONIO MURATORI.
47
zioni letterarie in casa del marcliese Giovanni Kangoni; e, anche,
mediocremente, poetò. Dal conte Borromeo venne invitato a Milano
come dottore nel Collegio ambrosiano e prefetto della Biblioteca
omonima nel lODu, e nello stesso anno fn ordinato sacerdote. Fn
poi richiamato in Modena dal dnca Rinaldo I come bibliotecario e
archivista di corte. Viaggiò (1714-16) per ricerche negli archivi
italiani; ebbe poi, col titolo di proposto, il benefizio di Santa Maria
della Pomposa. Rinunziò alla cattedra che gli era stata oflerta a
Padova, a Torino, a Roma. Visse vita pia, studiosa, difendendosi
peraltro vivamente contro il Cenni, il Fontanini, il Quirini, Io Zac-
caria, che lo costrinsero alla
polemica. Ebbe pur vivo il
sentimento dell'amor di pa^
tria ; e dal suo epistolario si
vede quanta viva parte pren-
desse alle vicende politiche
e guerresche del suo tempo.*
Fn Arcade col nome di Leu-
colo Galeate. Mori in Modena
il 2:J gennaio 1750. Nel 1872 fu-
rono celebrate in suo onore so-
lenni feste per il secondo cen-
tenario dalla nascita * e pub-
blicati (Bologna, Zanichelli)
alcuni suoi Scritti inediti.^
Accenniamo cronologica-
mente e brevemente agli scrit-
ti da lui lasciati. Gli Anecdota
latina, in due volumi pubblicati nel 1G07-98 contengono, fra l'altre
cose, quattro poemi di San Paolino di Nola. Nel 1700 pubblicò,
insieme con la vita del poeta, le rime di Carlo Maria Maggi;
nel 170.'i 1 primi disegni della Repubblica letteraria d'Italia, col
nome di Lamindo Pritanio, allo scopo d'istituire un'accademia
atta a migliorare lo stato delle lettere; nel 170<) Della perfetta
poesia italiana, che fu poi ripubblicata con annotazioni critiche
di A. M. Salvini ; nel 1708 inflessioni sopra il buon gusto nelle
scienze e nelle lettere. Nelle questioni tra la Chiesa, l' Impero e
gli Estensi sul dominio di Comacchio e di Ferrara, sostenne cal-
damente le ragioni del potere civile in varie scritture (1708-1714).
Pubblicò poi gli Anecdota graeca (1700), e due altri volumi di
* V. Santi, Il Muratori durante la guerra di Lombardia, 1733-34,
nella RivÌKta Europea del IG maggio issi.
^ G. Carducci nelle Opere, voi. Bozzoni e Scherme, Bologna, Zani-
chelli, 1889.
^ La bibliografia delle pubblicazioni allora fatte a Viguola e a Mo-
dena è data da GlOV. Sforza, Ricordo delV adunanza qener. di Stor. /'a'
tria, tenuta 1' 11 febbr. 1900, Modena, Soc. Tipograf., 1900, pag. 27 e segg.
48 SECOLO xviir.
Anrrdnta latina (1713;; aveva intanto moMO a lucfi la Vita e rime
di F. Petrarca (1711), ovo riproHfr in «'muiik; le fainon»; f'otitidera-
zioni del Tassoni, del quale hcriHHc la Vita per l'eilizioiic inod«;neie
(Soliaiii, 1711) della Secrhia. Majfffiori opere, che formano anch'o(;^t
rammirazione di tutti i dotti, sono il Trattato delle antichità ententi
(1717; la Hccoiida parto, coinj)iuta nel 17;{.% uhcI nel 1710;, ed i
lierum italirarnm Hcriplores, dall'anno .VX) al 1500, pubblieati in
liH volumi dal 172;^ al 'ól, per opera della Società palatina.^ Vi or-
dinò e illustrò le fonti |)rincipali della storia italiana del medio
ovo, cio(' le carte, i documenti, le cronache ecc.' Lo aiutarono nella
poderosa impresa, oltre alcuni modenesi, altri numerosi e fidi coo-
peratori, quali il licnvoglienti, il Marmi, il .Sassi, l'Argelati, lo Zeno.
Dojx) altre scritture, tra lo quali la Vita del Castelvetro (1727), fece
stamparci a Milano (17:JM-17i;ìj, in volumi, in latino, come molte
opere d'erudizione e di scienza allora, le Antiquilates italicae medii
nevi, che compendiò anche in italiano fl7ól). Dipoi approntò (1739-
1743) il Noviis thesaurus veterum inscriptioiiiim. Com'incw nel 1740
gli Aìmali d'Italia dal principio dell'era volgare, e li portò fino al
1740. Tralasciando di ricordare altre sue opere giuridiche, filosofiche
e scientifiche, come quella Del governo della peste (Venezia, 1714;'
e le rime di scarso valore, facciamo menzione delle importanti e
numerose lettere, delle quali la raccolta più copiosa ò quella di
dirette a Toscani, stampala a Firenze dal Le Mounier, nel 1884.*
* Ti. Vischi, La Soc. palatina di Milano, Milano, Rebescbiai, 1880.
- Vedi Indici HÌstemnlicì di due cronache mnratoriane compilati gotto
In direzione di A. Manno e C. Cipolla, Torino, 1S84. contenenti gli Indici
della Cronaca del Ferreto e delle Cronache attesi dell'Alfieri e dei Ventura.
^ Vedi per le opere scientifiche Di un autografo dpl Muratori intomo
l'elettricità, neW Educatore storico. III, p. 242; Leon. Saliverni, Opinioni
e scritti di L. A. M. intorno a cose fisiche, mediche e naturali, Modena, So-
liani, 1873 ; E. Masé Dare, L.A.M. come economista, in Giorn. d. econ., 1893 ;
A. Maggiora, Z/. ^. 3/uro<ori igienista, Milano, 1893; C. Ferrini, L.A.M.
e la Storia del diritto, e Pl. Brandoli, L. A. M. giureconsulto nell'vl/muari'o
dell' Univ. di Modena, 1894-95, Modena, Soliani, 1895 ecc.
* Una bibliografia delle lettere muratoriane dette A. G. Spinelli nel
Bollettino deìV Istituto storico italiano n. 5 (1888); ma dopo ne sono state
pubblicate altre da G. Biadego, Torino, Paravia, 1889 (nella Mise, di stor.
ital, ser. II, XIII, 69); da F. Martini (Pavia, Bizzoni, 1890); da M. Cam-
pori, Corrispondenza tra L. A. Muratori e Leibniz (Modena, Vincenzi, 1892
(sulla quale v, una rassegna di D. Marzi nell'aretino «(or. ital., ser. V,
XIII, 187); dallo Spinelli, per nozze Carbonieri- Bertacchini: Lettere a Gof-
fredo G. Leibniz e N. Forlosia, Modena, Rossi, 1893; Lettere ined. a G. D. Ber-
foli, Udine. Del Bianco, 1892 (nozze Miari-Cezza); da C. Cottafavi, Lett. a
F. CoftarelH, Carpi, 1892; più, da E. Sola il carteggio col Metastasio (negli
Atti e Mem. di stor. patria moden. III, IV, 197 : v. L. Frati, // Metastasio e
L. A. M., Bologna, Fava e Garagnani, 1893) ; dal Decani quello col Bini
(in ^V. Arch. ven., XIII, 1); da E. Rostagno (in Riv. delle Bibliot., VIII) quello
col Manni ; da E. Ferreri quello col card. Borromeo (ibid., X): da G. Ma-
nacorda quello col Crescimbeni nella Rass. UU. d. lett. ital., VI, 317 ecc.
Lo Spinelli medesimo nel num. 17 del cit. Bollettino fece nel 1896 una
giunta alla prima bibliografia, e diede una Tavola delle lettere per ordine
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 49
All'intera e desiderata pubMicazione del carteppjio muratoriano
jjioverà 1' archivio speciale domestico, tuttora esistente ben ordi-
nato in Modena.* Il disegno di pubblicare il voluminoso Epistolario
è stato ora ripreso, e giova sperare che sarà condotto a termine
dal signor Matteo Campoui, che preliminarmente ha posto in luce
VElenco dei corrispondenti (Modena, Soliani, 1898). Sempre più le
lettere muratoriane appaiono importanti per dimostrare, non solo
l'improbo lavoro che il Muratori seppe condurre a termine, ma
anche l'indole e l'animo di lui.
La dottrina e l'operosità di questo sacerdote modesto fu ve-
ramente straordinaria ed esemplare. E le sue fatiche, come ben
dice il Manzoni, che ne discorse in confronto col Vico, furono
tutt' altro che materiali} Non sarà mai abusato ne invecchiato per
lui il nome di padre della storia italiana, molti dei progressi della
quale, pei metodi ed intendimenti nuovi, si devono riconoscere da
lui e dal suo grande concittadino e predecessore Carlo Sigonio,
presso al quale è sepolto nella chiesa modenese di Sant'Agostino.
(Per la biografia vedi G. F. Soli-MuratoRI, Vita del proposto
L. A. Muratori, Venezia, Pasquali. ITno e Napoli 17r)8; E. Ronca-
glia, Vita di L. A. Muratori, IJologua, 1872; CantÙ, Italiani illu-
stri, Milano, Brigola, voi. II, 309; C. Belviglieri, La vita, le opere
e i tempi di L. A. M., negli Scritti storici, Verona, Drucker e Te-
deschi, 1882.]
Feste e giuochi italiani nelTetà media. — Percolilo delle
Corti band ile una volta celebrate, non si dee tacere, che
vi soleva intervenire un' immensa copia di cantambanchi,
bufl'oni, ballerini da corda, musici, sonatori, giocatori, istrioni
ed altra simil gente, che coi lor giuochi e canzoni dì e notte
divertivano grandi e piccioli e in quelle occasioni : Giullari
e Giocolavi erano costoro appellati in Toscana, e Joculares
e Joculatores venivano chiamati da clii scriveva allora in
latino. Quello, che può cagionar meraviglia, si è, Tessere
stata in tanta considerazione e fortuna la razza di questi
fabbricieri di divertimenti, che non partivano mai se non ben
regalati. Anzi il costume era, che le vesti preziose donate
a' medesimi principi venivano poi distribuite a costoro. Im-
perciocché non solevano in que' tempi intervenire i gran si-
gnori alle feste suddette o di nozze o d' altro solenni corti
ed allegrie, senza ofiferir qualche dono ai principi in atte-
stato della loro amicizia od ossequio. Puoi leggere, se vuoi,
cronoìoijico. È ormai indispensabile ancora un supplemento a queste biblio*
grafie, dove sono notate alcuno delle citate pubblicazioni, ed altre ancora.
* L. Vischi, Archivio Muratoriano, Modena, Zanichelli, 1852.
- A. Manzoni, Il Muratori e il Vico, nella Antoì. dtlla crit. ino<l. del
MoRANDi, pag. 539.
IV, 4
no flFX'OLO XVIII.
(Hiantn lasciò scritto Henvcnuto Aliprando, ilisj^razijito, ma
voi'idico poeta de' suoi tempi nella ('rfniifa mnntorana da
me (lata alla liujc, cioè nel lib. II, r-ap. f/i, dove descrivo
ht f/ran Corte tenuta in Mantova nell'anno 1:M0, in cui i
(ionza;,'lii (jiiivi dnniinanli celebrarono alcuni lor maritajr^n.
Allora varj principi d' Italia o molti nobili, i nomi de' quali
si ve^'^mno annoverati, rcf^alarono di varie preziose vrsti
essi (Jonza;^'}ii. ('ol nome di ?*o^^' erano dis<'<,'nati v.'i' 'i
d'ajioi'a. Altri olVerirono f,^enerosi cavalli, altri dei \.i
^^ento, pur delle f,Moie : cose tutte minutamente annoverate
(la (jnel plebeo poeta, di maniera che non si può di meno
(li ainmii-aro i costumi di allora, si diversi dai nostri. Ma
clie diveniva di (|uelle tante vesti, coniperate si caro, e delle
(juali s'ei'a fatta l'ollerta^ 1 principi di Mantova le diedero
in dono ai musici e butToni. l'icco le parole del suddetto Ali-
prando :
Tutte le robe sopra nominate
Fiiron in tutto trent'otto e trecento
A buffoni e sonatori donate.
Scambievolmente ancora i Gonzaghi esercitarono la lor mu-
nificenza verso molti di que" nobili, come dice lo stesso poeta,
chiudendo con questi rozzi versi :
Otto giorni la Corte si durare.
Torneri, giostre, bagordi facia,
Ballar, cantar, e sonar facean fare.
Quattrocento sonator si dicia
Con buffoni alla Corte si trovoe.
Roba e danari donar lor si facia.
Ciascun molto contento si chianioe etc.
Con qiml munificenza in quel medesimo secolo i Visconti,
principi di Milano e di tant' altre città, tenessero corte
bandita alle occasioni, in più di un luogo lo racconta il Co-
rio. Ma specialmente si svegliò l'ammirazione di ognuno
per la solenne pompa, con cui si celebrarono le nozze di
Leonetto figlio del re d'Inghilterra con Violante figlia di
Galeazzo Visconte nell'anno 1368. Fecesi quella solennità in
Milano con apparato mirabile, doni innumerabili, lusso, con-
viti e sollazzi tali, che ninno avea mai più veduto il simile.
Ne fa la descrizione il Corio, e prima di lui la fece l'autore
anonimo degli Annali milanesi, da me dato alla luce nel
tom. XVI, ller. Rai, Ma più diffusamente ne parla il sud-
detto Aliprando mantovano nel cap. 49 del suo rozzo poema,
dicendo con isbaglio solennizzata quella magnifica funzione
nell'anno 1366
Costume ancora fu ben osservato in que' tempi, che non
vi fu quasi alcuna corte di principi anche saggi, dove non si
trattenesse ben pagato qualche buffone, e talvolta più d'uno.
INIira dei gran signori era di ricrearsi dalle gravi cure colle
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 51
facezie di costoro, ed anche udire quaiciie verità ridendo,
che niun altro forse avrebbe osato di porgere alle lor de-
licate orecchio. Nel processo di Hcrnabò Visconte, toni. XVI,
pa<?.705,/vV/'. [taL.])\(\ volte si vogliono i'anini(Mitati»'l7.N'^7'/o///
H Buffoni di quel principe crudele. Rinomati ancora furono
il Gonella ed altri buffoni, de' quali si servirono i marchesi
d'Este, sijiuori di Ferrara etc. e massimamente il duca Berso,
ottimo e pi'udcntissimo principe. Forse se ne dilettò anche
Alfonso I, re d'Ai'a^a)na e delle due Sicilie. Descrive Ri-
cordano Malaspina il felice stato della Repubblica fiorentina
all'anno 1283 nel cap. 219 della sua Storia, scrivendo special-
mente, che i nobili e potenti cittadini « non attendeano ad
altro che a virtù e gentilezze. \\ attendeano per le Pasque
a donare a uomini di Corte, e a bulloni molte robe e or-
namenti. \i di più parti, e di Lombardia, e d'altronde, e
di tutta Italia, venivano alla detta Firenze i detti bulToni
alle dette feste, e molto v'erano volentieri veduti.» Avettj
udito Uomini di ('orle? Questo nome fu dato a quelle fa-
cete e lepide persone, non perchè tutti abitassero nelle corti
dei principi, ma perchè intervenivano a tutte le solenni
Curie, chiamate Corti in italiano. Furono anche appellati
Ministrieri, qunsi piccioli ministri dei principi : il qual nome
fu usato dagli storici Villani, e nel Vocabolario della Crusca
spiegato con quello CCUomini di Corte, i quali coi lor giuo-
chi e facezie tenevano allegri i principi e la nobiltà. Nel-
l'edizione fatta dai (iiunti dello Storie di Giovanni Villani
lib. \\\, cap. 88, si legge : « Alla qual Corte venn'?ro di di-
verse parti e paesi molti gentili uomini di Corte, e giu-
colari ; e furono ricevuti e provveduti onorevolmente. » Ma
quel gentili s' ha da cancellare, e leggere molti uomini di
Corte. Più sotto si ripete : « Onde di Lombardia e di tutta
l'Italia vi ti'aevano buffoni, e bigerai e uomini di Corte. »
Nel codice manoscritto, di cui mi son servito per far l'edi-
zione di Giovanni Villani, non si legge Bigerai. M'immagino
io, che alcuno v' aggiugnesse questa parola, probabilmente
trattadalla lingua francese, che chiama i?//7flr?Y'' un uomo ve-
stito di abiti di diverso colore, quali una volta solevano es-
sere i bulloni. Ma siccome abbiamo dal suddetto storico lib. X,
cap. 152, nell'anno 13.30 fu pubblicato editto dai fiorentini più
accorti degli altri: «che a corte de' Cavalieri novelli non
si potessero vestire per donare robe a'bulVoni, che in prima
assai se ne donavano. »
Ma in altre città si continuò l'uso di donar (jueste robe.
Cola di Rienzo, Tribuno di Roma, uomo ftintastico, nel 1347,
si fece crear Cavaliere. L'anonimo autore della vita di lui
al cap. 25, racconta, che allora concorse a Roma « la molta
cavalleria di diverse nazioni di gente, baroni, popolari,
foresi, a pettorali di sonagli, vestiti di zendado con bandiere.
Facevano grande festa; correvano giocando, che si appel-
lava bagordare. Ora ne vengono bufì'oni senza fine. » Poi
52 6EC0L0 XVIII.
nel cap. 27, deRcriveiulo il nia^nillco convitx) «lei Tribuno,
scrive: «Mentre lo maimcare si facevti, senza ^.'li altri buf-
foni molti, fu uno vestito <li euoio «li bue: le conia in capo
uvea: ^'iocn e saltò.» Kcco di che somniamentf hì dilettas-
sero gV italiani d'allora. Né diir«'r<'nte fu il costnm<* d*-' tede-
schi e francesi di «lUf' t^'nijii. iNcH'anno l.'i5(», Cailo IV
augusto, nella città di Metz tenne una solenne Corte, per
testimonianza di Alberto da Argentina storico, dove « electo-
res, et olliciales, seu ministeriales hnperii veniebant sujj^r
equos us(|iie ad niensam. lJescond<*ntcs vero de equo corani
mensa histrionibus et miniis dabatur equus. » Scrive pai-i-
mente Conforto Pulce nella Storia di Vicenza, che fu nel-
r anno 1382, tenuta una magnifica Corte nelle nozze di
Antonio dalla Scala principe di Verona, dove, * fuerunt plu-
res <|nani ducenti histriones diversaruni regionuin, qui nova
indunienta singuli perceperunt secundum dignitates, va-
loris ad minus decem ducatorum prò quoquo. » Di lunga
mano ancora prima di questi tempi il marchese Bonifazio,
nelle nozze con Beatrice di Lorena, cioè nell'anno MXXXIX,
mostrò una insigne munificenza, dicendo fra altre cose Do-
nizone, lib. I, cap. 9:
Tympana ciini citharis, stivisque lyrisque sonant heic.
Ac debit insignìs Dux praeniia maxima uimis.
Ora solamente mi sono accorto, che questo passo avea bi-
sogno di correzione. Cioè in vece di nimis s' ha da scri-
vere niimis ; perchè allora usavano i principi di regalar
bene i giocolieri e buffoni. Lo richiede anche la prosodia,
veggendosi altrove nimis breve presso quello storico. Anzi
in quei medesimi tempi, per quanto narra l'Annalista Sas-
sone pubblicato dall' Eccardo, avendo Arrigo, II fra gli au-
gusti, nell'anno 1045 (altri dicono nel 1043) condotta moglie
Agnese figlia di Guglielmo principe pictaviense, in quella
occasione « infinitam multitudinem histrionum et joculato-
rum sine cibo et muneribus vacuam et maerentem abire
permisit. » Lo stesso è narrato da Ottone vescovo di Fri-
singa nella Cronica colle seguenti parole : « Quumque ex
more regio nuptias Inglinheim celebraret, omne balatronum
et histrionum collegium, quod, ut assolet, eo confluxerat, va-
cuum abire permisit, pauperibusque ea, quae membris dia-
boli subtraxerat, large distribuit. » Ne parla ancora Ermanno
Contratto all'anno 1043 nella più copiosa edizione di quella
Cronica. Le quali notizie ci guidano a conoscere, clie non già
nel secolo XI ma anclie ne' precedenti, abbondava la razza
di questi giocolieri, che tutti accorrevano alle solenni fun-
zioni de* principi, e ne riportavano gran copia di regali. An-
che Rigordo, de gest. Phil. Aug., all'anno 1185 attesta, che
costoro in Francia si vedevano « in Curiis regum et princi-
pum, ut ab eis aurum, argentum, equos, seu vestes extor-
querent. » Così i genovesi, come abbiamo dai loro Annali,
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 53
toni. \'I, Rcr. Hai., dopo avere nel 1227 soggiogati i savonesi
ed altri ribelli, «mirabilem Ciiriam tenuei-iint, in (jua innu-
nierabilia indiinientoruni paria a potestate et aliis nobilibus
et honorabilibus viris fuerunt joculatoribus, qui do Lombar-
dia, Provincia, Tuscia, et aliis partibus ad ipsam Curiani
convenerant, laudabiliter erogata, et convivia magna facta. »
Andò poscia all'eccesso questa usanza. Perciocché come nar-
rano molti storici, nell'anno 11^00 furono celebrate le nozze
di Galeazzo Visconte e Beatrice Estense, con tanta magnirt-
cenza e prodigai itil, che di stupore si riempì tutta la Lom-
bardia. Odasi il solo Guglielmo Ventura, autore contempo-
raneo, nella Cronica d'Asti, toni. XI, Re7\ ItaL, che cosi
scrive: « Admirabiles nuptiae prò ea Mediolani factae sunt,
ad quas invitati l'uerunt omnes Lombardi ; et ibi data fue-
runt joculatoribus plusquam septem millia pannorum ho-
norum. » Anche nelle giunte alla Storia de'Cortusi, lib. V,
cap. (3, si veggono descritte le nozze di Marsilio da Carrara
nell'anno 1335. « Tunc Veronae Wi Curia generalis etc. Nec
deerat histrionum atque joculatorum maxima copia etc.
Faeta sunt hastiludia, jostrae, torneria, et alia quaecunque
virilia atipie nobilia, quae sensu homiuum excogitari potue-
runt. Quae quidem decem diebus durante Curia, non cessa-
runt. Kt Marsilius de Carraria dominabus paduanis multa
jocalia condonavit, et joculatoribus multas vestes : quibus
dettcientibus aurum et argentum prò supplemento largi-
tus est. »
Però comprendiamo, che per uno de' principali pregj di
quelle Corti bandite veniva considerata la grande abbon-
danza dei giocolieri, talché se ne prendeva nota, e quanto
maggiore ne era il numero, si riputava più solenne e più
magnilU'o lo spettacolo. L'autore della Cronica di Cesena,
toni. XIV, liin\ Hai., all'anno 1321, fa sapere, che in Ri-
mini dai Malatesti principi tenuta fu un'insigne corte, a
cui concorsero « omnes potentes de Tuscia, Marchia, Ilo-
mandiola, et fere tota Lombardia etc. Fuit etiaiii multitudo
histrionum circa mille quingentos et ultra. » Si può con-
getturare ancora, che non mancassero a tali feste, quei che
dagli antichi furono appellati Cyclici Poetae. Imperciocché,
siccome presso gli antichi Galli i Bardi cantavano alla lira
le imprese dei loro regnanti e di altri insigni personaggi,
tanto in guerra che alle mense, come scrive Diodoro nel
lib. V, e si potrebbe mostrare praticato lo stesso dai greci
e romani : così presso i barbari son da mettere nel cata-
logo de' cantambanchi anche i poeti popolari: giacché d'essi
non mancò giammai la razza, come anche oggidì si vede.
La Canzone d'Orlando, o sia Cantilena Uolandi fu special-
mente in uso : alla qual voce è da vedere il Du-Cange nel
(Uossario latino. Pensa egli, che questa solamente si usasse
avanti le battaglie, per accendere gli animi de' soldati col-
r esempio degli antichi eroi alla bravura. Son io di parere,
Ttì SECOLO XVIJI.
elio anche nelle piazze si cantassero le favolnKe imprese di
(M-lainlo. Nolla Croninn iiiniiosfTiUa rli ^' 'ho un cfi't/)
AiKUiiriio compilò (la altt*»^ croiintlie \)V> , (• «Inscritto
l'antico teatro (hr milanesi, « super quo hislnoncs cantahant,
si(!ut modo cantanturile Rolando et Oliverio. Finito cantu,
hufoni et mimi in citharis pulsahant, et decenti motu cor-
j)oris se oircumv()lv('l)ant. » Prc^sso il fihifardacci nella S(o-
rin di liolofjna. all'anno V^HH è i-amrrKMitato un decreto
(li (luel ('omune : «Ut cantatores francigenorum in platcis
Comninnis ad cantandum omnino morari non possint. » (.'olle
«inali parole sembra verisimile, che sieno dise^'nati i can-
tatori delle favole romanzo, che specialmente dalla Fran-
cia ciano portate in Italia. Quel che più è da osservare,
<iueste cantilene in verso non furono invenzioni dei secoli
barbarici, ma da^di antichi secoli passarono di mano in mano
nei susse^'iienti. Aristofane, in Avih., parla di una veste da
darsi ad un poeta, perchè avea ben cantato le lodi di una
città, l^er testimonianza ancora di Marziale, in Roma si pra-
ticò di regalare i poeti con vesti nuove. E Santo Agostino,
traci. 100, cap. 2, in Johann., scrive: « donare res suas his-
trionibus, vitium est immane, non virtus ; et scitis de ta-
lihus, quam sit frequens fama cum laude. » Usarono anche
^li arabi di regalare con somiglianti doni i loro poeti, ani-
mati a ciò dal loro falso profeta Maometto, il quale rimu-
nerò col suo mantello il poeta Caabo. Forse da loro passò
in Italia e Francia questo rito. Col nome di Mimi ancora,
pare che fossero disegnati coloro, che impararono dagli an-
tichi d' imitare le azioni delle persone plebee per isvegliare
il riso degli uditori, formando commedie per lo più non se-
condo le regole, ma con estemporaneo discorso. Però il Sal-
masio, Sojjva Solino cap. V, così scrive: « Et sane quas hodie
agunt et vocant Itali comoedias, mimi sunt et planipedes
verius quam comoediae. Personas tantum habent ex comoe-
dia. » Non parla il Salmasio delle commedie regolatamente
formate, delle quali una grandissima copia da due secoli in
(jua ha dato l'Italia, come in un suo trattato dell' Origin
tlelle Commedie in francese ha fatto vedere Luigi Riccoboni,
celebre comico de' nostri tempi sotto il nome di Lelio; ma
bensì di quelle buffonesche, le quali in parte colla maschera
e con varj dialetti, si fanno oggidì con lazzi e facezie tal-
volta insipide. Non è improbabile, che mimi sì fatti e tali
plebee commedie sieno fin dagli antichi tempi durate in Ita-
lia. Certamente san Tommaso, 2, 2. Quaest. 168, Art. 3, ab-
bastanza accenna, che nell'età sua, cioè nel secolo XIII, non
mancavano gl'istrioni fra gl'Italiani, scrivendo: « eorum of-
licium non esse secundum se illicitum, dummodo moderate
ludo utantur, idest non utendo aliquibus illicitis verbis vel
factis ad ludum. » Da tanti altri antichi scrittori fatta è
menzione degP Istrioni. Faceano costoro in quei tempi ciò,
che nei nostri vediam fatto da' ^aZ^ewida/ic/^z, Cantamhan-
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 55
citi simili, clic rappresontano qualciio pezzo ili comme-
dia nelle piazze. AUaquistione mossa da san Tommaso, pare
che desse occasione Filippo Augusto re di Francia, il quale sul
principio del secolo XIII, cacciò dal suo regno tutti gì' istrioni,
come gente creduta perniciosa al pubblico. All' incontro at-
testa Ruggieri Hovedeno, che Riccardo I re d'Inghilterra,
« do regno Francorum cantores et joculatores muneribus
illexerat, ut de ilio canerent in plateis. » Presso Papia gra-
matico de' tempi barbari lo stesso furono «Scenicus, Histrio,
.locularis. » Tal sorta di gente non v'è stato secolo, che ne
sia stato senza. Nell'anno di Cristo 701 Alenino Albino nel-
l'epist. 107 detestava « spectacula et diabolica tìgmenta »,
con aggiugnere : « Nescit homo, qui histriones, mimos, et
saltatores introducit in domum suam, quam magna eos im-
mundorum seciuitur turba spirituum. » Cosi nel Concilio Ha-
bilonense II, dell'anno 813, è fatta menzione : «histrionum,
sive scurrarum, et turpium seu obscoenorum jocorum. »
Anche Agobardo arcivescovo di Lione, nel lib. de Dispens.
cii'ca l'anno 836, così scrive: « Inebriat histriones, mimos,
turpissimosque et vanissimos joculatores, quum pauperes
Kcclesiae fame discruciati intereant. »
Che né pure mancassero mai all'Italia poeti popolari,
può apparire da quanto lasciò scritto l'autore anonimo della
Cronica della Noralesa, lib. V, cap. 10, parte II, toni. II, Rer.
/to^..*«Contigit(dic"egli) joculatorem ex Longobardorum gente
ad Caroluni (cioè al Magno, nell'anno 774) venire, et cantiun-
culam a se compositam de eadem re rotundo in conspectu
suorum cantare. » Adunque sotto nome di giocolieri veni-
vano una volta compresi anche (luesti cantanti per le piazze.
Similmente, ninna età vi fu, che non avesse saltimbanchi,
cantimbanchi, ciarlatani, cerretani, etc. Negli statuti di
Milano, parte II, cap. 433, fra gli altri sono annoverati e
proibiti : « avantatores corregiolae, pulvereae, dantes gra-
tiam Sancii Pauli, aut Sanctae Apolloniae, aut praedican-
tes brevia prò febribus. » Molto scuro è ciò, che qui si dice
dei Cantatori della Correr) iota e Polverea. Qualche barlume
possono prestarci gli Statuti di Cremona, nei quali alla ru-
brica 181, si legge : « Si quis avertator (in vece di Avanta-
tor) repertus fiierit ludere ad corezolam, vel polverellam,
condenmetur in solidis viginti imperialium. » Adunque la
Corregiola e la Polverella doveano essere due dilTerenti
giuochi, che dai furbi erano proposti all' incauta plebe, per
ismugnere con facilità dagli sconsigliati, che osavano di gio-
care, il danaro. In Toscana Correa (jinolo altro non è che
il Crogiuolo o Crocinolo; e v'ha dei ciurmadori, che con
tre bussolotti, fìngendo di nascondere sotto l'un di essi un
bottone, tirano alla trappola i golii villani. Ma presso i
lombardi Corregiola è un diminutivo di Correggia. Un pro-
verbio recato da Orlando Pescetti dice : « Fare alla scoreg-
giuolaj'o ch'ella è dentro, o ch'ella è fuora. » !•] qui mi
50 SECOLO XVIII.
sovviene ciò, clic lessi in Quintiliano, lib. X, capit. 7« Intiit.
Orni.: « Qui constimi niir.uMil.'i illa in scaenis y mi et
vi-nlilfitoruni, ut ea, ijua»; oniiserint, ultro v< i in.'t-
nus cretlas, et (^uae jubentur, deeurrere. » Questo era far
^iuociii (li mano, coni»; anclie oggidì. Talvolta ancora si veg-
\:^i)\\o (luesti gioooli<!ri menare attorno orni ben istruiti a
(jualclie giuoco, oa ballare. V lia un bel passo d' F fo
ai'civeseovo di Renis, il (juaie nel secolo IX, scriven . . A
preti un capitolare, al cap. 14, dice : « Nec plantus ei nsus
inconditos, et labulas inanes ibi re forre aut cantare prae-
sumat. Nec turpia joca cum urso, aut tornatricibus ante se
Tacere perniittat. » Le femmine Tornntrici erano le balle-
rine. Somiglianti bagattelle sono accennate da Alberico, mo-
naco delle tre Fontane, nella Cronica pubblicata dal Leib-
iiizio. Rapporta egli le nozze di Roberto, fratello del re di
Francia, all'anno 1237, fra l'altre cose dicendo: « Ft illi,
([ui dicuntur Ministelli (eh' è lo stesso clie Ministrierf) in
ypectaculo vanitatis multa ibi fecerunt, sicut ille, qui in equo
super cordam in aere equitavit; et sicut illi, qui duos boves
descarlata vestitosequitabant,cornicantesadsingulafercula,
<iuae apponebantur regi in mensa. » Quel cavallo probabil-
mente era tinto. Perchè coloro che a guisa degli antichi satiri
vestiti ballavano, furono appellati ^Satirici da alcuni.
Il nome di Cerretani, secondo l'opinione di Celio Rodi-
gino e di Leandro Alberti, e d'altri, ebbe origine da Cer-
reto, terra del ducato di Spoleto, perchè di là gran copia
di ciarlatani solca uscire. Verisimile è il loro sentimento.
Quanto al nome di Ciarlatani, se vogliam credere al Me-
nagio nel libro à.Q\VOrigine della lingua italiana, si formò
da Circulus in questa maniera : « Circulus, Circulo, Circu-
lonis, Circulone, Cirlone, Ciarlone. » Inezie son queste. Da
Circulare noi abbiam cavato Cerchiare, e non già Ciarlare.
Da quest'ultimo, significante un gran parlatore, nacque Ciar-
latano. Ma onde Ciarla sia venuto e Ciarlare, non l'ho po-
tuto finora scoprire ; se non che m' è passato per mente, se
mai dal nome francese di Carlo Magno, cioè da Cìiarles, fosse
derivato Ciarlare, per significare un racconto delle imprese
di quel celebre monarca. Imperocché una volta le canzoni
e i romanzi, che si cantavano nelle piazze e alle tavole
de' signori da' ciarlatani, consistevano nelle favolose azioni
di esso Carlomagno, e de* suoi paladini. Di là potè nascere
la voce Ciarleria, di cui s'è servito fra Giacopone da Todi,
uno de' più antichi scrittori della lingua italiana, per signi-
ficare racconti di cose da nulla. Questo medesimo vuol dire
Ciarlare, cioè dar piacere al popolo col cantar fole, per
trarre danaro con questo allettamento dalla borsa degli udi-
tori. Ciò mi rimette alla memoria quanto lessi in un" ope-
retta manoscritta,esistente nella Biblioteca Ambrosiana, com-
posta col titolo di Dialogus Yeritatis da Maffeo Vegio da Lodi,
autore celebre per la sua erudizione nel secolo XV. Ivi la
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 57
discorrono fra loro la Verità e un Filosofo. Pretende essa
di non poter trovar luogo fra i mortali ; e in pruova di
(juesto rapporta quanto le è avvenuto « apud circulato-
rcs, histriones, alcliiniistas, philosophos, judices, negotia-
tores etc. » In altre mille maniere, ed anche con rimedj
superstiziosi, que' giuntatori ingannavano nei vecchi tempi
(e né pur s'è dismesso nei nostri) l'ignorante volgo. E qui è
da udire Boncompagno, scrittore italiano, il cui libro mano-
scritto de Arte diciaminis, vien lodato dal Du-Cange nel-
l'Appendice del Glossario latino : « Vel ut scurra (sono le di
lui parole) totani Italiani regiravit cum cantatoribus, et tam-
quaui eximius tructanorum se fingit esse medicum doctri-
narum, ut fornicandi et adulterandi opportunitatem valeat
invenire.» Fiorì Boncompagno, per testimonianza d'esso
l)u-Cange, nel 1213. Ora i Tructani commemorati da Bon-
compagno erano anch'essi ciarlatani, che la volevano colla
borsa del rozzo popolo. Nò solamente con questo nome
erano disegnati i medicanti^ giacché si fingevano medici :
mestiere anche oggidì praticato da altri della loro specie.
In Ispagna il bullone è chiamato Truan o Truìtan. Nelle
annotazioni alia legge VI di Astolfo re de' Longobardi, col-
r autoritii di Papia Gramatico, dissi che Troctingi furono
Joculatorcs. Tuttavia non è da sprezzare l'altra interpre-
tazione da me proposta, cioè, che sotto nome di Trottinghi
venivano i Paraninfi. Nella lingua tedesca Truthine si
prende per accompagnatore delle nozze, o sia paraninfo.
Così nelle Chiose tedesche pubblicate dall' Eccardo, il Pa-
raninfo in lingua antica tedesca si chiama Truthigonio e
Truteboto
Certamente, a mio credere, tempo non fu in Italia, in cui
non si vedesse una grande e varia copia di giocolieri.
Teofane nella Cronografia all'anno 17 di Giustiniano il
grande imperatore, cioè nel 543 della nostra èra, rac-
conta un fatto, che viene anche rapportato dall'autore della
Misceli., toni. I, par. I, Rer. Ital. Le sue parole son queste:
« Eodem anno planus ac circulator quiilam, Andreas no-
mine, EX iTALicis partibus adfuit, fulvum et orbum lumine
circumducens canem, (jui ab eo jussus, et ad ejus nutum
mira edebat spectacula. Is siquidem in forum, magna po-
puli circumstanto caterva, prodieiis, annuios aureos, argen-
teos et ferreos, ciani cane, a spectatoribus depromebat,
eosque in solo depositos, aggesta terra cooperiebat. Ad ejus
deinde jussum singulos tollebat canis, ut unicuique suiim
reddebat. Similiterdiversoruni imperatorum numismataper-
niixta et confusa, sigillatim proferebat. Qui etiam adstante
virorum ac mulierum circulo, canis interrogatus mulieres
uterum gestantes, scortatores, adulteros, parcos ac tenues,
ac denique magnanimos, idque cum ventate, demonstrabat.
Ex quo eum Pythonis spiritu motum dicebant. » Né pur i
tempi nostri son privi di tali illusioni, le quali il volgo per
58 8KC0L0 XVIII.
lo più sospniUi clie hì facciano per arie diabolica ; e vera-
monte cose talvolta si ve;?^,'ono, che paiono ocr ' - l'arfe
(» saj>or« defili nomini. An(;he i (ioti ai tempi ilelto
Ciustiiiiaiio 1 .'iu;,Misto, conn? n'ha da I*roe<»pio, liti. I, cap. 18,
(le Urlio (iolli., rinlacciavano i i-omani che l'Italia non n-
(joveva (lai gi'cci, se non dei rappresentanti delle trai;<*di»*,
dei mimi e dei corsari. Tuttavia se; noi e» ' n-
iiiedie o tra;,'odio composte nei secoli dopo d, <•
nr ])(n' una ne troveremo. Io non so ricoidar alno che
un'operetta, puhbiicata dal padre Hcrnardo l'ez benedettino,
j)arte li del toni. II, Thcsaur. Anocdot., con questo titolo:
« Ludus Pasclialis de adventu et interitu .Antichristi, in scena,
saeculo XII exhibitus. » Quivi si mett/)no in iscena il papa,
r iniperadore, i re di Francia, (iermania, Grecia, babilo-
nia eie, l'Anticristo e la Sinaj^oga. Molti re si lasciano af-
fascinare dall'Anticristo, ma in line costui resta abbattuto.
Anche Albertino Mussato, riguardevole scrittor padovano,
circa l'anno 1320 compose una tragedia intitolata Ecnt'ri-
nis, che si legge stampata. Se fosse rappresentata in tea-
tro, noi sappiamo. Manifesta cosa è bensì, che nel secolo XV
dagl'ingegni italiani si cominciò a rimettere in piede l'arte
comica e tragica, e che poi si aggiunse la musica alla tra-
gedia : del che hanno trattato parecchi eruditi. Del resto,
nel secolo XIII e XIV, si truova una specie di spettacoli,
chiamati Rappresentazioni , consistenti nell' imitazione di
(lualche vera o verisimile, e per lo più sacra azione. Se
in prosa o in versi, noi so dire, ^■ella Cronaca del Friuli
di Giuliano canonico di Cividale, da me data alla luce, si
dice fatta nell'anno 1298 « Repraesentatio Ludi Christi, vi-
delicet Passionis, Resurrectionis, Ascensionis, Adventus Spi-
ritus Sancti, et Adventus Christi ad judicium, in curia Do-
mini Patriarchae honorifice et laudabiliter per clerum. »
Parimente nell' anno 1304 « facta fuit per clerum, sive per
capitulum cividatense Repraesentatio de creatione primo-
rum parentum ; deinde de Annuntiatione Beatae Virginis,
de Partu, Passione etc. Et praedicta facta fuerunt solem-
niter in Curia domini Patriarchae, » con gran concorso di
popolo e dei nobili circonvicini. Ma un fatto funestissimo
vien raccontato da Giovanni Villani, lib. Vili, cap. 70, ac-
caduto in Firenze nell'anno 1304. « Come, die' egli, per an-
tico aveano per costume quelli di Borgo San Friano di fare
più nuovi e diversi giuochi, sì mandarono un bando per la
terra, che chi volesse sapere novelle dell' altro mondo, do-
vesse essere il dì di calen di maggio in sul Ponte alla Car-
raia, e d'intorno all'Arno. Et ordinarono in Arno sopra bar-
che e navicelle, palchi ; e fecionvi la simiglianza e figura
dell'Inferno con fuochi et altre pene e martorj, con uomini
contrafatti a demonia, orribili a vedere, et altri, i quali
aveano figura d'anime ignude (era ben barbarico e cattivo
il gusto di quella gente) e mettevangli in quei diversi tor-
LODOVICO ANTONIO MURATORI. 59
menti con grandissime grida e strida e tempeste : la quale
parea odiosa cosa e spaventevole a udire e vedere. K per
lo nuovo giuoco vi trassono a vedere molti cittadini. E l
l'onte alla Carraia, il quale era allora di legname da pila
a pila, si caricò sì di gente, che rovinò in più paiti, e cadde
colla gente che v'era suso. Onde molta gente vi morie, et
annegò in Arno, e molti se ne guastarono la persona, sic-
ché il giuoco da berte tornò a vero etc. » Se di tutti i se-
coli avessimo storici, poeti ed altri scrittori, probabilmente
troveremmo, che a ni un tempo mancarono spettacoli per
recare diletto al popolo, e specialmente per cavar di borsa
il danaro a chi vi concorreva. Ma abbastanza di (luesto. Ci
resta anche un po' di viaggio.
Fra gli spettacoli de' nostri maggiori, tuttavia ritenuto
in Roma, Firenze, liologna e in altre città d'Italia, sidee
riferire il Corso de' Cavalli. Quanto si compiacessero di
giuoco tale di diverse specie i greci e romani antichi, so-
lamente noi sa chi è affatto forestiere nel paese dell' eru-
dizione. Da gran tempo scaduto, fu dagli italiani rimesso in
uso, ma solamente con cavalli sciolti, o pur guidati da qual-
che ragazzo, essendo rarissimo quello delle carrette. \]n
premio si destinava ai vincitori, per lo più consistente in
molte braccia di tela di seta o di panno di lana, ma di
prezzo non vulgare : onde poi nacque il chiamar questo
giuoco correre il palio o correre al palio. Che se palio non
si proponeva, qualche altro dono si soleva esporre. Truo-
vasi usata nel secolo XIII la corsa dei cavalli : se prima,
altri lo cercherà. Negli Statuti antichi del popolo di Fer-
rara, manoscritti nella Biblioteca estense, all'anno 1279, fu
ordinato, lib. II, rub. llO, « Ut in feste Beati Georgii equi cur-
rant ad l'allium, et Porchetam et dallum. » Ecco tre premj.
Nella Rubr. 117 del medesimo libro si legge: «Ut in fasto
Sanctae Mariae de Augusto in civitate solatium habeatur.
Potestas, qui prò tempore fuerit, teneatur octo diebus ante
diem dicti testi scire voluntatem hominum majoris Consilii
de faciendo equos curro re ad Bravi um in dicto lesto, scilicet
ad unum runcinum, ancipitrem (cioè Accipitrem : che cos'i
usavano di dire gli scrittori barbarici) et duos bracos, » cioè
due cani da caccia. Nello Statuto manoscritto del popolo di
Modena all'anno 1327, lib. II, rub. 27, fu decretato: «ut in
feste Sancti Michaelis equi currant ad scarletum sex brac-
chia de scarleto, et ad Porchetam et Gallum secundum con-
suetudinem : «dal che si scorge, che non fu allora inventato
questo divertimento, ma che solamente se ne confermò la
consuetudine. Anche i bolognesi, per testimonianza degli
Annali da me pubblicati nel toni. WIII, Rer. ItaL, e del
(ihirardacci all'anno 1281, determinarono, che nel di 24 di
agosto, festa di san Bartolommeo, si corresse al palio con
cavalli, e che il premio fosse tm Cavallo ben ad<lnìibato,
uno Sparviere e una Porchetta. Scrive Scipione Ammirato
GO SFX'OLO XVIII.
il vfiocìiio nel lib. I defila Storta Fiorentina, elio fu rappor-
tjit.'i un' insij^Mì(3 vittoria (lai romani - ' " ' «)
(lei (loti in T()S(;ana nell'anno di Ci ■;,
V elio a iJCMpctua memoria di (juel fortunato giorno, In i.sti-
tiiito nel di H di ottobre la corsa de' cavalli : il (p/. al costume,
die' egli, è duralo siìto al presente. Quando rAinmirat^) non
ci rrclii (jiialelie buon mallevadore di tanta ai • "la
lìinzioiu', abbia pazii'iiza, se (jui non gli si pi' ■»-
lamente molti secoli dopo quel fatto tengo io, che si Tor-
nasse ad usare il correre al palio. Certo è, che qualche pro-
speroso avvenimento (juasi sempre diede occasione a questo
l)ubblico sollazzo nelle città d'Italia. Felicemente fu nel-
l'anno 1250, tolta di mano all'empio Hccelino la città di
l*adova; e però nell'anno susseguente quella repubblica
formò un decreto, di solennizzar da li innanzi quel felice
;;iorno con gran festa e divota processione, e col corso dei
eavalli, a' <iuali si proporrebbero per premio « diiodecim
brachia scliarloti et unus spari verius, cujus preti uni non
excedat summam soldorum sexaginta, et duae chirothe-
cae, » come apparisce da quel decreto da me dato alla luce.
i\è solamente si correva con cavalli, ma ancora si usò la
corsa d'uomini, donne, meretrici, asini etc. Dante circa
l'anno 130-1, scriveva nel canto XV, dell'Inferno:
Poi si parti : o parve di coloro.
Che corrono a Verona '1 drappo verde
Per la campagna etc.
Le quali parole sono colle infrascritte parole spiegate da
Benvenuto da Imola, scrittore del secolo medesimo, nel Com-
mento da me pubblicato in quest'opera. « Ad quod sciendum
est, quod in civitate Veronae est consuetudo, quod annua-
tim, idest prima Dominica Quadragesimae, currunt homines
pedites ad unum pallium viride certatim. Itaque ibi videtur
maxima celeritas currentium. Hunc autem actum viderat
Dantes, quando stetit Veronae. » Fu eziandio cosa partico-
lare di que' tempi, che qualora per qualche rotta era co-
stretto un popolo a rifugiarsi fra le mura della sua città,
il vincitore facea correre il palio da cavalli lino alle porte
di quella città. Quivi in oltre facea battere moneta, con altre,
che ora parrebbono ridicole usanze. Nell'anno 1263 i pisani,
come s'ha dai loro Annali, tomo VI, Uer. ItaL, colla loro ar-
mata penetrarono fino alle porte di Lucca, « ubi ad perpe-
tuam rei memoriam, et laudis nostrae preconium, et adver-
sarium sempiternum opproprium, et ad superabundantiam
nltionis, monetam nostrani novam duoruni solidorum cum
impressione nostrae victricis Aquilae coronatae cudi feci-
mus, et quamplures novos milites cingulo novae militiae
decorari; quadrellos, sagittamina et virgas Sardorum in ci-
vitatem Lucanam projiei fecimus, ex quibus supra muros,
et in civitate ipsa plures fuerunt lethaliter sauciati; ludum
Lodovico Antonio muratori. 61
ad Massascutum, et alia jiicunda tripudia fieri. » Così nel-
l'anno 128'.), i vincitori liorontini arrivati alle mura d'Arezzo,
socondoc'hò viene scritto dadiovanni Villani, lib. VII,cap. 132:
« fecionvi correre il Palio per la lesta di San Giovanni, e
rizzaronsi più ditìcj, e man^^anaronvisi asini ron la mitra
in capo per rimproccio del loro vescovo. » All' incontro nel-
r anno 132.') riportò Castruccio signor di Lucca un' insigne
vittoria de' fiorentini, e penetrò fino alle mura della lor
città, saccheggiando e bruciando ovun(iue passava. Quivi
dun(iue, per far onta ad essi liorentini, ordinò tre corse, con
premio proposto a ciascuna. La prima fu de' cavalli; la se-
conda d'uomini a piò; e la terza di <lonne pubbliche. Fe-
cevi anche battere dei denari, appellati poscia Castruccini.
Altrettanto poi fecero gli stessi fiorentini nelle loro vittorie
contro pisani, sanesi e milanesi. Nello stesso anno 1325, i
modenesi assistiti dalle soldatesche di Passerino signor di
Mantova, di Azzo Visconte e de' marchesi d' Este, diedero
una gran rotta ai bolognesi a Zappolino, e passarono col-
l'armata vittoriosa sino alle porte di Bologna. Scrive il Mo-
rani nella Cronica Modenese, toni. XI, Rer. Hai.» d'essi vin-
citori : « A dieta Porta Civitatis (Hononiae) ad Pontem Kheni
(aeientes currere equos ad pallia et scharleta; unum vide-
licet prò conmiuni C'remonae, cujus civitatis praet'atus Azzo
extitit titulatus ; aliud prò C(jmmuni F'errariae ; aliud prò
Communi Mantuae, et reli(iuum prò Communi Mutinae an-
tedicto, ad aeternam memoriam praemissorum, et aeter-
iium bononiensium scandalum. » Qui mi sia lecito di emen-
dare il Corio, che riferisce (piesta vittoria all'anno 1323.
Molto più si allontanò dal vero il Ghirardacci, il quale a
chiusi occhi, seguitando il Corio, si credette di acconciare
•lueir anacronismo con immaginar due volte sconfìtti i bo-
lt>gnesi da' modenesi, cioè nel 1323 e nel 132.'>. Altri esem-
})li di qu(dia consuetudine tralascio, per dire piuttosto, che
ben erano puerili «luelle invenzioni di vendetta, e di fare
scorno ai nemici. Isè diverso parere portò Filippo Villani,
nel lib. XI, cap. 63, dove descrivendo la guerra fra' pisani
e liorentini latta al suo tempo, cioè nel 136:^, cosi parla:
« 11 perchè i pisani (giunti colla vincitrice armata alle porto
di Firenze) feciono correre il palio per traverso a Rifredi,
(^ tra le schiere. Più feciono battere muneta ; e al Ponte a
liifredi impiccarono tre asini ; e per derisione, loro puosono
al collo il nome di tre cittadini, a ciascuno il suo. Kcco in
che i savj Couimuni di Firenze e di Pisa spendono i milioni
di fiorini, rinovellanilo spesso queste villanie. »
Ci sono altri spettacoli, da più secoli usati in Firenze,
Siena e Venezia, cioè il Givoco del Calcio, le Regatte etr.
ile' quali non intendo di parlare. Nel secolo XIV era costume
de' romani il fare la Caccia de' Tori, cioè la battaglia dei
giovani nobili con tori non domati nell'anfiteatro di Tito.
Lodovico Monaldeschi negli Annali, iom. XII, Reì\ ItaL, pa-
02 SKCOLO XVIII.
j^ina r>:ir>, ci dà il catalogo do' nobili rli* entrarono in qiiel-
l'anin^'o, e dclln lor sopravosti od r*rnblcMiji. Loda «gli la
bravura dei noni batteri t,i ; ma (jiiai (Ine avi-sse un si peri-
coloso cimento, lo diranno le seguenti f)arole di lui. € Tutti
assaltarono il suo toro; e Cde* conìbatteriti) ne rimasero
morti (licidotto, e nove Jerili; e dei tori ne rimas^-ro morti
undici. Ai moi'fi si fece un grande onore. » Se veram<*nte
vi l'u tanta copia di nobili uccisi, lascerò ch'altri il decida
qual fosse la sapienza d'allora. Più prudenti al sicuro fu-
l'ono i postei'i di (jue' romani, e gli altri popoli, die di rpn'Sto
giuoco, eseguito neirantica Koma da vili gladiatori, lascia-
rono tutta la gloria all'agilità e destrezza degli Spagnuoli,
i quali non si son perancbe indotti per la morte, che ta-
lora accade ai combattenti, di dismetterlo. Abbiamo parlato
della magnificenza degli antichi pi'incipi nei loro spetta-
coli: conviene ora aggiugnere, che i nobili giovani l'orma-
vano le loro schiere con divisa uniforme, cioè con sopra-
vesti del medesimo colore. Alle volte ancora i loro abiti
erano di due difTerenti colori, di modo che, per esempio,
la parte destra mostrava il rosso, la sinistra il giallo. Resta
tuttavia vestigio di tal costume in Milano ne* serventi del
Comune, e ne fanno fede anche le pitture dei secoli XIV e
XV. E di qui a mio credere nacque il nome di Divisa (og-
gidì diciamo Livrea), perchè si usava di dividere le vesti
in guisa, che V una parte rappresentava un colore, e l'altra
un altro. Nella Vita di Santa Francesca rornmia negli atti
de' santi del Bollando al dì 9 di marzo, visione 30, si legge :
« pulcherrima divisa est color albus et rubeus. » Nelle an-
notazioni questa voce è spiegata così : « Idest Fartitio. Item
ISIodus et Electio, ut scribunt Accademici Fiorentini. » Ma
nient' altro fu Divisa, che Livrea; e però si dicea Vesti di-
2'isate, Panni divisati, cioè di doppio colore. Altri esempj
della magnificenza dei nostri maggiori si potrebbero aggiun-
gere ; ma a me è bastato di pubblicare «l'Ordine e magni-
ficenze dei magistrati romani nel tempo, che la Corte del
Papa stava in Avignone, » cioè nel secolo XIV, in acco-
gliere i principi pure i legati pontifici. Tratto è questo
racconto dall' incomparabil Biblioteca vaticana. Oltre agli
spettacoli profani, ci furono una volta anche i religiosi, né
pure incogniti a" nostri tempi. Se n' è parlato di sopra. Ag-
giungo ora, che è da vedere Falcone Beneventano, tom. V,
Mer. Ital., p-rìg. 94, dove riferisce la traslazione de* sacri corpi
di Marziano, Doro etc, celebrata in Benevento nel 1119. Cosi
neir anno 1336, per attestato di Galvano Fiamma, de Reb.
f/est. Azonis Vicecom., tom. XII, Rer. ItaL, fu istituita in
Milano una particolar forma di solennizzare la festa del-
l' Epifania. « Fuerunt (seri v' egli), coronati tres reges in equis
magnis, vallati domicellis, vestiti variis, cum somariis mul-
tis, et familia magna nimis. Et fuit stella aurea discurrens
per aera, quae praecedebat istos tres reges. Et pervene-
EUSTACHIO MANFREDI. 63
rnnt a,d cohniinas sancii Laurentii, ubi erat rex Ilerodes
elli^natiis cuiii scribis et sapientibiis. Et visi sunt interro-
gare regeni Herodem etc. Quo audito, isti tres reges coro-
nati aureis coronis, tenentes in nianibus scyplios aureoscuni
auro, tliure et niyrrha, praecedente stella per aere, euni
soniariis, mirabili faniiilatu clangentibus tubis, et buccinis
praeeuntibus, siniiis, babuynis et diversis generibus ani-
malitun, cuni mirabili popiilorum tumultu, pervenerunt ad
ecclesiam sancti Knstorgii. Ubi in latere altaris majoris
erat praesepium cum bove et asino, et in praesepio erat
Cliristus parvulus in brachiis Vii'ginis Matris. Et isti reges
obtulerunt Cbristo munera. Deinde visi sunt dormire, et an-
gelus alatus eis dixit, quod non redirent per contratam san-
cti Laui'entii, sed per Portam Romanam : (juod et factum
l'uit. Et Cuit tantus concursus populi et militum et domi-
narum et clericorum, quod nuniquam similis visus fuit. »
Con die pio spettacolo il popolo di Modena accogliesse Borse,
ottimo duca loi'o e de' Ferraresi, allorcliè questo principe
venne» a ({lu^sta città nel 1452, sta scritto nella Storia di
Ira (iiovanni Minorila, toni. XX, ixV'v. Hai. Cosi conchiusa la
pace nell'anno 1379, Tra Bernabò Visconte signor di Milano
e Bartolomeo e Antonio dalla Scala signori di Verona e Vi-
cenza, il popolo vicentino con uno spettacolo pio spiegò la
sua allegria, che produsse slupore e venerazione in tulli. Ne
fa il racconto Conforto Pulce nella Storia Vicentina, toni. Xlll,
Rer. Ital.y con dire fra le altre cose : « Omnibus aulem hoc
modo in admiratione manentibus, qui super solario supe-
riori aderant, faciebant sclopos igneos (Scopjoio vuol dire,
onde poi si formò Schioppo) ad moduiìi maximorum tonitruum
et fi'agorum : quare non soluni qui erant super aedifìcio,
sed qui ad speclaculum convenerant, slupefacti aspicientes
versus caelum stabant. » T'cco qual meraviglia cagionasse
allora la novità ed uso della polve da fuoco in chi non avea
veduto uno somigliante fenomeno. Ma abbastanza di (juesto.
— (Dalle Dissertazioni sopita le Antichità italiane, disser-
taz. XXIX.)
EUSTACHIO MANFREDI.
Quest'uomo di grande ed universale ingegno, insigne nelle let-
tere, sommo nelle matematiche, e in special modo nell'astronomia
e neir idraulica, nacque a P>ologna il 20 settembre 1074, primo di
molti fratelli e sorelle, tutti noti per valore d'intelletto Fu lau-
reato in giurisprudenza, ma si volse più particolarmente alle
scienze, e a venticinque anni (1G90) era già professore di mate-
matiche nel patrio ateneo; più tardi (1704) sopraintendente del-
l'acque del territorio bolognese, e nel 1711 astrononio della spe-
cola: nel 1738 il collegio di filosofia dell'Università di Bologna
r.l SECOLO XVIM.
lo ;)t,%M«'<(t) fra i Hiioi, «» tfl;i rra d<^ll<*. A' di j-chmiz*- «m
]'ari(^i V. <li Londra e di quella della Crii- ìw chiamato in
varie parti d'Italia, a l{oma, a Lucca, a Venezia (e anche a Vienna,
ma non volle recarvisi), per retfolare questioni di acque, e di tal
materia molto si occupò in servizio del patrio reggimento. Pieno
di meriti e di onori, dopo una vita laboriosisHima, mori in Bolo-
gna ai IT) febbraio 17:n. l'ontanellc ne leH»e l'elogio nell'Accade-
mia parigina.
L(^ sue opere HcienfiJiche in italiano e in latino, Rono circa
quaranta: in quelle italiane, quali sarebbero gli Elementi della
Cronologia, le Istituzioni astronomiche, la Istoria delle conlroverne
sulla ftfjura della terra, la Vita di Marcello Malpiyhi, le lìime e
prose (liologna, Dalla Volpe, 17«X)) ecc., seppe unire perspicuità ed
esattezza a dignità di stile e purezza d'eloquio. Delle poesie sue
poche avanzano, avendone egli distrutte gran parte; ma quelle che
restano lo chiariscono de' migliori rimatori del suo tempo, e supe-
riore di gran lunga a que' tanti, che allora fiorivano in Bologna.'
Parecchie sue lettere, le più d' argomento scientifico, sono rac-
colte nelle Lettere familiari d'alcuni Bolognesi del secolo XVIII,
Bologna, Dalla Volpe, 1744, e dal Gamba nelle Lettere faviiliari
scritte nel secolo XVIII, Milano, Classici, 18:W; altre ha pubblicato
il Malagola, Lettere inedite di iLomini illustri bolognesi, Bologna,
Romagnoli, 1875; di altre ancora dà notizia F. Foffano, Rime
scelte di E. M. con alcune sue prose, Reggio Emilia, tip. Ariosto,
1888, prefazione, p. 2, n. ; del Carteggio suo con Francesco Bian-
chini informa una memoria di E. Celani, Bologna, Gamberini e
Parmeggiani, 1891; la corrispondenza coll'Algarotti si trova nel
voi. XI delle Opere di quest'ultimo.
[Vedi il suo Elogio scritto da G. P. Zanotti, Alcune operette,
Venezia, Alvisopoli, 1830, p. 43 ; la Vita nel Fahroni, Vitae Ita-
lorum, V, 144; e Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bo-
logna, 1786, V, 183.]
Per monacazione della donna amata.
Donna, ne gli ocelli vostri
Tanta e si chiara arde a
Maravigliosa, altera luce onesta,
Ch'agevolmente uom ravvisar potea
Quanta parte di cielo in voi si chiuda,
E seco dir: Non mortai cosa è questa.
Ora si manifesta
Quell'eccelsa virtude
Nel bel consiglio che vi guida a i chiostri.
* Vedi Lirica del Fnigoni e dei Bolognesi del secolo XVIII, Venezia,
Zatta, 1791, ove si raccolgono rime di quarantun Bolognesi.
EUSTACHIO MANFREDI. C5
Ma perdio i sensi nostri
Son ciechi incontro al vero.
Non lesso iiman pensiero
Ciò che dicean quo' santi lumi accesi:
Io li "vidi e r^V intesi
Mercè di chi innalzomnii ; e dirò cose
Note a me solo, e al voI<^o ignaro ascoso.
Quando piacque a Natura
Di far sue prove estreme
Ne l'ordir di vostr'alma il casto ammanto,
Klla ed Amor si consigliare insieme,
Sì come in opra di comune onore.
Maravigliando pur di poter tanto.
Crescea il lavoro intanto
Di lor speme maggiore,
E col lavoro al par crescea la cura,
Fin che l'alta fattura
Fiac(iue a l'anima altera.
La qual pronta e leggera
Di mano a Dio, lui ringraziando, uscfa,
E raccogliea per via,
Di questa spera discendendo in quella.
Ciò ch'arde di più puro in ogni stella.
Tosto che vide il mondo
L'angelica sembianza
Ch'avea l'anima bella entro il bel velo,
Ecco, gridò, la gU^ria e la speranza
De l'età nostra:, ecco la bella inimago
Si lungamente meditata in cielo.
E in ciò dire ogni stelo
Si fea più verde e vago,
E l'aer più sereno e più giocondo.
Felice il suol cui "1 pondo
Premea del bel piò bianco
del giovenil fianco,
() percotea lo sfavillar, de gli occhi!
('ir ivi i fior visti o tocchi
Intendean lor bellezza, e che quei rai
Movean più d'alto che dal sole assai.
Stavasi vostra mente
F'aga intanto e serena,
D'alto mirando in noi la sua virtute;
Vedea quanta dolcezza e quanta pena
Destasse in ogni petto a lei rivolto,
E ndi'a sospiri e tronche voci e mute;
E per nostra salute
Crescea grazie al bel volto.
Ora inchinando il chiaro sguardo ardente,
Ora soii veni ente
Rivolgendolo fiso,
IV.
60 HIX'OLU XVI II.
Contro (Io l'altrui viso,
Quasi col dir: Mirato, alme, mirato
In me clic nia beltafo,
Clio per guida di voi Kcelta son'io,
K a ben seguirmi eundurrovvl In Di >.
Qual'io mi fessi allora.
Quando il leggiadro aspetto
i'ien di sua luce a gli occhi miei s'olTrio,
Amor, tu 'I sai, che il debile intelletto
Al piacer confortando, in lei mi festi
Vecfer ciò che vedem tu solo ed io,
E additasti al cor mio
In quai modi celesti
Costei l'alme solleva e le innamora;
Ma più d'Amore ancora
Ben voi stesse il sapete,
Luci beate e liete.
Ch'io vidi or sovra me volgendo altere
Guardar vostro potere,
Or di pietate in dolce atto far mostra,
Senza discender da la gloria vostra.
lenta, e male avvezza
In alto a spiegar l'ale
Umana vista! o sensi infermi e tardi!
Quanto sopra del vostro esser mortale
Alzar poteavi ben inteso un solo
Di que' soavi innamorati sguardi!
Ma il gran piacer codardi
Vi fece al nobil volo,
Che avvicinar poteavi a tanta altezza ;
Che né altrove bellezza
Maggior sperar poteste,
Folli, e tra voi diceste.
Quella mirando allor presente e nova:
Qui di posar ne giova.
Senza seguir la scorta del bel raggio,
Qual chi per buon soggiorno oblia '1 viaggio.
Vedete or oome accesa
D' alme faville e nove
Costei corre a compir l'alto disegno!
Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove,
Qual si fa il Paradiso, e qual ne resta
Il basso mondo, che di lei fu indegno!
' Vedi il beato regno
Qual luogo alto le appresta,
E in lei dal cielo ogni pupilla intesa
Confortarla a l'impresa;
Odi gli spirti casti
Gridarle : Assai tardasti ;
Ascendi, o fra di noi tanto aspettata,
EUSTACHIO MANFREDI. 67
Felice alma ben nata!
Si vol<,^e ella a dir pur ch'altri la isiegua,
Poi si mesce ira i lampi e si dilegua.
Canzon, se d'ardir troppo alcun ti sgrida,
Digli che a te non creda,
Ma venga inlinchè puote egli, e la veda.
Per la nascita del principe di Piemonte.*
Vidi r Italia col crin sparso, incolto.
Colà dove la Dora in Po declina,
Che sedea mesta, e avea ne gli occhi accolto
Quasi un orror di servitù vicina.
Nò l'altera piagnea: serbava un volto
Di dolente bensì, ma di reina;
Tal l'orse apparve allor che il pie disciolto
A i ceppi olVr'i la Libertà latina.
Poi sorger lieta in un balen la vidi,
E fiera ricomporsi al fasto usato,
E quinci e quindi minacciar più lidi;
E s' udia l'Appennin per ogni lato
Sonar d'applausi e di festosi gridi:
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.
Dell'alzarsi che fa di continuo la superfìcie del mare. —
Nell'autuinio dell'anno scorso 17!JI, essendomi per coman-
damento del signor cardinale iMaft'ei, legato della Roma-
gna, portato a Kavenna, per dover quivi, in compagnia del
signor Bernardino Zendrini, divisare sopra la maniera di
metter riparo a' disordini de' torrenti e delle altre acque
che scorrono ne' dintorni di quella città, ne fu d'uopo, prima
d'inoltrarci a tale disamina, riconoscere col livello le altezze
non meno de' fiumi, che de' piani delle campagne e di quello
della stessa città, rispettivamente alla superficie del mare.
Il che essendosi nello spazio di alcune settimane, e più cer-
tamente dal signor Zendrini che da me, con esquisite os-
servazioni mandato ad elTetto (perciocché attese le mie in-
disposizioni, poco più poteva io a ciò prestare che la mia
presenza), e già ricavatasi da queste osservazioni bastevol
contezza intorno alla presente positura di que' terreni e di
quelle acque, ne prese curiosità di rintracciare eziandio,
ove possibil fosse, qualche lume intorno alla situazione del-
l'antico piano della città, le cui contrade e le fabbriche,
non tanto per li guasti ricevuti da' barbari, quanto per 1«^
alluvioni del mare e per quelle del Po e di altri fiumi, ben
sapevasi essere state più e più volte rialzate. Or mentre
eravamo su tal pensiero, accadde cosa al comune desiderio
* Vittorio Amedeo, nato nel 1G09 e morto poco appresso. Regnò in
vece sua il secondogeuito Carlo Kmauuele III.
08 8EC0L0 XVIII.
nostro molto acconcia o favorevole; e questa fu, che avend<»
monsignor Farsetti, arcivescovo di (| nel la città, deliberato
(li lisloi'aro, anzi di i-innovan* da' fondamenti quella Hua
(tiiicsa <;atte(lraIo, la <jual«; conta oltr(5 ì'MHì anni di anti-
cliità (siccome (|uella che fino a'tenìpi dell' imperi •-
dosio e intorno all'anno 40(j di ('risU^, dal santo art.. j^o
Orso fu fabbricata), erasi allora .appunto dato principio a
muover tei'ra per ricnn^scerne le fondamenta: e a tal»* fine
cavavasi dentro la cliicsa, cioè nel piano più basso di «.-ssa,
che è (piello su cui immediatanu'nte si scende dalle tre
poi'te della facciata davanti, una gran buca, a pie dell'uno
de' due colonnali maestri, su' quali posano gli archi che
reggono i muri della nave di niezzo. Nel che fare come si
fu arrivato alla profondità di piedi i once 7 della misura
ravegnana, così venne scoprendosi un lastricato di bellis-
simi marmi di diversi colori, s'i vagamente a foggia di mu-
saico insieme commessi e congegnati, che nulla più. Erasi
alquanto più sopra, cioè alla profondità d' un piede, o d' un
mezzo piede di meno in circa, incontrato poc'anzi come un
altro suolo di marmo, o fosse egli predella di altare, o sca-
lino di piano più alto, o pezzo di rovina ivi a caso sepolto
(perocché non si pose cura a riconoscere ciò che fosse),
ma certamente interrotto, e non come questo, andante e
seguito. Noi vedemmo più volte il lastrico predetto cos'i
lustro e pulito come uno specchio; perocché tale era egli
mantenuto dall'acqua, che dalle sponde della buca in gran
copia sorgeva, talmente che coH'opera di due trombe, che
di continuo vi s'impiegavano, penossi a mantenerla vuota;
ed io stimo che quella parte di lastricato, che nel fondo
della cava rimanea scoperta, fosse lunga intorno a dieci
e larga intorno a sei o sette de' nostri piedi, e in una tanta
estensione non iscorgevasi in essa inegualità, non pendenza,
non rottura, non altro indizio di cosa posta fuor di suo
luogo ; onde il nostro avviso, e quello di tutti gli altri che
lo videro, fu esser quello un antico pavimento della chiesa,
e rimaso nell'antico suo sito nel rialzarla. Imperocché, egli
non può mettersi in dubbio, che qualche alzamento in qual-
che tempo non ne sia seguito, rendendosi ciò manifesto
dalle predette colonne, le cui basi e parte ancora de" fusti,
si veggono sepolte sotto il lastricato d'oggi. Anzi io tengo
per cosa certissima, che più d' una volta ciò sia avvenuto;
imperocché, siccome osservai in quella delle colonne, la
quale riusciva sull'orlo della detta buca, le basi sepolte
non posano di gran lunga sul piano del lastrico nuovamente
scoperto; ma ne rimangono più alte, se ben mi ricordo,
da tre in circa de' nostri piedi; da che parevami di poter
inferire, che per lo meno due volte sia convenuto alzare
quella chiesa; e che la prima volta ciò si facesse lasciando
stare il pavimento al suo luogo, in cui ora si é ritrovato,
con alzar le colonne fino al pari del nuovo lastrico, che
EUSTACHIO MANFREDI. GD
allora dovette farsi, e la seconda con disfare cotesto la-
strico, riportandolo vieppiù in alto, senza muovere le co-
lonne, che perciò restano in parte sepolte.
Ma egli non è mio intendimento di trattenervi con troppo
minuto rag*,niaglio intorno a ciò. Venendo dunque oramai a
(1 nello che da principio mi proposi di raccontarvi, dico,
che fattasi da noi una esatta livellazione di quell'antico
pavimento con alcuni termini stabili, indi non molto distanti,
i quali giù, ci era noto qual rapporto di altezza avessero
colla superficie del mare, grande fu la nostra maraviglia
al vedere, che il pavimento riusciva non più che sei once
ravegnane superiore al segno del mar basso e un poco più
di otto inferiore a ([uel termine cui si solleva la marea nel
suo llusso ordinario; per modo che, se il detto piano, quando
servì anticamente di suolo a quella cattedrale, avesse avuta
libera comunicazione col mare (il quale noi sappiamo che
a ([ue' tempi non era guari discosto dalla città, anzi entrava
dentro di essa e ne bagnava le contrade), egli si sarebbe
trovato due volte il giorno coperto d'acqua in altezza di
otto once ravegnane, che è oltre a un piede di Bologna;
])er non parlare di quello che sarebbe accaduto allorcliè il
mare o per llusso straortlinario o per burrasca si alza oltre
i soliti segni ; e acciocché non ne potesse rimanere alcun
dubbio che la cosa non fosse pur così, noi avevamo con tal
diligenza riconosciuti i termini del llusso e rillusso al porto
del Candiano, e poscia con tanta facilità e chiarezza, per
mezzo d'un lungo canale d'acqua stagnante, riportato il loro
livello sino alle mura della città, e finalmente con tante
r. prove accertati i rapporti di tutti i punti, per noi livellati
e fra di loro e col mare, che l'esitare sopra ciò sarebbe
stato un negar fede alla testimonianza degli occhi proprj.
Or dunijuc, strana cosa e troppo lontana dalla pratica co-
mune ne parve cotesto, che una sì grande e sì nobile ba-
silica, e fabbricata, come alcuni storici vogliono, a spese
dello stesso imperador Teodosio, fosse da principio in una
sì bassa o. misera situazione collocata, da rimanere ad ogni
ti-atto annegata dalle acc^ue e impraticabile al popolo, che
da una sì gran provincia a celebrarvi i divini ullicj dovea
concorrervi.
KgU è vero che per difenderla dall'escrescenze del mare
bastava che il piano del terreno, che per qualche tratto
air interno la circondava, o per lo meno le soglie delle sue
porte fossero più alte delle maree, né per altro alcuna
apertura vi fosse, per cui potesse avere comunicazione col
mare; e perciò si potrebbe supporre, che dalle dette soglie,
pur come ora si fa, si scendesse per alcuni scalini nel
piano della chiesa. Ma questo ancora non lasciava di sem-
ì)rarne assai strano: perchè, essendo dillìcilissimo 1' assicu-
rai'si che 1' acqua di fuori non trapelasse al di dentro per
lo commissure de' marmi, e non meno quella del mare che
70 BFX'OLO XVIII.
f|n<;lla dolio piopgo e de' fiumi di cjuel contomo, scensi jjlia-
tjinionte e fum/.a alcun prò' hì sarobbe oHposto quel nuovo
('(liii(;io a dovoro fra non molto divenire una pozzan^'liora
\)iiv mancanza di scolo, o p(;r lo nuMio a soon'-iatarnente
maccliiarsono quel va;<liissimo pavimento per 1' umidità, e
a rendei'si (luel sogf?iorno intollerabile per lo puzzo, rjuando
con tenorne il suolo un pi«}do o due più alto, potevasi o^'ni
incomodo ed o^nii pericolo bastantemente schivare. K co-
mochè si vo^dia condonare aj,di architetti il non aver pre-
veduto che lo torbido do" fiumi doveano talmente alzare il
terreno intorno intorno a ridosso della nuova fabbrica, che
ella ne sarebbe restata per parecchi piedi sorrenata,' sic-
come è accaduto, non si saprebbe si di \q<i^\ì'v\ perdonar
loro d'averla, contra ogni buona regola della loro arte, se-
polta da principio un piede sotto l'acfjua del mare.
Per togliere d mque a noi stessi la maraviglia di ciò
che cogli oc. hi nostri vedevamo, parve ad ambedue che
altro non rimanesse che ricorrere ad una supposizione, la
(luale, quando vi sia da me esposta, io dubito non forse
venga riputata degna di maggior maraviglia di quello che
fosse la cosa stessa che a pensarvi ne avea condotti ; e
<iuesta si è, che la difl'erenza d'altezza tra quell'antico
lastricato e la superficie del mare, dal tempo della fonda-
zione di quella metropolitana al di d'oggi, sia cangiata;
per modo che il lastricato predetto, il quale si trova ora
restar più basso delle comunali maree un piede di Bologna
in circa, allora o fosse eguale a quelle, o per avventura
le sopravanzasse. Il che se è cosi, conviene che nell'una
di due maniere sia accaduto: o perchè quel lastrico siasi
profondato dentro terra, o perchè la superficie del mare
siasi alzata, e giunga ora negli estremi suoi termini di flusso
e di ri/lusso a' segni rispettivamente più alti, di quelli a' quali
mille trecento anni sono giungeva.
Se io non temessi di noiarvi con una troppa lunga di-
ceria, potrei darvi ragguaglio di altre antiche fabbriche
della medesima città, delle quali, ove rinvenir si potessero
i primi piani che sotterra sono sepolti, ho cagione di cre-
dere che si trovassero anch'essi più bassi del mare. Io con-
terei fra queste il nobilissimo tempio de' monaci Cassinosi
di San Vitale, fabbricato intorno all'anno 541, di cui è me-
moria ne' registri di quel monastero che del 1702 fosse
alzato oltre due piedi, e di cui dicevami il padre abate
INIaffetti ricordarsi, che si ritrovarono allora sotto il vecchio
piano certissimi segni d' un altro precedente alzamento,
seguito air altezza della statura d'un uomo, ^'è tralascerei
la rinomatissima chiesa di santa Maria Rotonda, opera di
Teodorico re goto, nell' anno 495, della quale non avanza
^ Sorrenata, lo stesso che sotterrata, rimasta sotto la rena, che i fiumi
straripando portano sempre insiem con la terra.
EUSTACHIO MANFREDI. 71
fuor di tciTii che la metà superiore colla maravigliosa cu-
pola incavata a scalpello in uno smisurato sasso di un solo
pezzo, essendo il rimanente sorrenato nella campagna,
quantunque non molto alta, che le è d' intorno. Di (lueste
dico e di altre fabbriche ravegnane potrei darvi riprove,
che l'antico loro piano resti notabilmente più basso della
superfìcie del mare nel llusso e di taluna anco, per avven-
tura, nel rillusso ordinario; onde se non vogliamo credere
che gli architetti di quelle eti\ tutti fossero cosi scempj, o
da non conoscere o da non curare simili errori, egli pare
che ad altro non si possa ricorrere, che a cangiamento di
sito, per cui siansi o abbassate le fabbriche o alzata la
superlicie del mare.
Io sono andato pensando quale di questo due supposi-
zioni abbia più del credibile, e possa con maggior verisi-
militudine adattarsi a render ragione dello cose per noi
osservate. E sebbene non voglia negare esser possibile,
che le fabbriclie mentovate abbiano col tratto del tempo
qualche poco ceduto, profondandosi col proprio peso sot-
terra; anzi so molto bene essere comune osservazione, che
i terreni nuovi e ricolmati (come lo è (juasi tutto il Kave-
gnano) dalle alluvioni de'fìumi, nell'andare che fa la terra
insieme situandosi e rassettandosi, si veggono per alcun
tempo scemare di altezza, e tanto più quanto maggiore è
il peso di cui sono caricati ; nulladimeno non saprei deli-
berarmi ad attribuire l' effetto predetto, almeno in tutto,
ad una simil cagione. Imperocché, egli pare estremamente
dillìcile, che fabbriche di tanta altezza, quanta ne hanno
quelle che io vi ho raccontato, possano aver fatto un sì
gran calo, qual sarebbe quello di un piede, così dolcemente
ed egualmente in ogni loro parte, che in ciò fare non si
sieno punto spiombate e per conseguente anco arrendute
e scommesse ; delle quali cose ninna può conoscersi essere
in questo accaduta. Nò è meno dillicile a credere, che al
muoversi de' massicci della labbrica, lo stesso lastrico, senza
punto rilasciarsi ne' suoi attacchi co' muri e co' pilastri, e
senza fendersi né slogarsi in conto alcuno, ne abbia riposa-
tamente secondato il movimento, per modo che quella parte
del vecchio piano, che ora si è scoperta, trovasi così a livello
e così salda ed unita, £ome se pur ora fosse stata spianata.
Nò mi rimove da tal parere ciò che dicesi del calare
che fanno sul principio i terreni prodotti dalle deposizioni
de' fiumi; imperocché, se coloro che architettarono quelle
fabbriche, non furo^^o del tutto privi di senno, non sul nuovo
e superficiale terreno, ma sul vecchio e saldo e profondo
dovettero stabilirne le fondamenta, o pure a maggior si-
curezza sorreggerle con palificate, siccome appunto in
Ravenna praticavasi già fin da' tempi di Vitruvio, le cui
parole, tratte dal capo II del libro IX, piacemi di qui rife-
rire ; perciocché paiono scritto a bella posta per toglier di
72 blXULO XVIll.
mozzo o<rìì\ (liibbio ititoino airabbassainonto di quegli ediflzj
(leniuali ora trattiamo. At/nf.s aatem.... in paiustrihus locis
infra fundainenla aediflciorurn nu^brc fina..., pernuitu:t
imniorlalis ad acturnitatrìn, et a ' pon-
dera slructurtie, et sine viliis con - //* id
onaximc ronsidcrarc Havennae, qì'od ibi omnia opera et
2>ubUca et privata sub fandamentis ejus generis habeant
pai OS.
Kii;\i l'imano dunque clic; finalmonte noi ci deterniiniamo
a con Cessare, doversi un tal lenonieno ascrivere ad eleva-
zione dell'acqua del mare seguita in questi 12 o 13 secoli,
che dopo la prima costruzione di questi edifizj sono tra-
scorsi ; e tale fu eziandio il parere del signor Zendrini, il
quale so;rgiun<(evami non esser (luello l'unico indizio ch'egli
avesse veduto dell'alzarsi della superficie del mare, ma
averne riconosciuti assai altri ben manifesti in Venezia,
neiroccasione che egli, come matematico di quella sere-
nissima repubblica ha di continuo, di osservare gli eHetii
delle acque in quella laguna, e di confrontare le sue osser-
vazioni colle antiche memorie.
Ed avendolo io poi pregato per lettere dopo il suo ri-
torno colà a soddisfare alla mia curiosità, specificandomi
alcuno di cotesti segni da lui veduti; fra molti che me ne
lia dati, assai chiaro parmi esser quello, che il piano della
chiesa sotterranea del nobilissimo tempio ducale di san Marco,
fabbricato come si ha dalle istorie nel nono secolo di Cristo,
nel qual piano, non meno che nel tempio superiore, si ce-
lebravano da' fedeli, secondo l'uso di que* secoli, i divini
ufilcj, sia stato abbandonato, atteso il gemere che ne face-
vano i muri ; raccogliendosi in fatti dalle misure per lui
inviatemi, che il detto piano sotterraneo sia ora più basso
del flusso comune del mare. Kè minor forza a persuadere
lo stesso hanno altre osservazioni da lui mandatemi, come
quella che nelle straordinarie escrescenze della laguna,
l'acqua fosse salita ad annegare la piazza, che ora è stata
alzata d' un piede, anzi entrasse fin dentro al medesimo
tempio e sopra il piano regolare di esso ; e che il portico
del Broglio, il quale riesce nella detta piazza, avesse altre
volte un lastrico d' un piede più basso, sul quale posino i
piedistalli delle colonne, ora affatto sepolti ; non potendosi
per mio avviso supporre, che sia seguito alcun notabile
abbassamento, almeno della piazza e del lastrico di quel
portico, né credere che simili piani non fossero da prin-
cipio tenuti tant' alti, da dover rimaner sempre all' asciutto
anco nelle maggiori commozioni del mare.
Potrei confermare questa conghiettura colla testimo-
nianza d'alcuni rinomati filosofi, non meno de" tempi addietro
che de" nostri, i quali non hanno messo in dubbio codesto
alzamento, riconoscendolo per un necessario effetto di quella
gran quantità di terra, che i torrenti vanno perpetuamente
EUSTACHIO MANFREDI. 73
rodendo da montaj^ne onde scendono, e deponoiulo nel seno
del maro. E sebbene potrebbe taluno sospettare, non forse
l'accrescimento della terra in quel j^ran vaso possa venire
ricompensato da diminuzione d'accjua, la quale t^opo essersi
sollevata dal mare in vapori e ricaduta sulla terra in Torma
di pio^'^àe o di nevi, non ritorni già tutta né a svaporare
per convertirsi di nuovo in piogjjia, né a scorrere per gli
alvei de' fiumi tino al mare, ma in parte vada penetrando
sempre più addentro nel terreno, e in partii resti assorbita
da cieche voragini, dalle quali non trovi più strada, che al
mare la riconduca; nulladimeno, ove l'esperienza ne renda
certi che il mare cresca oltre i primieri segni, converrà
conl'essare, o che in esso vada perpetuamente ritornando
tanto d' acqua, quanto ne è uscito, o che si poco se ne
perda, che questo non possa mettersi in isconto con quella
([uantità di terra, che certamente si va accumulando in sua
vece nel tondo del mare.
Sono alcuni, i quali non che persuadersi che egli si alzi
di superlicie, stimano potersi dimostrare il contrario per
mezzo di una assai comune osservazione ; e questa si è,
che in parecchi luoghi egli si ritira dal continente, lasciando
spiaggia, ove per l'addietro era ac(iua; né di ciò fa biso-
gno cercare molto da lontano le prove, scorgendosi mani-
fi'stamento essere ciò succeduto, e tuttavia succedere, non
che altrove, nel lido ravegnano, di cui parliamo, il quale
per le memorie che si hanno degli antichi suoi termini,
trovasi, dai tempi d'Augusto lino all' età nostra, per ben tre
miglia inoltrato e prolungato più avanti nel mare. Ma (luelli
che cosi ragionano, se io non m'inganno, deducono da un
fatto verissimo una conseguenza opposta al vero, e dandosi
a credere di aver ritrovato un manifesto indizio che il mare
si abbassi, altro non hanno fatto che addurre una ragione,
l)er cui egli si debba alzare. Imperocché l'avanzamento
de' lidi e il ritiramento del mare non succede regolarmente
che in quelle spiaggie, le quali, essendo di poca profondità,
vanno con pendenza quasi insensibile a seppellirsi sotto la
superfìcie dell' accjua, e nel solo caso che indi non lungi
metta foce un lìume torbido. Ivi dunque le materie portate
da questo vengono dalla correntia sospinte lungo il lido,
ove deponendosi formano prima bassi ed occulti scanni, i
(piali, alzandosi poscia a poco a poco, allorché sieno giunti
a segno di non essere più sormontati nel rillusso, comincia
a sorgere la nuova spiaggia. Quindi é che di leggieri si
giudica, che il mare col ritirarsi l'abbia lasciata in asciutto,
come se egli avesse scemato di altezza ; (juando, al con-
trario, é forza che egli pur (jualche poco sia cresciuto; per-
ciocché, trovando l'acciua quella parte dell'antico suo letto
(la straniere materie ingombrata, dee per necessità di na-
tura riacquistare in altezza (luello spazio, che in ampiezza
ha perduto.
74 8EC0L0 XVIII.
K^Mi è il vero, che le alluvioni per tal modo prodotte
vp.n^rono poscia colmate di nuovo dallo stesso mare, il (juale
liei t.<Mnj)0 dolio biu'rasclie sconvoigf'ndo e rimescolando le
])r()prie arene da' più cupi suoi fondi, e lanciandole collo
onde verso il lido, ne cosperge le nuove spiaggie, e coll'an-
tiche finalmente le pareggia: ma acciocché cotesto rigettar
cirogli fa le materie nel suo fondo depo'^te, non si adduca
per una nuova ragione conlra F alzamento di esso da noi
preteso, basta ricordarsi, che se in que' luoghi che si son
detti, il mare si ritira, altri ben ve ne hanno ne' quali si
avanza; e se in quelli si accresce la spiaggia per la sabbia
che egli vi lascia, in altri di continuo si scema per quella
che ne rode e ne inghiotte; onde in vantaggio del suo ac-
crescimento sempre rimane (juella, che dal corso de' fiumi
gli viene del continuo somministrata.
Ma perchè taluno considerando da una parte la smisu-
rata estensione del mare, e dall'altra il poco o nulla ab-
bassarsi di que' terreni, i quali somministrano la materia
al riempimento di esso, potrebbe per avventura persua-
dersi che un tale effetto dovesse riuscire anche in migliaia
d'anni insensibile e di niun conto; io son tra me stesso
andato divisando qual metodo si potesse tenere per ridurre
la presente ricerca ad un calcolo: e comechè ben conosca
esser cosa troppo dillìcile, per non dire impossibile, accer-
tare in altro modo che coli' esperienza la quantità di co-
testo alzamento, tuttavia non so indurmi a riputare impresa
del tutto disperata quella di determinare un limite, di cui
non possa l'alzamento predetto ragionevolmente esser mi-
nore, ma bensì maggiore in un dato tempo.
A tal fine io prendo a considerare quella sola quan-
tità di materia terrea più sottile, che nelle acque correnti
stando sollevata dal fondo, ed intimamente mescolata col-
r acqua, le toglie la trasparenza e la rende torbida : cioè
a dire quella a cui propriamente si dà il nome di terra,
ovvero di limo o pur di belletta; e di questa prendo a
ricercare la quantità che nello spazio d" un anno da tutte
le parti della superficie terrestre viene tramandata nel
mare, ed ivi deposta; non mettendo in conto la sabbia, non
la ghiaia, non il sasso; non alcun' altra materia di quelle,
che strisciando lungo il fondo de' fiumi, vanno ancor esse
al medesimo ultimo termine delle acque. E perchè fuori del
tempo delle piene i fiumi o non corrono torbidi o appena
è sensibile la loro torbidezza, né le piene sopravvengono
ad essi se non a' tempi delle pioggie o a quelli dello scio-
glimento delle nevi, né finalmente le pioggie e le nevi nel
loro scioglimento si scolano immediamente per altri alvei
che per quelli de' torrenti, i quali in ogni altro stato ri-
mangono asciutti o almeno poverissimi di acque; egli è
manifesto, che la quantità di terra, che noi prendiamo a
misurare, è quella che passa in un anno per le foci di tutti
EUSTACHIO MANFREDI. 75
i torrenti del mondo (o riescano poi queste foci immedia-
tamente nel mare, o dentro liumi tributarj anch'essi del
mare), mescolata con quella quantitìi d'accjua, che nel detto
tempo si scarica per le foci predette; e che questa quan-
titìi di acqua non altronde ha la sua origine, che dalle
pioggie e dalle nevi disfatte. Noi potremo <luu(iue sapere
la misura della materia terrestre, di cui parliamo, ove due
cose ne riesca di rinvenire; cioè primieramente, la quan-
iìtù. dell'acqua di pioggie e di nevi, che nello spazio d'un
anno scorrendo per li torrenti, giunge tino alle loro foci, e
in secondo luogo, la proporzione che ha verso cotesta (juan-
titìi d' acqua, ([uella della terra che l' intorbida.
Se quella misura d'acqua, che noi cerchiamo, fosse tutta
quella che cade nel detto spazio dal cielo, non sarebbe dif-
ticile lo stabilirne la quantità, per (juanto nella presento
ricerca ne può bisognare, dappoiché da tanti dottissimi e
diligentissimi uomini, con osservazioni esatte e per lunga
serie d'anni continuate, è stata a'tempi nostri indagata.
Imperocché sebben hanno essi avvertito altra esser questa
misura in altri luoghi della terra, e le pioggie trovarsi più
copiose ne' luoghi montuosi che ne'piani, più nelle vicinanze
del mare che dentro terra, più nella zona torrida che nella
temperata; nuUadimeno, bastando a noi di non peccare in
eccesso in (jucsta determinazione, per non aumentar di so-
verchio, insieme colla quantità dell'acqua, quella della terra
che l'intorbida, mi parrebbe esser certo di non incorrere
in tal errore appigliandomi alla menoma fra le quantità in
diversi luoghi osservate, che è quella che il signor Maraldi,
ricompensando gli eccessi di un anno co' difetti dell'altro,
stabili per Parigi, di once 18 di altezza; ella è quasi la metà
meno di quello che risulta dalle osservazioni fatte dal no-
stro accademico, il signor Iacopo Bartolommeo Beccari in
Bologna.
Ma egli è certo che, contuttoché cadano dal cielo co-
teste 18 once d'acqua in un anno (che pur mi giova di
Ungere non cadérne di più), non arriva di gran lunga tanta
mole d'acqua per gli alvei de' torrenti tino ai loro sbocchi;
mercecchè, ne' tempi d'estate, comechè copiose più che in
altra stagione sieno le pioggie, appena è che i torrenti si
veggano correre più che mezzanamente gonfi al loro ter-
mine ; e ciò addiviene perchè il terreno, allora arsiccio e
sitibondo, prestamente inzuppandosi della pioggia caduta,
o non ne somministra a' solchi e a' rigagnoli che assai pic-
cola parte, o questi di nuovo la bevono e la consumano per
istrada, o alla tìne il torrente stesso nell'arido suo letto
l'assorbì; alle quali cagioni quella eziandio è da aggiugnere,
che il calore dell'aria e l'agitazione del vento e il per-
cuoter del sole gran parte ne asciuga, e ne disperde in
vapori. Io confesso che sarebbe dillìcile senza un gran nu-
mero di esperienze diilinire ([uanta sia la perdita che so
ti; hix'olo xviii.
no IH per lo aJtlotto cagioni; ma flnaliiìcnU^ ù pur certo,
clic- «'Ila non si disperdo tutta, e cIk* (|ijalclje parte ancli«^
in (jticlla sta^Moiie ne vicn trarnandaUi da' torrenti a' loro
shocchi: ond(; essondo dall'altra parte ancor certo, clic
(|iuindo la terra e ^'ià imbevuta e sazia per le passato
piof?'?ie, e quando il caMo non ha più tanta foi-za, come
neir autunno avanzato, in'W inverno e nella primavera, non
può larsene consumo che sia di molto conto, mi parrebbe
assai vcrisimilmonte con',diietturare chi supponesse scorrere
lino air esito de' torrenti la metà sola e almeno poi la terza
parte di quella che cade in tutto l'anno, e (luella sola sca-
ricarsi, o immediatamente o per mezzo dei fiumi reali,
nel mare; il che se così a voi, come a me, par ragione-
vole, si può determinare la misura di tutta quest'acqua
d'once 6 di Parigi, cioè di once 5 di Bologna, in altezza
e in ampiezza di tutta la parte terrestre di questo globo
della terra.
Ciò staljìiito, passiamo a discorrere della proporzione che
è fra l'acqua torbida de' torrenti e la terra per entro me-
scolatavi, che tale la rende. Io non dubito punto, che ancor
questa non sia diversa, secondo che diversa sarà la natura
de' terreni, da' quali ciascun torrente prenderà le sue acque.
Imperocché, dalle balze allatto nude, la cui superficie o di
sasso di macigno o di gesso o d'altra dura materia sia
incrostata, niente di terra si tramanda ; poco ne sommini-
strano i luoghi difesi da una folta cotica • di gramigne o
d'altre erbe; poco più quelli che sono ingombrati da mac-
chie e da boscaglie; il più ne viene da quelli di nuda terra
atta alla coltivazione, e molto più ancora se ella attual-
mente è coltivata, e se trovasi posta in pendio, come sul-
Terto de' monti e de' poggi. Oltre di ciò, nò in ogni fiumana
che venga dallo stesso torrente, né in tutta la durata della
stessa fiumana, eguale é il grado di torbidezza, osservan-
dosi che, nelle prime piene dell'estate o dell'autunno, l'acqua
è più carica di tali materie, che quando dopo lunga pioggia
la terra é già dilavata; come pure che più lo é nelle fiu-
mane rapide e violente, che provengono dai subiti tempo-
rali, che in quelle che si fanno o da lente pioggie o dal
disfarsi delle nevi, e più sempre nel principio o nel colmo,
che nel declinare della piena. Egli parrebbe dunque neces-
sario cercare la proporzione predetta in tutti i torrenti e
in tutte le mentovate circostanze ; il che infinita e impossibil
cosa sarebbe : ma io mi do a credere, che senza un sì gran
numero di osservazioni, ben potesse bastare lo scegliere
alcuno di que' torrenti, il cui corso, come eziandio quello
de* loro tributarj, in parte sia fra nude rupi, fra praterie,
fra boschi, e in parte ancora fra colture di piano e di monte :
* Cotica è detto per siniilitudiQe lo strato superficiale del terreuo,
qui rivestito d'erbe e granii^ue.
EUSTACHIO MANFREDI. 77
Ut'' d'un solo contentarsi, ma considerarne molti, e in molte
e lontane parti della tcM'ra, e di cias("niio di essi (are gli
esperimenti in tale stato del torrente, che si possa ragio-
nevolmente estimare, non trovarsi egli nò al sommo nò
;i.ir infimo grado di qnella torbidezza di cni è capace.
Io vi riferirò in tal proposito (jnello che nella visita
delle acque bolognesi, e delle altre vicine provincie avutasi
l'anno 17'-Ì0, fu osservato nel nostro Reno il di -^7 di l'eb-
braio, sì perchè panni che questo torrente abbia le accen-
nate qualità per le quali possa essere scelto a tal disamina,
s'i anco perchè l'osservazione che sono per dirvi, fa latta
di comune concerto fra molti celebri matematici, co' quali
io mi trovava in (luella visita; ed erano il padre abate
(irandi, il padre abate Galiani, ora arcivescovo di Taranto
e cappellano maggiore della real cappella di Napoli, il si-
gnor Gio. Iacopo Mai'inoni, il signor Giovanni Ceva, il si-
gnor l^ernardino Zendi'ini, il siguoi' Francesco Zanetti, il
signor Domenico Corradi, il fu signor Giuseppe Antonio
Nadi, e il signor (ìabriello mio fratello, oltre molti esperti
ingegneri, altri bolognesi, alti'i d'altre provincie.
Mra il Reno in una mezznna escrescenza, che durò per
molti giorni, come ((uella v\h\ procedea dalle nevi, che; dalla
montagna si andavano dileguando. Si empì un fiasco di vetro
della sua acqua, presa non molto sotto la superlìcie di essa,
la (|ual acqua appariva assai torbida: ma per mio avviso
non potea essere nella massima sua terbi (hr/za, attese le
dette circostanze di (juclla piena, e del sito ove l'acqua
fu presa. Si serbò nel vaso por un giorno, cioè Ano a che
cadendo a fondo la parte terrea, rimanesse l'acqua per-
fettamente chiara; ciuindi decantandola' riposatamente in
un bicchiere di vetro di lìgura conica, si osservò quante di
(|uelle misure ella riempisse lino all'orlo ; e nell'ultimo, i-i-
mescolando tutta la terra del fondo con <iuel poco d' acqua
che vi era restata, si versò nello stesso bicchiere, che ne
rimase alquanto scemo. Indi, lasciatasi di bel nuovo deporre
entro il bicchiere la tei'ra, si misurò diligentemente quanta
parte dell'altezza di ([uel cono fosse piena sino alla super-
ficie dell'acqua, o (juanta ne ingombrasse la sola terra, che
nel fondo e presso al vertice del cono era rimasa ; ed ivi
anch'essa orizzontalmente spianata, e fattasi una ragione
della capacità della detta parte del bicchiere occupata dalla
terra, e di quella dell'altra parte ancor piena d'acqua,
aggiungendo a questa la somma dell'altra acqua già ver-
sata, si trovò la proporzione di tutta la terra a tutta l'acqua
esser quella di 1 a 174, cred' io, non senza maraviglia d'al-
cuni che si davano a credere, che il Reno corresse con un
terzo, e a un bisogno, con due terzi di terra.
' Cio»i travasandola leggormento, perdio rimanesse nel fondo «lei Ijìc-
chiere la posata, fe vore della Chiniica.
78 SECOLO XVIII.
rrondcntlo dunque questa proporzione come mezzana fra
lo molte, olio in diversi torrenti e in diversi stati del me-
desimo torrente si troverebbero (la qual cosa solamente a
cagione d'esempio intendo di fare, poiché la quantità del-
l' ac(jua torbida elio in un anno entra nel man.*, si è tro-
vato esser tanta, elio e^Mial mente distesa sopra la super-
ficie terrestre, vi si alzer-ebbe once 5 della misura di Bologna),
e/^li è manifesto tanta essere la materia terrea della pr^detUa
condizione che con essa va al mare, che, distend<*ndola e
spianandola anch'essa egualmente sopra la medesima su-
perficie tei'i'estre, vi si sosterrebbe all'altezza di 5 parti
delle 174, nelle quali un'oncia si può intender divisa.
('io supposto, egli sarebbe assai facile conchiuderne,
quanto sia quell'accrescimento d'altezza che dee seguire
nel mare in (lualsivoglia dato tempo, o per meglio din; quel
limite di accrescimonto, che egli senza dubbio dovrebbe in
quel tempo oltrepassare ; imperocché, essendo la superficie
del mare, per quanto nei globi e nelle carte geografiche si
può scorgere, qualche cosa meno del doppio della super-
ficie della parte terrestre, egli è chiaro che applicando la
detta quantità della terra, la quale intorbida le acque
de' torrenti, e tutta V ampiezza del mare, e spianandovela
sopra, si ridurrebbe quella ad un'altezza minore del doppio,
cioè a 5 parti delle 348 che un'oncia può contenere; onde
restando la predetta quantità di terra dentro il mare, come
ve la gettano i fiumi nello spazio d' un anno, altrettanto
dovrà alzarsene la superficie. Sarebbe dunque l'alzamento
di essa in ragione di once 5 in 348 anni, a conto della sola
materia di terra sottile che importano i fiumi torbidi; o più
tosto sarebbe questo il limite del minimo alzamento possi-
bile nel detto spazio di tempo, che è ciò che si era preso
a cercare.
Quanto sia poi quello che il mare dovesse cr:scere oltre
questa misura per conto della rena, della ghiaia e de' sassi
che essi vi recano, io non oserei definirlo. Mi par solo di
poter credere, che l'effetto di queste materie dovesse es-
sere assai più grande, che quello delle prime ; e sarebbe
da desiderare, che i nostri maggiori ne avessero lasciate
memorie de' segni stabili, ai quali di mano in mano fossero
giunte le maree ordinarie nell' età loro, che ne servireb-
bero ora per una certa misura, siccome potranno servire
a' posteri quelli che nell' età nostra si saranno osservati.
Contuttoché nel calcolo finora fatto, io non abbia inteso
che dare un esempio di quel metodo, che io stimerei potersi
mettere in pratica per trovare un limite del minimo alza-
mento del mare, ho tuttavia cagione di credere, che per
quello che riguarda la sola terra sottile che si posa dentro
di esso, la misura di once 5 in anni 348 non vada esorbi-
tantemente lontana dal vero. A così giudicare mi muove
un' osservazione inviatami fra le altre dal signor Zendrini ;
EUSTACHIO MANFREDI. 79
ed è, che quella banchina di marino che ^ira intorno intorno
al dncal palazzo di san Marco di Venezia dalhi parte che
guarda verso il canale, la qual banchina senza dubbio fu
costrutta a comodo de' barcaiuoli, acciocché a piedi potes-
sero andare a trovare le loro gondole, che in grandissimo
numero stanno ferme entro quel canale mentre il gran
Consiglio è rannate, si trova oggidì più bassa d' un mezzo
piede della comune marea. Fu quel superbo edificio fab-
bricato intorno all'anno 1500; perciò se noi volessimo sup-
porre, che il piano della banchina fosse messo precisamente
a livello della marea ordinaria a que' tempi, l'alzamento
del mare in questi anni 230, che fino ad oggi sono varcati,
sarebbe stato di un mezzo piede; ma se supporremo, come
a me pare più ragionevole, che il detto piano fosse rego-
lato a tale altezza, che per lo meno nel tempo della marea
riuscisse al pari delle sponde delle gondole che sono in
canale, le quali sponde nel sito più basso sopravanzano
intorno a un altro mezzo piede al pelo dell'acqua, sarà
l'alzamento, seguito in 230 anni, d'un piede incirca; della
(lual misura dando tre once a un dipresso alle torbide
(le' fiumi (che tanto ne tocca loro nel predetto ragguaglio),
ne rimangono altre otto e mezza, da poter riconoscere per
un ell'etto delle altre materi(ì più gravi, deposte in 230 anni
nel mare.
Se, come par che dimostri la predetta osservazione,
r alzamento totale del mare in anni 230, è di un piede, egli
sarà stato di piedi 5 once 9 in que' 1330 anni che si con-
iano dalla fondazione della chiesa mef ;'opolitana di Ravenna
lino al dì d'oggi ; e quell'antico lastricato, che ora si è tro-
vato più basso delle maree comuni un buon piede di Bo-
logna, sarà stato da principio collocato ad un' altezza su-
periore alle medesime oltre piedi 4 '/»• Anche questa misura
non va troppo lontana dal ragionevole; imperocché, sebbene
é all'atto incredibile, che in Ravenna i piani delle nuove
fabbriche si facessero più bassi del mare, vi ha tuttavia
fondamento di sospettare, che in alcune chiese penetrasse
l'acqua dentro le sepolture; il che potè dare occasione a
Sidonio Apollinare (scrittore che fiorì verso la fine del quinto
secolo) di dire scherzando in una sua lettera, in qua pa-
lude (egli parla della città di Ravenna) indesinenter rerum
omnium Icge perversa muri cadunt, aquae stant, turres
fluunt, naves sedent, aegri deambulant, medici jacent,
algcnt balnea, domicilia conflagrant, sitiunt vivi^ natant
sepulti.
Comunque siasi, io stimo dilUcile il non restar convinto
dalle cose fin ora dette, non solo dell'alzarsi del mare, ma
che tale alzamento anche a riguardo della sola terra sot-
tile dee rendersi sensibile in pochi secoli, se pui*e non vo-
gliamo sostenere contro ogni apparenza, che quella parte
di acqua delle pioggie, che i torrenti portano al mare, non
ftO 8EC0L0 xvin.
al)l»i;i cIk' lina proporziono insensibile a tutta (jiiclla clic»
c:n\o sopra la terra. Kepiifo ancora sovercliio il far parolo
del ^Minili' liso che potrebbe avere n^lla vita eivile 1* intra-
picudi'i'c seriain(Mit(^ la rif'<?reji di <|iicstH misura (conn'eln>
non dubiti potei'si questa, molto me;/lio fjie danoi, ne^*ertare
da (jiK'Ili r\n' abitano Inn^^o il mare), o sia per prender re-
^,'ola ne' piani delle nuove fabbriche, o sia per prevedere
le altei'jizioni, r-lie ])onno aceadore a'Ilnmi e ■'" ' eam-
pa^^MK' dclbi, piannrji, e con ciò r<';:olar<r le L .i, i^li
ar;,'in:im('nti (3 T eseavazioni dei condotti d«.*ii«j arejuc. Iv f(ià
io ri<,niaid() esser frutto non leggero né disprezzabile di
<totesta generale notizia, cbe U mare cresca oi superficie,
(liK'llo fli poteiM^ oi'amai dfcidi^re una quistione, clic era di
•,q'an momento nella dottrina de' fiumi : ci(>«*', se il letto di
qih'sti si debba perpetuamente andar*» elevando, come volle
il signor Viviani, o se abbiano un termine di alzamento
definito dalla natura per ciascun fiume; al (|ual t«*rmine
ove egli sia giunto, la cadente ' del suo fondo più non si
alteri, ma quale si trova, tale perpetuamente si rimanga,
come con salde ragioni mostrò il signor Guglielmini. Im-
perocché, ove si tratti di uno spazio di tempo non troppo
lungo, e in cui il crescer del mare non si possa gran fatto
render sensibile, i fiumi non dovranno alterai'si, purché
intanto non segua un notai)ile prolungamento del loi-o alveo;
ma col volger de' secoli dovranno alzarsi le cadenti di tutti,
ritenendo sempre a un dipresso quella pendenza, che per
ciascuno di essi dalla natura, cioè dalla quantità e condi-
zione delle loro acf[ue, e da quelle delle materie che por-
tano, è stata stabilita.
Che dirò poi delle conseguenze che i filosofi potrebbero
ricavarne intorno alle grandi mutazioni di questo globo
terrestre? Largo campo certamente si aprirebbe loro non
meno di spiegare l'origine di quei corpi ora naturali, ora
artificiali, che fra" luoghi piani si trovano nel cavar pozzi
o nel condurre fosse alquanto profonde, che di filosofare
intorno all' antichità de' tempi e alle prime origini delle
cose. Anzi, è da credere che, ove tali sperienze si facciano
e si vaiano proseguendo colla debita diligenza, sia per
parer loro di aver materia bastevole, non pure per inten-
dere l'istoria naturale del passato e del presente, ma ezian-
dio per comporre quella dell'avvenire.
Fin qui aveva io stese, ed anco partecipate ad alcuni
de' nostri accademici queste mie conghietture, quando da
Venezia mi è giunto il Corso di fisica del signor Niccolò
Hartsoecker, stampato all'Aia l'anno 1730, nel cui libro
settimo si tratta di questa materia. Io mi sono meco stesso
rallegrato al vedere, che tanto nella opinione sopra 1' ac-
crescimento del mare, quanto nel metodo di misurarlo per
* Nel siguificato idraulico vale tncì inazione, pendenza.
EUSTACHIO MANFREDI. 81
mezzo della proporziono dell'acqua corrente alla terra elio
r intorbida, mi trovo d'accordo con un (ilosofo sì rinomato.
Egli suppone comunemente noto in Olanda che il mare si
alzi ; e dal vedersi quegli argini elio lo rafirenano, o che
essi chiamano (liglic, essere senza scarpa, ingegnosamento
argomenta che sieno stati fatti in più volte, cioè a misura
che, si è andata rendendo sensibile l'alterazione dell'acqua.
È vero che non paro riconoscer egli altra cagione di
tale alzamento, che la terra sottile che entra nel mare,
senza metter in conto i corpi più gravi, che io stimo non
doversi trascurare ; e che per trovar la misura della detta
terra, egli si vale di osservazioni fatto non già in un tor-
rente, ma nel Reno di Germania, che è liume reale, e che
oltre le acquo flelle pioggie o quelle delle nevi, ne riceve
gran copia dalle suo sorgenti e da' laghi per li quali passa;
onde, ancorché si voglia concedere clie tutte queste acque
vengono o immediatamente o mediatamente da quelle che
cadon dal cielo in forma di pioggia o di neve, non veggo
come egli possa separare la sola quantità d'accjua proce-
dente dalle pioggie d' un anno, da quella che per avventura
caduta in più anni, mantiene i rivi e le fontane, per pa-
ragonarla colla (juantità di terra, che parimente in un anno
vien jportata al mare.
Ciò non ostante, egli trova il lleno della Germania, nello
stato della sua mezzana torbidezza, molto più feccioso del
nostro di Bologna, dandogli solo 99 parti d' acqua per una
di terra; e da questa sola quantità conchiude l'alzamento
del mare d' un piede in 100 anni, quando noi non l'abbiamo
fatto per questo conto che di once 5 in anni 348. lo temo
che la sua misura non sia alquanto eccessiva.
Da questa misura inferisce egli, che in dieci mila anni
deve essere consumata e smaltita tutta ([uella terra, che è
atta alla coltivazione, e la superlicie terrestre allatto iste-
rilita, come quella che sia ridotta a nudi sassi per quel
tratto di essa, che non sarà sommerso nel mare. Ma se il
maro si alza, io stimo che in meno di tre mila anni non
sarà più possibile rallVenare i li unii con argini tra le pia-
nure; onde essi traboccando da' loro letti, le ricolmeranno
di nuova terra, la quale, siccome posta in piano, non sarà
più sì agevolmente a' tempi dello pioggie trasportata al
mare. Allora è facile che di nuovo venga talento agli abi-
tatori di riarginare i lìumi per asciugare quelle pianure,
per lino a che, dopo un altro più lungo tempo, un nuovo
alzamento del mare gli obblighi ad abbandonarle alla di-
screzione dell'acqua. E chi sa quante volte a quest'ora
sieno seguiti sopra la terra simili cangiamenti ? — (Dalla
Relazione sopra l'alzarsi che fa di continuo la superficie
del mare, inserita nella Raccolta di Autori che trattano
del moto delle acque. Firenze, nella Stamperia di Sua Al-
tezza Reale, 1770, tomo VII, pp. 27-42.)
IV. r>
82 SECOLO XVIII.
GIOV. PIETRO /ANOTTI.
Di HO stesso e de' casi suol lasciò egli un racconto, nella Sto-
ria dell' Accademia clementina di iio/oz/na, riportato dal Gami'.a.
in Alc.iiw opere/te di O. 1'. Zanotti (Venezia, Alvisopoli, 1
Nacque in l'arigi da Giov. Andrea Cavazzoni-Zanotti, comico d ..
«ine bolognese, ai 4 ottobre 1674, e da lui a dicci anni fu ricon-
dotto in patria, ove attcHc allo studio della pittura, che fu la sua
j)rincipale professione. Ma attese anche alle lettere, alternando i
lavori fra quadri e libri. Era niagjjior fratello di Francesco Maria,
del quale più oltre diremo, e fu j)adre dell'astronomo f.ustachio,
cosi chiamato perchè tenuto a battesimo da Eustachio .Manfredi,
ch'era amicissimo a Giov. Pietro, e del quale questi scrisse V Elogio.
Fu segretario deirAccademia di Helle Arti, «letta Clementina e ne
compilò la storia (Hologna, 1739, 2 voi. in 4"). Parecchie sue Let-
tere si trovano nel Carteggio dell'Algarotti (voi. XI-XII;. Togliamo
un capitolo dal suo trattato che s'intitola Avvertimenti lìer V in-
camminamento d'un giovane alla j^ittura (Bologna, 175G). Mori vec-
chissimo, ai 28 settembre 1765.
Degli affetti nella pittura. — Tanto fu sempre estimata, e
debitamente, la espressione degli afTetti.ciie non pochi hanno
scritto elle principalmente per questa si acquistasse Rafaello
il nome di divino; e veramente, questa parta della pittura
(e direi quasi sovra ogni altra, e forse mal non direi) è me-
ritevole di ogni studio e di ogni attenzione, e di essere cosa
divina riputata. Consiste questa nello esprimere i varii affetti
dell'animo, i quali per certa incomprensibil legge fanno va-
rie impressioni nei corpi; dal che nascono diversi moti e di-
versi effetti che, ben imitati dal pittore, fanno subitamente
che la figura da esso lui dipinta mostri sentire nell'animo,
che non ha, ma che si vorrebbe lare apparire che avesse,
quella passione convenevole a quanto rappresenta ; ora,
siccome il poeta tenta talora questi affetti esprimere fa-
cendo coi versi una immagine di ciò che quella passione
nei movimenti del corpo produce, cosi conviene al dipin-
tore esaminar quali effetti nell'esterno di un corpo pro-
duca l'interno affetto dell'animo, e ritraendoU con vera
imitazione, fare apparire in quella tale figura da lui di-
pinta sdegno amore o temenza o pietà, ma con questo
di più, che in ciò debbe usar maggior diligenza il pittor
che il poeta. La poesia, clie parla e ragiona, può senza il soc-
corso di così vive immagini quell'affetto fare intendere, che
vuol che s'intenda; ma la pittura, eh" è muta, non può, se
non che come i mutoli, gl'interni sensi rappresentare e far
conoscere con immagini tratte da quegli esteriii effetti, che
nei corpi nostri una passione, qualunque siasi, produce. Gran
GIOV. PIETRO ZANOTTI. 83
pittoii in poesia furono Dante e l'Ariosto, e gran poeti in pit-
tura KalUello e i nostri Carracci.
Bisogna considerare, elio a misura della forza degli af-
fetti, le parti del corpo più o meno alla violenza di tali
all'etti debbono corrispondere ; e quando cosi veemente sia
la passione, che in ogni parte del corpo si diffonda, è uopo
ad ognuna di queste cose aver riguardo. Un eccessivo terri-
bile orrore, accompagnato da un dolore improvviso e mor-
tale, spazia per tutte le membra, e talora più passioni in-
sieme vanno unite, e ne viene ogni pai'te del corpo turbata e
agitata, come nella divina statua del Laocoonte, conturbato
per r inevitabil pericolo de' ligliuoli vicini ad essere divorati,
e dal suo: e questo non si puote esprimere e far manifesto
con altro, che col rappresentare con esatto disegno ciò che
nasce di visibile agli occhi nostri. Quegli affetti che succe-
dono più prossimi alla sede ove stanno, ed operano con più
vigore le commosso passioni, più e maggiore alterazione
debbono in sé avere, e il ben disciplinato pittore non ne ha
da trasandare alcuna, e di quelle principalmente che sono
universalmente notate ; nel rimanente poi non ha da intisi-
chire coi lìlosofi, cui più profonde ricerche appartengono.
Alla espressione degli affetti non si può dire quanto an-
cora serva il colore, suffragio che i scultori non hanno;
ond' è che il pittore le apparenze del colorito dee tenere
in gran conto, ed ora acceso dimostrarlo, come effetto di
caldo sdegno, ed ora pallido, come tocco da fredda paura.
11 sangue, eh' è l'anima del colore, più o men vivo il fa
vedere, a misura della veemenza che lo accende e lo spi-
gne, o della temenza che il raffredda e rallenta. Vi sono
poi corte passioni temperate in guisa, che pochi e leggeri
segni di loro fan manifesti, e queste passioni sono, come
notano i dotti accademici di Parigi, le più dillicili da rap-
presentare, come è più dilficile il tirare ad un bersaglio
piccolo che ad un grande ; tuttavia anche a queste bisogna
attendere, e con non poca diligenza.
Di questa parte, eh' è un sommo pregio della pittura, e
per cui parmi veramente avere del celeste e del divino,
sovra ogni altro fu gran maestro Rafaello, come ho detto,
ed i nostri Carracci la osservarono ed usarono quanto può
dirsi. Chi non ha veduto il quadro del Figliitol prodigo di
Annibale, quasi direi che non può sapere a qual segno
giunga l'arte della pittura nella espression degli afl'etti.
Nel vecchio padre, oh Dio !, quanto ben si scorge il paterno
amore, e il piacer di ricevere tra le braccia, che ambe a
lui stende, il già fuggiasco lìgliuolo, e insieme la tenera
compassione nel vederlo cosi tra' cenci, mezzo ignudo, este-
nuato dai disagi, e con le carni abbronzate, ove più ove
meno, dalle intemperie dell'aria e dal sole ! Nel figliuolo poi
chi non s'avvede subito della compunzione e del dolore che
sente per avere indebitamente, e per menar vita disso-
84 SFX'OLO XVIII.
luta, nn cosi buon paflre abbandonato? Oh quantx) a sdegno
movo il veder quindi la tristezza e la rabbia del fratello.
Intollerante ch(» il hiion vecchio ed amoroso riceva con tanti
:il)p;irec(dii di giubilo il xw^iOtouda figliuolo, che, confidando
nella patcì'ua miscricordiji, jiIU; sue; case per implorarla
lìtornu! Io la tenni in mia casa alcuni mesi questa gemma
dell'arte, prima che la inviassi ad una real galleria di
Francia, per cui comperata l'avea ; né mai ho veduto, tra
tanti che venneio a vederla e contemplare, uno che non
si sentisse compunto e commosso; e j)iù sempre conobbi
che gli all'etti bene espressi possono moltissimo negli animi
nostri, e possono anche a prò della religione e del parti-
colar nostro hene indurci ed eccitare ad opere degne di
eterno premio. Una non men bella e compassionevole espres-
sione divinamente rappresentata si vede nel Martino di
sant'Affiicsc dal nostro Domenichino. Che amore, che divo-
zione, che pietà non desta in noi quella gentil fanciulla af-
ferrata per li capegli da quel truce manigoldo che la tra-
figge! Spira del pari languore e santità: l'uno dall'atteggiar
delle tenere mani, e fino dal ritondetto piede che con tanta
grazia fuori si sporge della leggiadra e semplice vesta, e
l'altra dal pallido volto e da' languidi occhi al cielo rivolti,
così che move insieme al pianto e alla divozione. Oh eflfetti
d'una ellicace e ben concepita rappresentazione! Lessi una
volta, come una ben dipinta immagine della penitente Egi-
ziaca fosse atta a far che si ravvedesse una gran signora,
che nella via della perdizione, se non lavea eguagliata,
poco da lungi le era tenuto dietro. Questa sent'i commoversi
in guisa da un tanto esempio e sì al naturale rappresentato,
che, non che le licenze troppo sfrenate del senso, ma il
commercio del mondo abbandonò, e colei, che imitata avea
negli scandali, nella penitenza procurò d' imitare.
Furono della espressione degli affetti grandemente stu-
diosi i greci così ne' loro poemi, come nelle loro pitture,
ben conoscendo clie ciò dilettava al sommo e giovava. Volò
per tutta la Grecia rispettato e onorato il nome di Aristide,
pittor tebano, che fu detto il ritrovatore del rappresentar
vivamente le passioni dell'animo; e la fama di quella ma-
dre da lui dipinta, a cosi infelice stato ridotta e da varii
affetti agitata, risona ancora tra noi. Era ella nella espu-
gnazion di una terra restata mortalmente ferita intanto che
allattava un suo tenero bambinello ; in lei chiaramente ap-
pariva il dolore clie morendo avea di lasciarlo, e perchè
cominciava a sentirsi mancare il latte e ristagnarglisi per
la vicina sua morte, assalita dal timore che, invece di latte,
il fìgliuolino si pascesse di quel sangue, che dalla piaga
scendea e le poppe le rigava, dimostrava smanie, e di stare
in forse tra il negargli l'alimento, ch'egli con l'avida bocca
andava cercando, o di lasciare che il sangue ne suggesse,
da che altro più dare non gli potea ; espressione che fu
NICCOLÒ FOUTEGUERRI. 85
oltre ogni credere maravigliosa. Io non penso di chiuder
male questo capitolo se dirò, che il nostro cavalier Carlo
Cignani, che a' nostri di fu certo un esimio pittore e molto
osservatore della espression de<^li affetti, solca dire in leg-
gendo una SI viva rappresentazione, che se (osse bastato,
sarebbe ito sino agli estremi contini del mondo per vedere
opera così bella, e viva espositrice di così teneri alletti. Im-
pari dunque il giovane studioso della pittura quanto ciò
importi; cioè lo esprimere con le linee e coi colori quel
che sente l'animo nostro nei varii casi che gli succedono,
e procuri con esatte osservazioni di giugnere a possedere
una così bella ed ammirabil parte dell'arte sua. — (Dagli
Avf'ertimenll per lo incamminamento d'un giovane alla
pittura^ cap. XIII.)
NICCOLO FORTEGUERPJ.
Nacque di antica e cospicua famiglia pistojese, che aveva avuto
fregio da letterati e prelati, il G novembre 1G74. Destinato, come
terzo«,'enito, allo stato ecclesiastico, dopo gli studj fatti a Siena
e a risa, dove si laureò in giurisprudenza, venne mandato nel IG'Jó
a Koma, presso monsignor Fabroni suo parente, che fu poi car-
dinale. Seguì nel 1702 monsi{<nor Zondadari in una anil)asciata in
Spagna, e ne ritornò su' primi del 1705: poi, ebbe ulììzj in Koma,
alternando tra fortune e disgrazie (queste specialmente durante il
pontificato di Benedetto XIII), e morì non più che segretario di
Propaganda, il 17 febbraio 1785.
Tradusse in sciolti le Covimedie di Terenzio (Urbino, Albani, 17;iG),
scrisse Capitoli ed Epistole poetiche, ed il poema il liicciaì'detto;
ma tutto ciò fu pubblicato dopo la sua morte: in vita, ei mise in
luce soltanto alcune rime e orazioni. La 1» ediz. dei Capitoli col
titolo di Rime piacevoli, ù di Genova (17G5; il 2*' voi. è del 1777) e
salvo due, siflatti componimenti si trovano, dopo il poema, nell'edi-
zione di questo, fatta in Milano (Classici italiani, 181.3). Altre cose
sue si pubblicarono a' dì nostri per nozze (Pistoja, Bracali, 1812;
Gino, 1851 ; Bracali, 1874). Queste rime furono scritte a penna
corrente e quasi imi)rovvÌ8ate, ma non sono senza brio, e qua e
là anche non senza umor satirico,' specialmente rispetto ai cor-
rotti costumi della Corte romana, contro la quale invoca san Pie-
tro, che finalmente ci metta La santa mano sua, via daddovero,
l)erch'egli è ormai tempo Che su quesVarbor dai maligni frutti Io
vegga un giorno balenar la scure. Né risparmiò gli ordini mona-
* Vedi G. Procacci, N. F. e la satira toscana de' suoi tempi, Pistoja,
Bracali, 1877.
tì(i HIXOLO XVJII.
8tici, imm<3rHÌ ncirozio, nclT ignoranza, nel vizio; e contro i frati
0. ]ì\iì s|)cci;ilinc;nte contro i romiti, inveì anclir; ucA Ricciardetto
(canto XX, r/) e H<*j(K. ; '.K{ o HCjftf,; XXIII, «W e s«'t,'t;.».
Il liicciarditto (1" cUiz., datata l'arici, ma di Venezia, I^ittcri,
173H, col nome, rìsi adoperato dall'avo suo Scipione, di Niccolò Car-
leromaco) è il ma},'gior titolo del rortcjfiierri alla fama di poeta.
Il perchè e il come del nascimento del poema e narrato in una N-t-
tera del l'autore, clic suol preporrti ad esso, diretta ad Knstachio
Manfredi (Nidalmo Tiseo ad Aci JJelpuaiano), ove racconta come al-
cuni ffiovani solessero raccof^liersi a veglia in una sua villa, ed ci
Icf^gcva loro o V Innamoralo o il Furioso o il Morguntr. Un d'essi
osservò una volta che T apparente facilità di quei poemi doveva certo
esser costata apli autori molta e molta fatica, ma ei replicò «he il
poetare «• so non tutto, più che per metà, da natura; e chi da questa
non fosse ajutato, poteva tralasciar ai nobile esercizio. In prova
del suo asserto, promise di portar loro la sera dopo un canto di un
poema, che unisse insieme lo stile di quei tre autori; e la promessa
attenne con soddisfazione degli uditori. Così nacque il lìicciardelto,
incominciato }ter giuoco e che poi lei hello crebbe (e. XXV, 1), e
venne continuato, dal 1710 al 17'25, a temjyi rotti ed avanzati alle
occupazioni più gravi. Fu dunque un poema impreso e menato
innanzi per capriccio bizzarro e senza uu prestabilito disegno d'in-
venzione generale, o col solo intento di volger la materia epico-
cavalleresca in riso, in burla, in parodia, in caricatura grottesca,
nel guale l'autore cercò di metter alternamente le proprie orme su
quelle del Bojardo nel rifacimento del Berni, dell'Ariosto e del
Pulci, narrando strane avventure e intrecciando casi or pietosi or
ridicoli, e insieme mescolando vecchie forme romanzesche e no-
velle boccaccevoli e fiabe volgari, adoperandovi uno stile facile e
piano. Quantunque sien molte le fila eh' ei tesse, e la sua Musa
non stia mai ferma, ma faccia voli bestiali (VI, 111), nell'anda-
mento de' racconti, a volta a volta interrotti e ripresi e quasi sem-
pre accennati rapidamente, anzi che trattati per disteso, non vi è
mai confusione, e si va fino in fondo con crescente diletto. Vera
forza inventiva e virtù descrittiva nel poema non e' è, ma qualche
carattere è assai ben ritratto: Jld es. quello di Ferraù, bestione
pagano convertito al cristianesimo, fattosi romito e frate, ma sem-
pre pronto a ricadere ne' peccati della carne. Qua e là Ferraù ri-
corda Morgante o Margutte, dacché fra i tre poemi presi dal
Forteguerri a modello, il Morgante del Pulci è quello cui mag-
giormente si ragguaglia il Ricciardetto ; ma il racconto del castigo
inflitto a Ferraù da Kiualdo e quello della sua morte (XX, 102
e segg.), sono buffonate originali e vivacissime. 11 pregio maggiore
del Ricciardetto è ad ogni modo la forma gioconda e scorrevole, la
mescolanza assai ben riuscita del serio e del faceto, e quel dire le
cose alla buona Senza tanti Permessi ed Elicona (XXVIII, 88).
Non invano egli invocò sul principio del suo lavoro una special
NICCOLÒ FORTEGUERRI.
87
Musa, boschereccia e popolare, che può dirsi esser lo schietto vol-
gare toscano:
Non ù figlia del Sol la Musa mia,
Nò ha cetra d'oio o d'ebano contesta;
È rozza villanella, o si trastulla
Cantando a aria, conlornio le frulla.
Ma con tutto che avvezza a lo boscaglie,
K beva acqua di rio e nian{fi ghiande,
Cantar vuole d'eroi e di battaglio
E d'amori o d'impreso memorando.
K se avverrà che alcuna volta sbaglio.
Piccolo fallo è in lei ogni crror grande,
Perchè non studiò mai, e il suo soggiorno
Or fu presso un abete, or presso un orno. . . .
Ma non per questo maltrattar si dee
Nò farle lima lium e rella velUi ;
La semplicetta non lia certe ideo,
Che fan l'istoria luminosa e bella;
Nò lesse mai in su lo carte achoo
Ovver di Roma o di nostra favella
Lo cose bello, che cantar coloro, ^
Cli' ebber monto divina e plettro d'oro.
Ma canta por istaro allegramente
K acciò che si rallegri ancor chi l'ode;
Nò sa nò bada a regolo monte,
Sprezzatrico di biasimo e di lode. . . .
Ma già si ò posta in man la sua zampogna
E canta sotto voce, e non si attenta.
Non la guardato ancor, chò si vergogna,
E come rosa il volto lo diventa.
Ala presto passa un poco di vergogna:
Principiato elio eli' ha, non si spaventa,
E già incomincia
E su questo tono familiare e vivo continua il poema per ben
trenta canti, acquistando lena quanto più innanzi procede: ultimo
e serotino frutto, non senza fragranza e sapor comico, della gran
lioritura epico-romanzesca.
[Per la biografia, vedi la Vita scritta dal Fabhuni, che, volga-
rizzata da K. Giugni, sta in fronte alla cit. ediz., condotta su un
testo tratto dall'originale, de' Classici italiani di Milano; CORR.
ZaccHETTI, Una vita inedita di N. F., Oneglia, Ghilini, 1808
(,iì di Bernardino, fratello del poeta). Per la vita insieme e gli
scritti, vedi oltre i già cit.: A. Frediani, Il E. di N. F., in Studi
di stov. polii, e letteraria, Carrara, Sanguinetti, iSb'J-, Fh. Camici,
Notizie della vita e delle opere di N.F., Siena, S. Bernardino, 1805,
sul quale è da vedere C. Zacchetti, Contributo alla storia dei
lìlafji nel sec. XIX, lìeggio-Calabria, Morello, 1896. Sul poema,
vedi C. Zacchetti, Il lUcciardetto di N. F., Paravia, 1809 (e su
questo libro G. Mazzoni in Mass. hihliog. d. lett. ital, VII, 203, e
IREN. Sanesi, nel Bollett. -sfar, pistoiese, II, 1) ; F. BERNINI, Il lUc-
ciardetto di N.F., Bologna, Zanichelli, 1000.]
W KKCOLO XVIII.
Morto di un Gigante saraceno e di Astolfo.
a Orlando ed a Rinaldo io torno,
("li(i hanno già in l'Yancia fatto il lor ritorno.
K, udito appona coni*! ('arlo ò in Spagna,
Che vanno a (juella volta in dirittura.
Un ronzino ha ciascun, che il suol si magna;
K tanto è il zelo e la loro premura
Di far por Carlo qualche opci-a magna,
Degna di lui e do la lor bravura,
('he vorrebbero avere ali a le piante
Per esser dentro in Spagna in un istante.
E in otto giorni giunsero a Granata,
Il giorno giusto de la gran battaglia;
Che poca de' cristiani era Tarmata,
]■] infinita de' Mori la canaglia.
Orlando il padiglion di Carlo guata,
K, vistolo, a quel va come zagaglia
Che sia vibrata da robusto braccio,
K lui saluta, e dagli un grato abbraccio.
Lo stesso fa Rinaldo : e, noto appena
Kgli è a' soldati che Rinaldo è in campo
K il forte Orlando da la dura schiena.
Che più non teme a la vittoria inciampo,
K con fronte allegrissima e serena
Corrono addosso a' Mori come lampo:
E ne fanno una strage cosi strana,
Che, a voler dirla, fora impresa vana.
Qui si potrebbe dir di molte cose,
Eccelse tutte e di stima infinita.
Che ad una ad una in ordine dispose
Il Garbolino,^ e l'indice l'addita.
I\Ia le donne son troppo timorose,
E quella istoria solo è a lor gradita,
Che favella d'amanti, o in guerra o in pace :
E la strage ed il sangue a lor dispiace.
Ma sceglieronne alcuna nondimeno,
Per non parer maligno o trascurato.
Ne l'esercito moro un Saraceno
Era sì grande e grosso e smisurato.
Che in moversi scotea tutto il terreno.
Avea le braccia in modo disusato,
Perchè eran così lunghe, che l'altiero
Potea toccar la terra, e stare intero.'
Più lunghe ancora avea di mezza canna
* Nome finto dell'autore autico, che il Forteguerri allega qual sua
foute storica, come altri Turpino.
- Starsene dritto : senza piegarsi.
NICCOLÒ FORTEGUERRI. 89
Le dita, le copria d'un forte guanto,
Clie avea Tugne di ferro; ond'egli scanna
Qualunque acciulTa : e lì non vale incanto :
Ed ha per lancia così fatta canna,
Che un grosso pino non può starle a canto.
Ove arriva con essa il malandrino,
Fa da boia in un tempo e da becchino.
Corse costui: cioè fece tre passi
E que'tre passi furon più d'un miglio.
Cose, per Dio ! da sbalordire i sassi ;
IMa di ciò punto non mi maraviglio ;
Che se proporzione al mondo dassi,
Mettiamo caso, per divin consiglio
Che nascessero i piedi a l'Apennino:'
Quanto fora in tre passi il suo cammino!
Or questa bestia, questo monte strano
Di carne e d'ossa, creato da Dio
Sol per gastigo del popol cristiano.
Giunto là dove udiva il ramaccìo,*
Anzi il vedeva; che troppo lontano
Aveva Torecchiaccio, al parer mio ;
Clivo la canna con la mano destra.
Che pe' cristiani fu trista minestra.
Con la sinistra poi fece tal opra.
Che scannò più migliaia in un momento.
Or qui la bella tua luce si scopra.
Apollo amico, e ne lo scuro e spento
Ingegno mio tutta l'infondi, ed opra
Sì, che possa un sì nobile argomento
Trattar con la dovuta dignitade,
Per farlo noto a la futura etade.
L' intero padiglione, ove era Carlo,
Astolfo, Ferrautte, ed altri mille
Campioni lì venuti ad aiutarlo.
Prese colui, e come fosser spille
Le travi e gli assi, che misero a farlo.
Lo svelse, ed appressollo a sue pupille:
Ma mentre che ha le mani alte da terra,
Una Rinaldo e l'altra Orlando afferra:
E vi montano sopra a cavalcione,
E con la spada taglian l'armatura,
('he, sebben era di tempere buone,
Non resistette in quella congiuntura,
perchè ebbe Dio compassione
Di Carlo, oppure per la gran bravura
De' Paladini : in somma, fu tagliata
La maglia, e giù, la carne è denudata.
' Al monto Appennino.
- iiumore, strepito, come Ji rami percossi e sbattuti dal vcuto.
DO SKCOLO xvnr.
I){i quftlla parte, ove il braccio hì pie^'a,
I ro I colpi a la distesa.
'l'i.'iinlo: «Qui <•! vuol la sc^'a;
So no, olii porrà /Ino a lalo injpr'*>;i ;' />
Rinaldo anch' oHSo HÌAfroUWo pr< •/ t
Ad un p<'r uno i HJinti <lo la Cli
CImì voj^iiano jiiiit;irlo, a< ■
Ta^^di.'ir (luel trave di cai i ,.,
Il mostro intanto clic lerir si sente
Ne' bracci, o vedo il sanjjno che sciorina,'
Vuol liberarsi dal ferro ta;,diente :
Ma invan bestemmia e invano si tapina:
Cile l'uno e Taltio* egli è troppo valente,
l']d hanno i ferri lor tempra si fina,
('he non si guasta mai. Ov dagli dagli.
Finirò cntraml>o a un tempo i lor trava^'li :
Ter che recise al suol caddero in fine
Mezze le braccia con le mani intere
Di quella furia, e furon tre ruine;
Perchè insiem con le man de l'aversiere '
Cadde Carlo e sue genti paladine:
K allor fu un lieto e misero vedere,
Che di tanto alto cadde il padiglione.
Che parve morto Carlo a le persone.
Ma cadde capi volto, ed urtò prima
1/alta colonna,* che in mezzo lo regge;
Onde trovossi in piede, e su la cima
Carlo, cui tanto l'angel suo protegge.
Ma non conosce ancora, e non istima
II passato periglio, e par che ondegge
In mille dubbj : e fuora de la tenda
Si getta, e vede la cosa tremenda.
Vede, dico, le due carnose travi
Giacere a terra; e vede in su le spalle
Del mostro orrendo i Paladini bravi.
Che con le spade lor vi fanno valle :
Ma per molto che ognun di loro scavi
In quel carname, e la mano v' incalle,^
V'è tanto da tagliar prima che muora.
Che temono che il di non basti ancora.
Onde Carlo convoca i suoi soldati.
Ed a le gambe fa dargli a la peggio,^
Che dal sangue di lui sono affogati;
* Ainpliaudo il senso del verbo sciorinare, qui siguifica vicn giù, esce
fuori. - Riualdo e Orlando. ^ Del mostro.
* Prima a batter sul terreno fu la colonna ecc.
^ Dia con tanta frequenza e forza i colpi, da farsi venire i calli
alle mani.
^ Con gran vigore.
NICCOLO FORTEGUERRI.
91
Ma non per questo levano l' assaggio: •
I due guerriei'i intanto disperati
Gli facevan nel collo un bel maneggio.
La liera, che così tagliar si sente,
Grida, clie par un diavol veramente.
Tentenna il mostro, e quercia annosa sembra,
Quando la scuro ha trapassato il mezzo:
Ma questa somiglianza non rassemhra
A quel che dico, e non la mostra un pezzo.
Pur piega alMne con tutte le membra,
E a rovinar comincia; e in quel tremezzo,
Cioè in quel tempo che durò a cadere,
Vi mise più d'un lungo misererò. -
Caduto il gran gigante, non v' è Moro
Che si stimi più salvo, e via si fugge :
K come il sole co' bei raggi d'oro
Hianca neve d'aprii sface e distrugge,
Cosi fece la tema in tutti loro.
II rege solo sbulla, smania e rugge,
A guisa di leon che sia l'erito,
E non si move per nulla di sito ;
E sfida ad uno ad uno a la battaglia:
I">M Astolfo vuol (^ssere il primi(M-o;
Ma l'aurea lancia, che colpo non sbaglio,
Seco non liave, onde va meno altero. •
Il rege si chiamava lo Sbaraglia,
Ma quel non era già il suo nome vero;
Che chiamavasi Alasso, ma la gente
Gli die tal nome perchè era valente ;
E incominciano a darsi con le spade ;
E si dan colpi da mozzare abeti.
Diceva Alasso: « J*] quando costui cade?»
E l'altro: «Son men dure le pareti»
Diceva, « e i ciottoloni de le strade,
Di questa bestia. » E pazzi ed indiscreti
Si dan puntate, e con rabbia sì grande,
Che l'uno e l'altro molto sangue spande:
E, a farla breve, andò la cosa in modo.
Che cade morto il triste Saracino.
Ma de l'alma d'Astolfo ancora il nodo.
Se non sbaglio, di sciogliersi è vicino;
Perchè piagato tutto egli è oltre modo.
Ha una ferita ne l' occhio mancino,
Un'altra ne la gola, e tre nel petto.
Sicché puzza oramai di cataletto.
Ciascuno accorre al moribondo inglese,
* Uassedìo intorno a quel pipante, che li affoga nella copia del san-
gue che versa.
^ Mise tanto tempo (luauto a recitare un Uingo mina-ere.
92 HECOLO XVIII.
K gli ricorda Orlando ad alta voce,
(''he non disperi de le tante offese,
(ho lia fatto a Ino, ma speri ne la croce,
Ove egli tiene limbo lo braccia stese
Per abbracciarlo; e che colpa si atroce
Non v'é, che sia di perdonanza inde;:na,
So al suo voler di core un si rassegna.
E Kerrautte soggiungeva anch'es-so
Parole sante, e proprio da romito;
Ma disse Astolfo: «Non mi staro appresso,
('he sei un uomo dal cielo bandito,
I-M ha il diavolo in mano il tuo processo. »
l)isse Orlando: «Sta' umile e pentito,
K del prossimo tuo non creder male,
Benché sia stato un empio, un micidiale.
Il giudicar s'è riserbato Iddio;
Onde a lui tocca, e non a te il giudizio. »
Ma, disse Astolfo, « e che male fo io
In dir, che in Ferraù regna ogni vizio?
In cosi dire, io credo, cugin mio.
Di fare al vero un santo sagrifizio. »
ì] Ferraù con voce bassa e pia
Diceva: « Astolfo non dice bugia;
Ma non per questo ch'io son peccatore.
M'hai da sprezzar quando t'esorto al bene.
E giacché qui non veggo confessore.
Dimmi i tuoi falli, e fuggi l'aspre pene:
Che senza confessione mal si muore. »
Riprese Orlando : « Al certo ciò conviene.
E poco importa se il romito è tristo;
Che non a lui, ma ti confessi a Cristo. »
E trattosi in disparte, lasciò dire
Tutti i suoi falli al moribondo duca.
Che presto presto poi venne a morire;
E morto non fu posto in una buca,
Ma con incenso, mirra ed elisire
Fu imbalsamato, acciò si riconduca
Intero in Francia; e di nero cipresso
Fero una cassa, e sei portaro appresso :
E vi scrissero sopra: «Qui rinchiuso
È il cadaver d'Astolfo, che fu in vita
Amico de la spada e più del fuso.
Perchè ogni donna assai gli fu gradita.
Pugnò sovente, e gli fu rotto il muso,
E il ruppe altrui : l'anima sua salita
Si crede al ciel, che pel santo Vangelo
Uccise Alasso, ed ei restò di gelo ».
Gli fur fatte l'esequie : e Ferrautte
Cantò la messa; e Carlo fé' un discorso
A' Paladini e a le milizie tutte,
NICCOLÒ FORTEGUERRI. 93
Lodando il duca, e come in suo soccorso
Venne egli sempre, e le pupille asciutte
Non tenne per pietà del caso occorso:
E dopo questo, come si suol fare,
Andaron tutti quanti a desinare.
(Canto XIX, ott. 55-84.)
Morte di Carlo Magno e dei Paladini.
Ma il nostro Carlo in tanto s'avvicina
A la terribil valle traditora;
Ond' io voglio lasciare ne la torre
Questi,* e veder ciò che al buon Carlo occorre.
La divina pietà, che non rimane
Da alcuna cosa circondata e stretta,
E tanto stende le braccia lontane,
Che fuor del nostro mondo ancor le getta;
Per salvar Carlo, e render nulle e vane
Le forze del demonio, e pura e netta
Far l'alma sua, e d'Orlando e Rinaldo,
E liberarli da l'eterno caldo ;
Dispose, che passasser da Baiona
Un dì che v'era appunto il giubbileo,
In cui il papa a qualunque persona,
Se non era scismatico od ebreo.
Che confessato si fosse a la buona,
E pianto ogni suo fallo iniquo e reo,
E fatta qualche po' di penitenza.
Donava una pienissima indulgenza.
Carlo, per dare esempio a' suoi vassalli,
Che ciò che fa il maggior fanno i minori,
Pertossi in chiesa, e confessò i suoi falli,
E dagli occhi mandò gran pianto fuori.
Rinaldo, ancorché avesse de' gran calli
Su la coscienza po' suoi tanti amori.
Pur confessossi anch'egli, e da cinque ore'
Stettesi umile a' pie del confessore.
Orlando poi soletto, umile e pio
Fece del ben per sé ; ma fuor di chiesa
Si mise a predicare, e a lodar Dio ;
Ed era la sua faccia tanto accesa
Di santo zelo e celestial desio, ♦
Che ancor con l'armatura cosi pesa
Solle vessi da terra un braccio intero,
Tanto era risso in Dio col suo pensiero.
Da che gran tenerezza e maraviglia
' Alcuni cavalieri presi e imprigionati per incantamenti.
- Quasi per cinque eie.
01 SECOLO XVIII.
iNac(iiic in tutti i soldati; o ognuno a gara
Chi (|iu*sto frate e chi quel prete piglia,
1' mostra ne la fac^ria alllitta e amara
li (Ino), che di siu^ colp« il cor gP iiiipi;5'lia.
I/aria IVattaiito oltre l'usato rdiiara
Kis])lcndc, e d' una insolita letizia
Si colma Carlo e ognun di sua milizia.
Stetter la notte ancor ne la cittade
Modesti più che gli umili novizi
In procession non varmo per le strade.
Rinaldo lesse inlino gli esercizi
Di sant'Ignazio. Oh divina bontade !
Tu sola estirpar puoi i nostri vizi,
1"] farci santi di cattivi e tristi;
Purché del fatto male un si rattristi.
(lanellone ancor ei per non parere
D'aver l'alma di sughero o di fieno.
Diceva borbottando il Miserere,
E si teneva il suo capaccio in seno.
K, trattosi da parte, e in sul messere*
Frustandosi, pregava il Nazzareno
A perdonargli l'opre sue nefande;
Di che Carlo ne aveva un piacer grande.
Ma Rinaldo, ancorché tanto contrito.
Oli disse: « Gano, lascia fiuella frusta:
. Che non hai "viso ancor di convertito,
E falsa penitenza Iddio disgusta. »
Riprese Orlando: <•' Cugin mio gradito.
Lascialo fare e menar ben la susta.'
burla, e si fa male daddovero :
non burla, e dà mano a un buon mestièro.
In quanto a me, son io d'una natura.
Che a pensar mal, quando veggo far bene,
Non mi so indurre, e parmi cosa dura.»
« Cugin, tu hai sangue dolce ne le vene, »
Riprese il buon Rinaldo. « Io ho più paura
Di costui, quando un Cristo in man si tiene
E bacia terra e biascia Avemmarie,
Che se il trovassi armato per le vie.
Io mi son confessato adesso adesso,
Né dico ciò per mormorar di lui ;
Isla chi non sa eh" è gente da processo
La maganzese, e che un tristo è costui?
E noi gli andremo sconsigliati appresso,
E ci porremo ne gif agguati sui?
Cugino, andiam da Carlo, se ti aggrada,
E lo preghiamo acciò che muti strada. »
' Sul di dietro.
- Li corda, ed è propriameute quella cou che si legano le some.
NICCOLÒ FORTEGUERRI. 95
Riprese Orlando: «E clie si può temere
Da Gano? Forse insidie o tradimenti?
Mi rido in quanto a me del suo potere;
E faccia pur ciò eh' ei fjir puote, e tenti
Di manilar noi con ('arlo a Taversiere,'
E stru^^ger tutte le irancosciie genti :
Che, come vuol, non gli anderà già latto,
E rimarrà da noi vinto e disfatto. »
Or mentre in guisa tale si l'agiona
Da' due guerriei-i, il traditor s'inlinge
Di non udirli, e frusta sua persona
Sì, che di sangue il duro nerbo tinge.
Carlo in vedere un'opera sì buona,
Abbraccia (ìano, e al seno se lo stringe;
Né vuol che più si batta, e gli comanda
Che ponga il nerbo e ogni rigor da banda.
Ma Rinaldo ripiglia: «Eccelso sire,
lo forse ti parrò maligno e tristo
A prima faccia, n dannerai '1 mio dire:
Ma del tuo danno troppo mi rattristo;
Perchè costui ti vuole far morire.
Meglio in man gli starebbe di quel Cristo
Un ritratto di (iiuda appeso al fico,
d'altro falso micidiale amico.
Questo ribaldo condurracci dove
Certo a noi non varrà forza o valore ;
Già conosciuto abbiamo a mille prove
Quanto egli abbia maligna e mente e cuore:
E spereremo adesso eh' ei ci giove,
E che serbi per noi un vero amore ?
Carlo, per Dio! non ho timor di morte,
Ma temo sol di non morir da forte. »
E Carlo a lui con placido e sereno
Volto risponde: «Caro il mio Rinaldo,
Medicina talor, taloi' veleno
J''gli è il sospetto; né sempre ribaldo
Stimar si dee chi pone al fallir freno,
E nel nuovo proposito sta saldo:
E mal per noi, so il giusto ofVeso Iddio
Eosse del tuo parere, e non del mio. »
In questo mentre Gano se gii getta
A* piedi, e fra sospiri e fra singhiozzi
Dice: «Signor, fa' pur la tua vendetta
De' miei delitti così brutti e sozzi:
Che ad arbor guasta non ci vuol che accètto :
E fcirai opra giusta se tu mozzi
A me questo infedel capo, che spesso
Nutrì pensieri di vederli oppresso. »
' .1/ lìlnrnh,: di riici Capitai' lìiale.
9G SECOLO XVIII.
K Itinaldo: « Signor, giacché ti prega
Di moiirc, sofjgidnse, non tardar**;
A «^'onsoiarlo. Io pi^lifiro' mia 8<'j(a,
E \u'V lo irniV/Ao lo farci K^'gare. »
Ma Carlo, a" detti suoi nulla 8i piega;
Anzi a Gano si volta, e fallo alzare,
K l'assicura che il giorno vegnente
Verranno a KoncisvaIN; con sua pente....
A l'entrar de la valle traditora,
Il buon destiier di Carlo a l'improvviso
Si volse indietro, e star voloa di fuora ;
E scolorissi al vecchio Orlando il viso,
E il prò" Rinaldo indebolissi ancora.
Poco mancò che non i-estasse ucciso
Da l'esercito Gano; e supplicante
Gridava a Carlo che non gisse avante.
Ma quando è giunto quel fatai momento,
Le parole, i consigli e le preghiere
Sono gettate tutte quante al vento:
Ond'è che Carlo mostra dispiacere
Che l'esercito suo non sia contento
E che cerchi di opporsi al suo volere,
E riguardollo con turbato ciglio,
Talché fermossi il militar bisbiglio.
Ciò fatto, a la real tenda s' accosta,
K parte de 1' esercito entra pure
Ne r altre tende, conforme disposta
Era la trama. Le gravi armature,
E la celata da ciascun deposta.
Fatte le genti omai chete e sicure,
Diero un assalto a le vivande rare,
Ai fiaschi, a le boccette, a le anguistare.
E Carlo, in mezzo a' forti Paladini,
Ancorché vecchio, trangugiava bene
I pollastrelli arrosto, e i piccioncini :
E Orlando pur con le mascelle piene
A Rinaldo dicea: « Sotto, piccini.* »
. Gano s' infinge non sentirsi bene,
E che il corpo gli cigoli e gorgoglie,
Ed insensibilmente se la coglie.*
E dopo una mezz'ora, e forse manco,
Ecco avvampar le maladette mine,^
* Date sotto ai cibi, giovinotti : mangiate allegiatuente.
- Se la batte: se ne Ta.
3 Finge, con burlesco anacronismo, che i Saraceni, scavassero la terra
e vi ponesser entro barili pieni d'una nera polvere Che per favilla subito
divampa Ed ha tal possa, che spezzare e solvere Può scogli e monti, e cosi
fiera lampa, E fa rumor, che par voglia risolvere II mondo sottosopra, e
ninno scampa Dal suo furor: cioè la polvere da cannone inventata assai
più tardi.
SCll'JONK MAFFEI. 97
E Carlo, e i Pahuliiii e Io tonde anco
Gir in alto con l'inno senza lino:
E uscir di fronte, di dietro o di fianco,
Le Maganzesi genti malandrine,
K percossero i Franchi, che a l'intorno
Faceva'n de la valle il lor soggiorno....
Or mentre se ne stavano scherzando
A lauta mensa gì' incliti guerrieri,
(iano die foco al polvere nefando,
K andar por aria o tendo o cavalieri,
Como le foglio di dicembre, quando
Sollìano gli aquiloni orridi e tìeri ;
Ma Rinaldo ed Orlando e Carlo Mano
Volavan tutti e tre prosi por mano.
K tanto in suso e cosi presto andaro,
Che, per voler del sempiterno Iddio,
Del ciel la porta co' lor capi urtaro ;
K r apostolo Fietro glie V apr'io,
Il qual non ora del gran fatto ignaro;
F disse lor tutto benigno v, pio:
« Giacché giunti voi siete a questo passo,
Non vuole Iddio che più torniate a basso. »
Frano vivi, e solo abbrustoliti
Avevano i capelli od i barbigi;
Ma, a dirla giusta, egli erano storditi:
Onde disse san Pietro: Assai litigi
Qua movereste di carne vestiti ; ^
Però morite ; e portati a Parigi
I corpi vostri avoran sepoltura
Tutta di marmo rilucente e pura.
Come augellin che alcuno stecco rotto
Ritrovi no la gabbia, fugge via,
Cosi (lUoU'alnu^ scai)pàro di botto
De la terrestre lor prigion natia:
I cadaveri caddero al disotto,
E li vedrete in mezzo de la via
Insieme stretti. Or voi, a cui s'aspetta
L'ingiuria loro, itene a far vendetta.
(Dal cauto XXIV, ott. 53-70; e dal XXV, ott. 77-SI, 86-89.)
SCIPIONE MAFFEI.
Nacque il 1° giugno del 1G75 di famiglia patrizia voronese. o,
fatti gli «tiidj presso i gesuiti a Panna, e perfezionatili in Roma,
dove pubblicò il Poemelto 2)cr la nascila del Principe di Piemonte,
abbracciò, come il fratello Alessandro, generale al servizio bava-
* Se entraste in paradiso col corro mortale.
IV. 7
08 .SJX'ULO A VI II.
rcHc, l:i carriera delle «irmi, e hi trovò ii«'| 1701 alla battat^lia di
Donanwurtli, clic descrisse alla madre in una lettera da Monacu
del U luffliu, ove si dice contento dell'aver appai^'ata la nua cu-
rioHJtà « di vedere una azione inilitarr. » Tornato in patria, »i
rimise agli ntudj, e nel 1710 mandò fuori il libro Della urimza
cavalleresca (Itoina, 1710), nel qnalc, con arf^omenti di ragione e
(il Htoria, biasimò il durilo. IVomo- " , Zt-no e col Valli«nieri
il Giornale dei Ictlerali, ai qiialf I' i-corHo proemiale ^710»,
e che prosegui dal 171^8 in poi con sci voi. di Oufervazioni letterarie,
eonibattendo più specialmente in quello i gesuiti, compilatori delle
Mi'ììiorie (li Trevoìix, 'Avverai alle cose italiane. Vedendo come si pro-
pagasse sempre più in Italia il gusto delParte drammatica francese,
si pose a studiare l'antico teatro italiano, ne rimise a luce i migliori
monumenti, preponendo alla raccolta una sua dissertazione (Ve-
rona, 172:5-25, W voi.), e alcuni ne fece di nuovo riprodurre sulle
scene dai coniugi Kiccoboni; ma, più che per tal modo, aveva egli
giovato al rifiorire dell'arte scenica italiana, componendo la Me-
rope, tragedia clic è peeeato rimanesse senza sorelle: laddove poco
l)regìo hanno la commedia Le cerimonie, e alcuni melodrammi. Ma
la Merope è veramente la prima bella tragedia italiana. Di essa
si fecero traduzioni in quasi tutte le lingue. Stampata la prima
volta nel 1714 a Venezia e a Modena e dall'autore più volte ri-
toccata, e con plauso prodotta replicatamente sulle scene, dopo
la prima rappresentazione del 12 giugno 1713,' diede origine a
molte polemiche,- ed il suo merito fu generalmente ricono.sciuto
ed apprezzato.^ Il Voltaire dapprima ebbe intenzione di tradurla, poi
fece di suo, imitandone varie scene; e prima la lodò a cielo, poi
vi scorse difetti, che dichiarò all'autore, il quale altri ne notò nella
tragedia francese, sicché nacque fra loro una vivace polemica.
Resta fra le lodi date alla Merope maffeiana dal Voltaire questa
cosi espressa, e vera : « Vous étes le premier qui avez eu le cou-
rage et le talent de donuer une tragedie sans galanterie, une tra-
gèdie digne des beaux jours d'Athènes, dans laquelle lamour d'une
mère fait tonte l'intrigue, et où le plus tendre intérét nait de la
vertu la plus pure. »
* G. BlADEGO, Una prima m ppreseiitaztone, in Da libri e manoscritti,
spigolature, Verona, Miinster, 1883, pagg. 3-19.
^ La M'jropp, tragedia del sig. march. S. M. giusta la prima ediz. di
AFodena del 1713 e quella di Venezia del 1747, con le varie lezioni tratte
dalle due tdtinìe ediz. di Verona e con alcune operrtte colle quali ai critica,
si difende e si illustra, compilate e raccolte da V, Cavallucci, Livorno,
Santini, 1763; R. Dumas, Quid ad restituendam apud Italos tragoediam Se. M.
contulerit, Saiicti Clodoaldi. 1S77; trad. ital.. Verona, Giusti, 1880.
3 Pei più receuti studj sulla Merope, vedi B. Cotroxei, in Giom. St. d.
Let'er. ifa?., XXII, 236; G. Hartmaxx, Merope in Italienische nnd Franz'òsis-
vhen Brama, Lipsia, 1892. Un cfr. fra le tre Meropi (del Maffei, Voltaire,
Alfieri) fu fatto da P. E. Castagnola, in Scuola Rimana, 1883, n. 9, e da
A. Zardo, Merope, nella Base. 2\\jz., 1° ottobre 189^.
SCIPIONE MAFFEI.
99
Dagli stiuìj poetici passando a qiiolli di erudizione, il Maflfei die
saggio del suo valore in (;ssi culla Commenlat. de fabula equestris
ordinis Conslantiniani (Zurigo [ma Parigi], 1712), colla Istoria
dlploìiiatica (Mantova [ma Verona], 1727) e più i)articolarmente
colla Verona illustrata (Verona, 1732), nella quale, con varietà
e ricchezza di cognizioni, illustrò veramente sotto ogni aspetto
la sua città nativa. Viaggiò poi in Provenza; e delle antichità ivi
trovate rese conto in venticinque lettere indirizzate agli auìici,
e stampate in Parigi col titolo Gallile antiquifates (Parigi, 1733).
In un soggiorno di tre anni nella metropoli francese, studiò le
controversie religiose, alle quali dava princij)al motivo la dottrina
giansenistica, e dello studio fatto sui jìadri e sugli storici si valse
dappoi nella Istoria teologica delle dottrine e delle opinioni corse
nei 2Jrimi cinque secoli della Chiesa in proposito della divina
(jrazia, del libero arbitrio e della ])redestinazione (Trento, 1742).
Dalla Francia i)assò in Inghilterra, festeggiato dalla Corte o
dai dotti; poi, attraversate l'Olanda e la Germania, 3i restituì
nel 173») in patria, ove illustrò il Museo veronese (Verona, 1749),
come fece anche del torinese e del viennese, meditando una rac-
colta generale di antiche iscrizioni. Il citato libro teologico gli
suscitò molti avversarj fra gli intolleranti e i rigoristi; e così
(piello Dell' impiego del denaro (174»)), nel quale dimostrò non
esser vietato dalla morale nò contrario alle sacre scritture, il pre-
stito ad interesse, non che l'altro dove provò contro il Tartarotti
la vanità ^X^WArte magica (Verona, 174'J-ó4). Altra fiera battaglia
sostenne col padre Concina, nemico acerrimo d'ogni sorta di ludi
scenici, scrivendo contro di lui il Trattato de' teatri antichi e mo-
derni, che fu approvato da papa Benedetto XIV. Ingegno quasi
universale, si occupò anche di matematiche e di scienze, e abbiamo
di lui una Lettera sopra i fulmini (Verona, 1747) e dissertazioni
degli insetti rigenerantisì, de' pesci impietriti, e dell'elettricità ecc.
Alla Kei)ul)blica veneta, ornai volgente a decrci)itezza e a rovina,
diede utili consigli con un Suggerimento, che non fu ascoltato, per
la sua preservazione. Nel corso di una vita lunga e laboriosissima,
ebbe onori e rinomanza: fu dottore di Oxford, e socio delle acca-
demie di Parigi, Londra e Berlino. Molto seppe, e lo faceva appa-
rire: ò nota la risposta di una signora alla quale ei disse: < Che
pngherebb'ella a saper quanto so io? » ed essa: « Pagherei assai
l>iù a sapere quanto non sa. » Ma il saper suo volse a lustro del
nome italiano e specialmente a gloria della patria Verona, e col
lume della storia e quello della ragione combattè errori e pregiu-
dizi d'ogni sorta e in ogni materia, ed è vera la lode che dell'ope-
rosità sua gli diede il Pindemonte:
il bello e il vero
Cercasti di Sofia per li secreti
Orti non sol, ma il ver cercasti o il l)ollo
Su le vetuste ancor lacere caito
100 SECOLO XVIII.
Fra la rugn^in dei bronzi, o notali -•' i*t
l'arlanti marmi e no le moli aut
Mori ni febbraio 1755.
Tutto le Hiio Oliere sono r.'i' i L'I voi, iti b , Venezia,
Cinti, 17'J0; una «reità di Ojms. rari fu fatta «lai (ianiba,
Venezia, AlvÌHopoIi, 182'J, e riprodotta in«ieme colla Merope, dal
Silvestri, Milano, l.Sli. Herenteinente Hono Htati meHHi a luec al-
cuni scritti suoi iucMliti, come i franinienti Deìle antiche epit/rafi
veron. in volr/are, a cura del Giullari, Verona nel 1871, e nel 1875, e
nel 1880; il Parere ani migliore ordinamento della Ji. Univ. di To
rino, Verona, IJo.ssi, 1871, e parecchie lettere: dal Torri, Lett.
iìted. di veronesi, Pisa, Nistri, 1800; dal UlADEGO, Lett. ined. a
G. Polcììi, Vicenza, IJurato, 187«I; dal Salix. Lett. a Francetca
Pompei, Vicenz:i, IJurato, 187C; dal (ilVLlAKl, Lettere nel suo pe-
riodo di vita milita) e, Verona, Artigianelli, 1885 Malie quali, se-
condo G. BlADEfio, in liiv. crii. d. leti. Hai., marzo 1885, appare
che il vero autore delle Memorie del fratello è veramente Sci-
l)ionei; da G. Giannini, Undici lettere a mons. Guarnacci, Lucca,
Giusti, 18'Jj, ecc. Vedi anche Ant. Spagnolo, Il Sacramentario
Veronese e S. M., in Atti d. Accad. d. Scienze di Torino, voi, XXXIII,
281, e L'orasiona/e r/otico-ìuozarabico della Capitol. di Verona de-
scritto da SCIP. Maifei, in Rivista bihliorjr. Hai., 10-25 agosto 1890.
[V. per la biogratìa, Ipp, Pindemonte, Elogio del march. S. 3/,,
in Elogi di letter. ital., Firenze, Barbèra, Bianchi e C, 1859, p. 3-20C;
G, B. C. GlULlARl, Se. M, in Rivinta universale, Vili, XII (1868-70r,
per la bibliografìa, il Pindemonte, op,cit., pag. 17G, e G. B, C. Giu-
liani, Bihliogr. ma/feiana, nel Propugnatore del 1885, voi. XVIII.J
Merope crede morto il proprio figlio.*
PoZ//bn. Merope, ornai troppo t'arrogili : adunque,
. S'a me l'avviso non correa veloce,
Cader vedeasi trucidato a terra
Chi fu per ine fatto sicuro? Adunque
Veder doveasi in questa reggia avvinto
Per altrui man chi per la mia fu sciolto?
' A Merope, vedova di Cresfoute, era riuscito di trafugare il proprio
figlio e sottrarlo agli occhi di Polifonte. usurpatore del trono di Messenia,
clic ora, qnetate le cose, vuol ch'essa divenga sua moglie. Intanto giunge
alla reggia, condottovi dalie guardie, un giovaue ignoto, accusato di aver
ucciso uu viaudaute e gettatolo nel fiume. Merope credendo che il morto
sia proprio il figlio, chiede la morte dell' accusato, cui invece Polifonte,
anch' egli credendo che abbia morto il temuto giovinetto, vorrebbe sal-
vare. È noto che poi il figlio di Merope, eh' era l' ignoto giovane, uccise
Polifonte, e vendicò il padre.
SCIPIONE MAFFEI.
101
Quel nome ch'io di sposa mia ti diedi,
Troppo ti dà baldanza, o troppo a torto
In mia oflesa sì tosto armi i miei doni.
Merope. A te, che regni, e che prestar pur dói
Sempre ad Astrea vendicatrice il braccio,
Spiacer già non dovrìa che d' ira armata
Sovra un empio ladron scenda la pena.
Polifon. Quanto instabil tu sei ! non se' tu quella
Che poco fa salvo lo volle? or come
In un momento se' cangiata? forse
Sol d'impugnare il mio piacer t'aggrada?
Se vedi ch'io '1 condanni, e tu l'assolvi:
Se vedi ch'io l'assolva, e tu '1 condanni.
M'TopeAo non sapeva allor quant'egli è reo.
VoUfon.VA io seppi ora sol quant' è innocente.
3/('rope. Pria mi donasti la sua vita; adesso
Donami la sua morte.
Polifon. Iniquo fura
Grazia annullar a Merope concessa.
Ma perchè in ciò t'alTanni sì? qual parte
Vi prendi tu? di vendicar quel sangue
Che mai s'aspetta a te? del tuo Cresfonto
Esso al certo non fu, eh' ei già bambino
Morì ne le tue braccia, e de la fuga
Al disagio non resse.
Merope. Ah scellerato.
Tu mi dileggi ancora; or più non tìngi.
Ti scopri al fin : forse il piacer tu speri
Di vedermi ora qui morir di duolo :
Ma non l'avrai; vinto è il dolor da l'ira.
Si che vivrò per vendicarmi; ornai
Nulla ho più da temer: correr le vie
Saprò, le vesti lacerando e '1 crine,
E co' gridi e col pianto il popol tutto
Infiammare a furor, spingere a l'armi.
Chi vi sarà che non mi segua? a l'empia
Tua magion mi vedrai con mille faci;
Arderò, spianterò le mura, i tetti.
Svenerò i tuoi più cari, entro il tuo sangue
Sazierò il mio furor: quanto contenta,
Quanto lieta sarò noi rimirarti
Sbranato e sparso! ahi, che dich'io! che penso!
Io sarò allor contenta? io sarò lieta?
Misera, tutto questo il figlio mio
Riviver non farà. Tutto ciò allora
Far si dovea, che per cui farlo v'era;
Or che più giova? Oimè! chi provò mai
Sì fatte angosce? io 'l mio consorte amato,
Io due teneri figli a viva forza
Strappar mi vidi, e trucidare. Un solo
102 SECOLO XVIII.
Ilimaso m'era appena; i'> i" '• rrimr.;iiiri
Mei (livelsi dal Hon, ìììu
I.assa!, e '1 piaf;or non •
Aniìar crosfHMulo, o i t'.n o'Iu
Di rimirarne. Vissi o^Minra in [unitUf
Senipie avendolo innanzi in quel vezzoso
Senioiante circoli avea, quando al -mio servo
Il pòrsi : qii.'ii ' ■■• notti I
Quanti amari - disio!
Pur cresciuto era al hn<*; e già ni ordiva
Di porlo in trono, e già pareami ognora
D' irgli insognando qual regnai* solca
11 suo buon i : ma nel mio core,
Miserai, io d i insin gli avea
La sposa: ed ecco un improvviso colpo
Di sanguinosa inesorabii morte
Me l'invola per senìpre; e senza ch'io
Pur una volta il vegga, e senza almeno
Poterne aver le ceneri; trafitto,
Lacerato, insepolto, a i pesci in preda,
Qual vii bifolco da torrente oppresso....
Polf fon. {^on cetre o lire mi fur mai si grate,
Quant'ora il (lebil suon di questi lai,
Che del spento rivai fan certa fede.)
Meroj^c.^la perché dunque, o Dei, salvarlo allora?
Perchè finora conservarlo? ahi lassa,
Perchè tanto nodrir la mia speranza?
Che non farlo perir ne' di fatali
Della nostra ruina, allora quando
Il dolor della sua col gran dolore
Di tante morti, si sarìa confuso?
Ma voi studiate crudeltà; pur ora
Sul traditor stetti con l'asta, e voi
Mi confondeste i sensi, ond'io rimasi
Quasi fanciulla: mi si niega ancora
L'infelice piacer d'una vendetta.
. Cieli, che mai fec'io? Ma tu, che tutto
Mi togliesti, la vita ancor mi lasci ?
Perchè se godi sì del sangue, il mio
Ricusi ancor? per mio tormento adunque
Vedremti infine diventar pietoso?
Tal già non fosti col mio tìglio. stelle!
Se del soglio temevi, in monti e in selve
A menar tra pastori oscuri giorni
Che ti vietava il condannarlo ? io paga
Abbastanza sarei, sol eh' ei vivesse.
Che m'importava del regnar? Crudele,
Tienti il tuo regno, e *1 tiglio mio mi rendi.
Polifon.W pianto femminil non ha misura;
Cessa, Merope, ornai: le nostre nozze
SCIPIONE MAFFEI. 103
Ristoreran la perdita ; e in brev'ora
Tutti i tuoi mali copriraii d'oblio.
Mernpe. Nel sempiterno oblio saprò ben tosto
Portargli io stessa; ma una grazia sola
Donami, o Giove: fa' eh' io non vi giunga
Ombra affatta derisa e invendicata.
(Dalla Merojìc, atto III, scena VI.)
Breve storia del Giornalismo letterario e scientifico. —
Fra tutti i diversi riti'ovamenti, che per dilettare gì' in-
gegni, per facilitare gli studj, e per promuovere le buone
lettere ne' moderni illustratissimi tempi fur posti in uso,
ninno ve n' ha certamente che, nò per riportato applauso
nò per apportato giovamento, con V istituzione de' Giornali
in verun modo comparar si possa. Sogliono intendersi con
questo nome queir opere successive, clie regolatamente di
tempo in tempo ragguaglio danno de' varj libri, ch'escono
di nuovo in luce, e di ciò che in essi contiensi; notizie ac-
coppiandovi delle nuovo importanti edizioni, degli scopri-
menti, delle invenzioni e di tutte quelle novità tinalmente,
che alla repubblica letteraria in qualche modo possono ap-
partenersi.
Kbbe principio si commendata intrapresa l'anno 1065, in
l^arigi. Vera cosa è, che allatto nuovo non era il parlare
del contenuto de' libri nel farne registro. Dato n'aveano
(lualche saggio talvolta alcuni bibliografi nel secolo XVI,
come Antonfrancesco Doni e Corrado Gesnero ; e Fozio,
a' tempi addietro, nella celebrata sua Biblioteca proposto
n'avea l'esemplare. Quest'insigne scrittore, che fiorì nel
IX. secolo, dando contezza al fratello Tarasio de' volumi
dopo certo tempo letti da lui, fa di essi cosi pienamente il
ristretto e ne (h\ cosi partitamente il giudizio, che in molti
luoghi potrebbe dirsi il preciso modello de' giornalisti. Que-
sti però vi aggiunsero in oltre il far ciò de' libri nuovi, e '1
venirlo facendo di tempo in tempo; di che forse poterono
prendere idea dall'uso delle Gazzette, non impropriamente
essendo stato intitolato Gazzetta de' letterati un giornale,
che da un iMinutoli con molto applauso fu già cominciato
in Genova.
Quando e dove principio avesse la invenzione di pubbli-
care in giorni fissi e con licenza del governo, gli Avrisi,
non potrebbe si di leggieri determinarsi. Alcuni autori fran-
cesi pare che la credano nata in Francia, quando, nel 1631,
si prese a dar fuori in Parigi le novità d'ogni parte, di set-
timana in settimana; ma che dall'Italia ne sia stato tolto
l'esempio, lo indica il nome di Gaz zetta, \\?>i!iio anche da' fran-
cesi, il quale significa una piccola moneta di argento ve-
neziano del valore di due soldi, per la quale dandosi allora
il foglio degli Avvisi, si trasportò col tempo il nome del
104 SECOLO XVIII.
prezzo al fo^-lio stesso, come notai-ono Ottavio l'errari nello
Orifjini della linfjua italiana, e dopo lui Kgidio Menagio in
(luelle della francese; e di quanto avanti Ira noi corresse
(juest'uso, fa certa fede una raccolta, che si conserva dal
celebrato per tutta lOnropa signor Magliabeclii, di dieci tomi
di Avvisi scritti tutti in Venezia nel secolo XVI, con pochis-
simo divario dalla maniera che in oggi veggiamo. Nella
Raccolta (li (]ostUuzioni Pontificie, stampata nel 1579, una
se ne vede di Pio V, contro, dictantes Monita, vulgo dieta
gli Avvisi, ed altra simile di Gregorio XIII, in cui si legge:
(]um haud ita pridem in urbe nostra seda qnmdam emer-
serit hominum improbe cuì'iosorum ; da che apparisce che
cominciò in Roma quest'uso, e poco avanti i detti pontefici,
i quali lo dannarono allora, perchè vi si ofTendeva la fama
altrui. La introduzione adunque de' foglietti precedette cer-
tamente di molto a quella di cui qui si tratta ; ma non per
questo, e non perchè si fossero veduti ancora alcuni estratti
di libri può defraudarsi della dovuta lode chi, quasi queste
(lue cose congiugnendo, del primo erudito Giornale fu au-
tore. E se bene alcuna imperfetta immagine pare che ne
rappresentassero (ino" Cataloghi di Francfort, che comincia-
rono a stamparsi nel 1554, sì perchè di fiera in fiera i libri
nuovi d'ogni parte vi si registravano, sì perchè talvolta
alcuna brieve notizia vi si aggiugneva di lor contenenza,
egli è non pertanto giustissimo e convenevole il lasciare la
gloria di così bel ritrovato a Dionisio Sallo, consigliere del
Parlamento. Cominciò egli, sotto fintò nome di Hedouville,
a divulgare in lingua francese, d'otto in otto giorni, il Gior-
nale de'Dotti, nel principio del 1665, rivedendo tutto ciò che
a quest' opera altre persone contribuivano ; e benché, per
traversie che si frapposero, ben tosto l'abbandonasse, non
mancò chi sottentrasse all' impresa ; di modo che, se ben
con qualche interrompimento, vennesi pure continuando per
diversi autori il Giornale: il quale finalmente, l'anno 1703,
per opera del sig. ab. Bignon, presidente delle due Acca-
demie, che unì per questo effetto alcuni soggetti de' più
celebri della Francia, si arricchì di nuovo lume, e si dee
sperare che, a guisa de' fiumi reali, vada acquistando mag-
gior vigore nel lungo corso.
Fu così pronta Tapprovazione, e così generale l'applauso
di tale istituto, che fu ben tosto questo Giornale in altre
lingue tradotto, ed in altre parti imitato. ;Ma procedendo il
tempo, e venendo sempre più a perfezionarsi cotale idea,
moltiplicarono a segno simili opere, che avrebbe a riempiere
molti fogli chi di tutte parlare volesse. Il Junkero, che
nel 1692 ne scrisse, benché con pochissima fortuna, l'istoria,
delle notizie di esse compilò un libro ; e pure, troppo da
quel tempo sin qua il numero se n' è accresciuto. Tra" Gior-
oialì che tuttora corrono, e che acquistarono molto grido,
ci si presenta anzi gli altri l'intitolato Atti degli eruditi.
SCIPIONE MAFFEI. 105
che in Lipsia fu istituito nel 1682, e clie per principale,
tra' molti e dotti suoi compilatori, Ottone Menclienio rico-
nobljo. Assai concorse a promuoverne lo spaccio la lingua
latina, in cui vien disteso, V esattezza degli estratti, la
(piantità e varieti\ de' libri, e V usuale cortesia degli en-
comi con cui vengono riferiti. Ebbero principio nel marzo
del 1684 le Nuove della republica delle lettere, intraprese
dal famoso Baile, che in esse fé' mostra non meno dell' infi-
nite suo notizie, che del felice suo ingegno. Abbandonata
dopo il corso di tre anni da lui, e dopo lo spazio d'anni cin-
(lue anche da chi s'era sostituito, quest'opera fu ripigliata
nel 1699, sotto l' istesso titolo, da Jacopo Bernard, che
commendata principalmente la rende con le notizie che vi
aggiugiie, tratte da lettere di varie parti. La Biblioteca
iiniversale ed istoricny ch'ebbe tanto credito e tanta voga,
comparve nell' '86. Diedesi da principio per mese, come pur
si danno i due sopranominati Giornali^ ma passò ben tosto
al trimestre ; ed alcun anno ancora camminò per seme-
stre. Nel tomo (juarto di essa cominciò l'uso, dagli altri
poi seguitato, di notare il numero delle pagine de' libri ad-
dotti. Era abbondantissima ed assai ricercata, ma nel '93
ebbe fine; se però ravvivata e migliorata non vogliamo
dirla dieci anni dapoi, quando l'eruditissimo Giovanni Cle-
rico, che di quella compose la maggior parte, prese a fare
la Biblioteca scelta, dandone ogni sei mesi, e poscia ogni
tre, un tometto. Parla in questa non solamente di moderni
libri, ma di antichi ancora, secondo occasione e secondo
fiintasia, non si sottomettendo a dover leggere e far rela-
zione di opere che noi vagliano; ed impiega spesso buona
parte di sua fatica in comunicarci i libri di lingua inglese,
de' quali per altro poco divulgasi la notizia. Distintamente
ancora fra gli eruditi diarj viene accolta V Istoria delle
opere de' dotti, che si scrive da Enrico Basnage, detto pa-
rimente Beauval, che vi pose mano nel settembre '87, co-
minciandola per mese e proseguendola per trimestre, sin-
golarmente studiandosi di dare precise notizie degli autori,
e di quanto hanno scritto. Questi Giornali, benché si fac-
ciano in Olanda, usano però il linguaggio francese, che dal
gran numero di coloro i quali per motivo di religione esuli
da quel regno ripararono in varie parti, fu grandemente
anche nelle stampe diffuso. Non si vuol ommettere di ricor-
dare come, essendo gli autori di quest'opere protestanti,
chi di leggerle prende diletto, dee star sempre ben avver-
tito per non lasciarsi occupare e prevenire da alcuna peri-
colosa opinione, nel dolce della erudizione involta e condita.
Posteriori a' mentovati Giornali di tempo, ma non infe-
riori di prezzo, son le Memorie di Trevoiix, che col secolo
cominciarono, e si scrivono in Parigi da un'adunanza di padri
gesuiti, che in ciò dottamente s' impiegano. Se a niun Gior-
nale è per noi da augurarsi perpetua vita, egli si è pure a
106 sp:colo XVIII.
questo; così per gloria delle lettere, cui tanto giova, come
per vantaggio della cattolica religione, a favore della quale,
ove accada, con tanto valore s'adopera. Una cosa per la
intiera sua perfezione pare da desiderarsi; ed è, che alcuno
di que' pregiatissimi soggetti si compiacesse d' impiegar
qualclie tempo noli' istruirsi a fondo della letteratura ita-
liana e dcir istoria di essa; conciossiacliè mal corrispon-
dono alla purgatezza del rimanente i lor giudizj del gusto
italiano nell'eloquenza e nella poesia, formati e sopra cose
di nessun prezzo, e su la fede d'alcuni, che la minima no-
tizia non ebbero degli ottimi nostri autori. Vedrebbero al-
lora che ([uel buon senso ch'essi con tanta carità ci vanno
augurando, nacque fra noi al nascere di nostra lingua, e
gic'i nel secolo del 1300 a perfezione era giunto; vedrebbero
ch'egli non mancò in Italia giammai, benché nel XV secolo
alquanto meno si coltivasse, e benché nel XVII in alcuna
provincia patisse disastro; e vedrebbero finalmente ch'egli
fiorisce ancora oggi giorno quanto in altro tempo mai fosse,
come il Giornale ch'or s'intraprende darà loro facilmente a
conoscere.* Egli è certissimo che non poco in tal caso sor-
presi si rimarrebbero nel rinvenire che a quelle inezie, a
quelle punte, a quelle vane gonfiezze, che per proprie de-
gl' italiani si predicano da alcuni francesi, tanto per natura
nemica e tanto per uso contraria si è questa lingua, che né
pur uno si trova fra que' tanti che la sua purità coltivarono,
il quale di tali cose, non che infetto,, ma per ombra tinto
si veggia. Ben poteano essi, per altro, far chiaro argomento
del loro inganno dall'osservare quanto diversamente delle
cose italiane sentissero que' dottissimi lor nazionali, che di
proposito a studiarle si posero, come Egidio Menagio e Gio-
vanni Capellano fra' trapassati, e il signor abate Regnier
fra' viventi; e non meno altri letterati di pari grido, i quali
ne rimasero tanto presi, che a scrivere in questa favella in
prosa e in verso, gli stili de' nostri i\tori esattamente imi-
tando, con lor somma gloria si diedero. Sia detto ciò per
la brama di vedere in ogni parte perfette queste belle Me-
morie, che, per altro, da ninno certamente son più volen-
tieri applaudite e lette, che da noi tutti.
Oltre i Diarj universali, quali sono i sopraddetti, altri
ve n'ha in copia, che particolari potrebbero dirsi, o per
paese o per materia. Fra quelli che di determinate pro-
vinole danno relazione, assai si distinguono le Nuove lette-
rarie del mar Baltico e del Settentrione, che si stampano
in Lubecca, e principiarono nel 1698, ragguaglio facendo di
quanto avviene d'appartenente agli studj nella Svezia, Da-
nimarca, Pomerania, Prussia e Livonia, e ne' ducati di Me-
chelburgo, Slesvic ed Olstein. Le Nuove letterarie della
^ Questo scritto è parte dell' introduzione al Giornale dei Letterati
d'Italia, cominciatosi a pubblicare a Venezia nel 1710.
SCIPIONE MAFFKI. 107
Germania, erette cinqu'anni ilopo in Amburgo, non com-
prendevano da principio che i'Alemapfna, tralasciata la ;?iu-
risdi/jone dell'opera antecedente; ed assai più ristretto è
r istituto delle Nuove Ivlterarie Elrrticlie, in latino scritte
non meno delle sopranominate, nelle quali, incominciate
nel 1702, Gio. Jacopo Scheuczero dello cose degli Svizzeri
diligente notizia ci reca.
Ma in assai maggior numero sono quell'opere periodi-
che, le quali d'alcuna scienza particolare, o d'alcuna de-
tm^iiinata materia presero assunto; poiché non solo delle
cose ecclesiastiche e di giurisprudenza e di medicina, ma
di pittura e di musica e di architettura furono istituiti re-
gistri. Deesi in (luost'ordine il primo luogo alle Transazioni
fdosofìclic d'Inghilterra, che per poco non contendono col
(riornai di Parigi 1' anzianitù,, come uscite la prima volta
nel marzo del 1(>G5. Hanno per argomento le osservazioni
e le oper(^ di scienza naturale, che si vanno facendo dagli
ascritti alla Real Società per gli studj MIosoliei istituita. Il
loro linguaggio è l'inglese, ma se ne ha la traduzione la-
tina di Cristoforo Sandio e di altri. Ne fu autore per più
anni Arrigo Oldemburgio, segretario dell'Accademia. Suc-
cedette l'Hook, ed altri di mano in mano; ma non riusci
sempre eguale a sé stessa questa fatica. L" Accademia
de' Curiosi della natura, che fiorisce in Germania, con
titolo di Miscellanee, principiate nel 1670, raccoglie quan-
titìi di mediche osservazioni, fatte in varie parti, e d'anno
in anno le divulga. Trovasi da taluno chiamata (juesta rat;-
colta (riornale di Slesia, perchè da principio buona parte
ne fu compilata in Uratislavia, e passa ancora sotto nome
di Efemeridi de' Curiosi. Tommaso Bartolini il vecchio,
con maggiore eleganza ed avvedimento cin<iue volumi ci
diede degli Alti medici e filoso/ìci di Copenaghen, termi-
nati nel 1()7'.), insieme con la sua vita. Nò vuol qui lasciarsi
di far ricordanza della bellissima [storia dell' Accademia
delle Scienze, che dà relazione di quanto si scrive, si recita,
si scuopre da' soggetti di quell'illustre adunanza per gli
studj tisici e matematici, dal braccicì reale in Parigi soste-
nuta. Il primo tomo, che fu latino, compendiò i 30 anni pre-
cedenti, e si prcse dipoi a darne ciascun anno un tomo in
IVancese. Sperar ci giova che non saranno di minor frutto
e dottrina gli Atti della Società di Berlino, che di giorno in
giorno sono per pubblicarsi sotto la direzione del dottissimo
Leibnizio, singolare ornamento della Germania in cui vive.
Dopo ciò, troppo lungo sarebbe il ricordare e tutte quel-
l'opere che non ebbero ilurevol corso, come la tanto lodata
Biblioteca de' libri nuovf\ che si stampò in Utrecht, e
quelle che vengono a formarsi con estrarre dagli altri (ìior-
nali : come le llicerclie matematiche e fisiche del Parent;
e quelle che raccolgono le operette sciolte, o fanno estratto
di libri rari, come le Osservazioni scelte impresse in Hall
108 SECOLO XVIII.
di Sassonia ; e quelle che danno contezza di libri vecchi
o ristampano i rari, come la liiìjlioteca antica, pubblicata
in Jena del 1705; e quelle che co" Giornali ten^^ono allinità,
come alcuni Mercurj; e tutte quelle finalmente di minor
grido, che in francese, in tedesco, in fiammingo, in inglese,
ed in altre lingue, o furon fatte o attualmente si Iknno.
Ma in tanto moto e in sì maraviglioso fervore di tante
studiosissime nazioni, scioperata e neghittosa sarà forse
restata sempre T Italia nostra? No certamente; ch'anzi
ha ella il vanto d'avere intrapresa, dopo il Giornale di
Francia, la prima di quell'opere, che per far relazione
d'ogni materia, più propriamente in tal ordine si ripon-
gono. Fu questa il Giornale de' Letterati, cominciato in
Roma al principio dell'anno 1668, e continuato oltre a tre-
dici anni, che si dividevano d'ordinario in 12 numeri, ben-
ché talvolta sino in 18. Trovasi questo ricordato più volte da
alcuni stranieri come traduzione del Giornale di Parigi; il
che non è senza grave sbaglio, poiché fu fatica affatto di-
versa, benché lavorata su quel modello ; e solamente in fine
di ciascheduna parte, breve estratto di quello aggiugnevasi,
e spesso anche dell'inglese, come negli altri Giornali molte
cose del romano fur dipoi parimente inserite. Lodatissimo
universalmente, e molto a ragione ricercato si era questo
Giornale, ben adempiendo tutti i numeri di così difficile im-
presa. Ne fu autore l'abate Francesco Nazari, bergamasco,
che lo intraprese con la direzione e col consiglio dell'abate
Ricci, poi cardinale, e lo proseguì fino a tutto l'anno 1679.
Ma è da avvertire che avendo egli, dopo il marzo 1675, per
convenevoli motivi cangiato stampatore, appoggiando la
spesa a Benedetto Carrara librajo, e lasciando il Tinassi,
questi, per desiderio di continuare nell'assunto, ricorse a
monsignor Giovanni Ciampini, che col mezzo della dot-
tissima conversazione in sua casa tenuta, somministrò a
costui sufficiente materia per proseguir la sua stampa fino
a tre mesi dell'anno 1681. Quindi è che per alcuni anni
due Giornali di Roìna si trovano, i quali, benché si veg-
gano d' ordinario senz' altra avvertenza confusamente le-
gati insieme, essendo ambedue in quarto stampati, sono
però così differenti, che qualche anno niuna delle cose dal-
l'uno riferita s'incontra nell'altro; dal che documento per
incidenza può trarsi della impossibilità di comprender tutto
in un solo. Questa divisione venne finalmente a far cessare
con universale dispiacimento, così giovevol lavoro. Si fece
nel 1668, in Bologna una ristampa del Gioitale di Roma
con alcune giunte, ma non passò oltre il prim'anno.
Or di un altro Giornale, che con lo stesso titolo e nella
forma stessa per nove anni già corse, pregiasi la nostra lin-
gua. Componitore di esso fu il padre don Benedetto Bac-
chini, abate benedettino, di cui basta dire il nome per farne
intendere a chi di lettere ha conoscenza il valore. Lo prin-
SCIPIONE MAFFEI. 109
cipiò egli in Parma nel 1686, conducendolo sino alla fine
(lei 1690; lo ripigliò poscia in Modena del 1692, e lo diede
il '93, '96 e '97. Dell' interrompimento varj accidenti furon
cagione, e dell'abbandono la mancanza d'assistenza e la
morte del padre Roberti, carmelitano, che provvedeva i
libri e suppliva alla spesa. In questo applaudito Giornale,
oltre a' numerosi e su^^osi estratti de' libri, belle e nuove
dissertazioni di tanto in tanto si registravano, e di varie
novità erudite al pui)blico si facea copia. Non mancò chi
assumesse di fare un simil ragguaglio in latino, ed assai
bene corrispose all'assunto il padre Manzani, provinciale
del terzo ordine di san Francesco, prefìggendo il titolo di
Syrio2:)sis Biblica, ma non si ha di lui che l'anno 1692,
stampato a Parma in quarto.
Cadde questo nobil pensiero anche in mente a persone,
che di tutt'altro erano capaci che di ben eseguirlo. Usci-
rono, nel 1671, in Venezia certi ridicoli fogli di stranis-
simo stile, con titolo di Giornale Veneto, il giudizio de' quali
nel Miles Macedonicus del Noris ben può vedersi. Conti-
nuarono, benché interrottamente, fino al 1689. Si ha pa-
rimente un tometto in quarto di un Giornale di Ferrara,
comprendente 1"88 e l"89. Ma d'altro colore fu il Giornale,
principiato pure in Ferrara nel 1691, in ottavo, nel quale
aveva qualche ingerenza un degnissimo soggetto, ma non
andò molto avanti. Il Gran Giornale si cominciò nel 1701
in Forlì, e corse per quattr'anni. Uni vasi alle gazzette,
dandosi ogni settimana un foglio grande, la prima pagina
del quale contenea, comunque il facesse, cose letterarie, e
la seconda iscriveasi Giornale de' novellisti. Supplì alla
mancanza di questo il Genio de' Letterati, scritto dal si-
gnor Giuseppe Garullì, riminese, il quale si pensò di ser-
vare alcun ordine nelle materie; ciò che per altro non
suol farsi da' giornalisti. Si stampò in quarto, per un anno
e mesi, in Forlì; divideasi in compilazioni, e non potea
dirsi inutile nò disprezzabile. I\Ia ritornò, nel 1706, l'au-
tore del Gran Giornale, e prese a divulgare in Parma, ben-
ché sol per sei mesi, gli strepitosi suoi Fasti, lodandosi
e stralodandosi, ma in efletto nulla riuscendo, se non in
quelle pagine che malamente copiò da' vecchi giornali di
Roma, fingendo altri nomi.
Ora, ritornando a quell'opere di cui l'Italia si vanta;
poiché nel catalogo dell' efemeridi letterarie vien riposto
con grandissima lode il Giovìial del Palazzo, eh' è una rac-
colta delle decisioni de' primarj tribunali di Francia; e' si
converrà tanto più riporvi la serie delle Decisioni della
lioia Romana, che si pubblicano insieme con le ragioni; e
tanto più questa, quanto che essa fu l'esemplare di tutte
le altro somiglianti fatiche, essendo stata cominciata dal
Farinaccio fin dal 1618, e quanto che essa fu sempre della
facoltà legale il maggior tesoro; poiché si come la giuri-
Ito SECOLO XVIII.
sprui.lenza fu lo studio proprio e speciale di Roma antica,
COSI può dirsi aver quella mantenuto nella moderna la pri-
maria sua sede. Il Morofio, nel suo dottissimo Polistorc,
fra' diarj eruditi annovera i ^afjrji di naturali esperienza
fatte nelV Accademia del Cimento, stampati la prima volta
in Firenze nel 16(37. E veramente, se la morte del principe
cardinal Leopoldo de' Medici, e poi del granduca Ferdi-
nando II, suo fratello, che regiamente promovevano con
r assistenza e con Y oro V impresa, non avesse tolto a
que' profondi ingegni di proseguire le loro bellissime osser-
vazioni ed i vai'j e dispendiosissimi esperimenti, nel con-
tinuato registro di essi avrebbe avuto la Illosofia un in-
comparabil giornale; ma ora non se ne ha che un tomo
in foglio, dalla penna del signor conte Lorenzo Magalotti
disteso.
Un'Accademia fu parimente eretta, nel 1686, in Brescia
per le cose fisiche e matematiche, la quale avea per isti-
tuto di dare mensualmente in luce le sue relazioni ; ma
la morte del padre Francesco Lana, gesuita, che la diri-
geva, seguita nel 1687, ne troncò il corso dopo un anno o
poco più, che si vede in latino impressa col titolo di Atti
de' Filesotici. Coloro che ripongono in tale schiera le rac-
colte di opere scelte e rare, ricorderebbono qui special-
mente le Miscellanee italiche, e ancora le Matematiche
del padre Roberti ; ed altri vi farebbe menzione della Bi-
blioteca volante , di cui sedici scanzie fé' in v£:.rj luoghi stam-
pare, in ottavo, Giovanni Cinelli, che fu il primo a com-
pilare cataloghi di opere brevi e di libretti che facilmente
smarrisconsi ; e tanto più che alcuna volta qualche notizia
vi pose appresso.
Ma finalmente convien pure ridursi a dire che mancate
tante belle fatiche, non senza sua vergogna si sta V Italia
da molto tempo senza un erudito giornale. Vero è che non
è affatto cessata la Galleria di Minerva, la quale cominciò a
stamparsi in foglio in Venezia nel 1696. I^Ia non può questa
tener luogo di giornale, così perchè non si dà regolatamente
di mese in mese, onde in quattordici anni appena com-
piè il sesto tomo; così perchè, prendendo ambiguo assunto
e più istituti abbracciando, pare al presente che sua idea
principale sia di pubblicare opuscoletti, fra" quali alcun ot-
timo talvolta se ne ritrova. Ed in vero, di maggiore spac-
cio ed applauso riuscir potrebbe cotal lavoro, se con l'as-
sistenza e con l'arbitrio d'uomini dotti e giudiziosi si fissasse
a dare annualmente alla luce un tomo di operette di pochi
fogli, nuove o inedite o rare, delle quali sempre mai si
ha dovizia. Ma, in somma, lagnasi ben a ragione Lamindo
Pritanio {Rifless., e. 7) * di vedere la nostra nazione man-
cante da lungo tempo di si gran soccorso agli studj; e ben
* Sotto questo nome è nascosto il gran Muratori.
PIETRO GIANNONE. Ili
a ragione procura di eccitare alcun principe a promuovere
e a lavorire alcuna simile impresa.
Imperciocché, qual più bel diletto clie di trovarsi sem-
pre con sì poca fatica inlbrmato de' nuovi ritrovamenti,
ne' quali si va sempre assottigliando l'umano ingegno, delle
nuove osservazioni o celesti o lisiche o anatomiche, delle
(juistioni che si svegliano, dell'erudite contese clic corrono,
delle opinioni che insorgono, degli errori che si dih^guano,
V di mano in mano della morte, degli scritti e delle prin-
cipali circostanze della vita degli uomini illustri? K poiché
moltiplicano cosi fattamente le stampe, che non è sulli-
ciente una facoltà privata ad acquistare tutti i libri, né
l'età di un uomo a trascorrerli, qual maggior utilità, per
chi degli studj ha vaghezza, che di ricevere sincero avviso
dell' intiMuseco valore e della precisa contenenza di essi,
onde di tanto solo ai)pagato rimanga, o sappia di qual
s' ha a provedere senza restare ingannato dai titoli? Égli
è pur certo che nulhi meglio d'un buon gioi'inile può for-
mar nella mente (piella universalità di cognizioni, che in
uomo di lettere si richiede, per non comparire in qualsi-
voglia materia rozzo all'atto, ed ignaro; egli é assai credi-
bile che diventino un giorno le opei'c di tal natura il mi-
glior tesoro non solo dell' istoria letterai'ia., ma delle scienze
ancora e dell'erudizione. — (Dalle liinie e Prose, Venezia,
Coleti, 1711), p. 18.5 e segg.)
PIETRO GIANNONE.
Nacque di modesta famiglia in Ischitella di Capitanata, ai 7 mag-
gio 107G. Studiò a Napoli, dandosi alla logge, della qnale cercò
conoscere non solo il senso e il valore, ma la storia. Venuto in
fama come giureconsulto, e raggiunta una onesta agiatezza, volse
l'ingojrno a tesser la storia del Jiogno di Napoli, non tanto nelle
vicende politiche, quanto nell'andamento e nelle variazioni del
costume, della legislazione, delle istituzioni, della cultura. Frutto
di lungo e assiduo lavoro, cui pose mano nel ITO;}, fu pertanto la
Storia civile del lieyno di Napoli, pubblicata nel 172;j (^Napoli,
Naso, 4 voi., in 4°), nella quale specialmente intese a svelare le
usurpazioni de' chierici e del papato sullo Stato, attirandosi con-
tro l'odio dell'autorità ecclesiastica e della curia romana. L'opera
destò subito un gran vespajo, e gli avversarj gli eccitarono con-
tro anche la plebe della sua patria, massime con lo spargere
ch'ei negava ne'suoi scritti il miracolo di san Gennaro: sicché
dovette fuggire da Napoli, e rifugiarsi a Vienna presso T impera-
tore Carlo VI, che allora aveva il napoletano in suo dominio, e
al quale la Storia era dedicata. L'imperatore gli accordò una non
112 SECOLO XVllI.
lauta pensione, ma non lo rimandò mai in patria; finché nel 1734,
essendosi il regno perduto dagli Austriaci, il Giannone passò a
Venezia. Qui fu festosamente accolto, ma la repubblica, che po-
teva ritrovare in lui un altro Sarpi, dovette cedere all'odio di
lloma, e cacciarlo oltre i suoi confini.' Passando rapidamente per
Modena, Parma e Milano, si recò a Ginevra: e la città di Calvino
avrebbe potuto essergli sicuro rifugio, se, per adempiere ai riti pa-
squali, come cattolico ch'ei voleva serbarsi, nel 173G non fosse
passato sul territorio piemontese, attratto dagli inviti di un tal
Guastaldi, che lo tradì, d'accordo col governatore Picon e col regio
ministro d'Ormea, il quale, fors' anco agognando il cappello cardi-
nalizio, volle per tal modo ingraziarsi la curia romana. Così gher-
mito a tradimento, venne chiuso nel castello di Miolans, poi in quello
di Torino, indi in quello di Ceva e di nuovo a Torino, dove, nella
cittadella, morì ai 7 marzo del 1748.- Invano aveva consentito ad
un'abjura delle sue opinioni, compilata secondo le istruzioni man-
date da Koma al padre inquisitore di Torino; invano supplicò ri-
petutamente che gli si rendesse la libertà, della quale era stato
privato ad inganno. Meritano esser trascritte alcune parole ch'ei
scrisse in carcere; « A me che non per odio d'altrui o per disprezzo,
ma unicamente per amor della verità, e per investigarla fra l'oscu-
rità de' pili incolti e tenebrosi secoli, ho sofferto tante fatiche e tra-
vagli, se accaderà che fra queste alpestri rupi lasciar debba il mio
corpo esanime, pregherò Iddio, eh' è la verità istessa, che accolga
11 mio spirito in pace.... Pregherò pure i paesani e viandanti, che,
traversando per questi monti e dovendo nel passar per la Savoja
in Francia, calcarla strada, donde non molto lontano vedesi il ca-
stello di Miolans, volti i loro pietosi occhi al gran sasso, sotto al
quale giaceranno sepolte le mie fredde ossa, mossi da spirito di pietà,
in passando, lor dicano ; Ossa aride ed asciutte, abbiate quella
pace e riposo, che vive non poteste ottener giammai. » Il figlio di
lui fu pensionato dal nuovo re di Napoli, Carlo III, che non volle
restasse nella miseria chi nasceva « dal più grande, più utile allo
Stato e più ingiustamente perseguitato uomo, che il regno abbia
prodotto in questo secolo. »
Oltre le scritture giuridiche e apologetiche, che furono raccolte
dopo la sua morte {Opere postume, Ginevra, 1753, Venezia, Pa-
squali, 1768), lasciò il Giannone parecchie altre scritture, frutto
delle sue meditazioni nel carcere. P. S. Mancini ne pubblicò parte,
cioè i Discorsi storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio,
e La Chiesa sotto il pontificato di Gregorio il Grande (Torino,
Pomba,1852); Aug.Pierantoni pubblicò con sue prefazioni, prima
^ A. PiERANTONi, Lo sfratto di P. G. da Venezia, autonarrazione,
Roma, 1892.
'^ P. OcCELLA, P. G. negli ultimi dodici anni della sua vita, in Curio'
sita e ricerche di storia subalp., voi. Ili, pagg. 489, 662 ; G. Cuibali, L'ar-
resto del Giannone, in Gazz. Ictter., XV, 11.
PIETRO GIANNONE. 113
Il Tribunale della monarchia di Sicilia (Roma, Locscher, 1892), o
poi il Triregno (Roma, tip. Elzevir., 1895, iì voi.).* Restano inedite
Le dottrine morali, teologiche e sociali degli antichi padri della
Chiesa. Fn anche pubblicata una sua Autobiografia, composta ne-
gli ultimi anni e nelle angustie del carcere, non bene scritta, forse
perchè neanche dall'autore rivista e ripassata, e peggio stampata
da A. Pier ANTONI (Roma, Perino, 1890).
L'opera sua più famosa resta sempre la Storia civile, alla
quale molte censure furono mosse, alcune con passione e virulenza
da chierici e frati, altre non senza ragione; tra le quali ultime è
(luella de' frequenti plagj.* Ma se la storia non ha molto valore
quanto ai fatti, non sempre riprodotti con esattezza e compilando
di seconda mano, la mantiene ancora in pregio il concetto nuovo e
largo che ne ò l'anima, e che segna un vero passo innanzi nel modo
di intendere e di dettare la storia di uno Stato. Il suo libro, dice
il S^TTEMiniiNi, essendo essenzialmente la difesa delle preroga-
tive dello Stato contro le usurpazioni ecclesiastiche, ne segue che
« la parte bella, nuova od importante ò il discorso, non la narra-
zione; ò il ragionamento sui fatti, non l'esposizione dei fatti....
Come difesa, l'opera del Giannone è di prima importanza nella sto-
ria d'Europa; tratta la gran quistione tra la Monarchia e la Chiesa,
V la tratta con larghezza, con dottrina, con acume d'ingegno, con
tutti gli argomenti; è una difesa che fu seguita da una gran vittoria:
la libertà del Principato » (Storia della lett. ital., cap. LXXXl);
e il Giordani così giudica il Giannone: « Cercando solo il prin-
cipale intento, correva sopra le altre cose.... Per lui una sola cosa
importava: Il papa non è il re di Napoli » {Opere, VI, 1G8).
[Por la biografìa, vedi la Vita di lui scritta da L. Fanzini, il
quale si giovò dell'allora inedita ^«/oòio//7'a/m, e che trovasi anche
nel t. II della cit. ediz. veneta delle Opere postume; C. Cantù,
Italiani illustri, Milano, 13rigola, s. a., Ili, 19H. Per le dottrine, vedi
DOM. Denicotti, P. G., Napoli, tipogr. del Giorn. di Nap., 1867;
R. Mariano, Giannone e Vico, in Rivista contemp., 18G9, voi. LVII; '
G. Ferrari, La mente di P. G., Milano, Tipogr. del Libero Pen-
siero, 1868; R. BiAMONTE, Lo storico P.G., in Hiv. Europea, 1872;
I. SCIIUMANN, P. G.y in Beilage ztir Allg. Zeitung, 1890, nn. 245-250.1
* Vedi su quest' opern, C. Castellani, Del Triregno di P. O., Firenze,
Successori Le Mounier, 1877; G. B. Dattino, Il Tr. di 0. P., Napoli, Jo-
veno, 1875 ; K. Biamoxte, La storia Civ. e il Tr., esposizione critica,
Napoli, Morano, 1878; B. Labanca, La storia del Cristianesimo nel Tr.,
in Riv, itili, di jilosof., 1890 (genn.-febb.) ; A. De Nino, L' autohiorjr. e il
Triregno di P. O., in Riv. Abruzzese, X, 7-8.
* Vedi quel che ne dico il .Manzoni, Storia della colonna infame, rife-
rito col tit. / playi del Giannone nel Morandi, Antol. della crit. rnod. il.,
pag. 542.
114 SF/JOLO XVITI.
Italia antica e Italia moderna nel rispetto degli ordini mi-
litari.— Certamente a cliiunque avi-a solo avanti gli occhi la
condizione delle province onde ora si compone l'Italia, e mas-
simamente di quelle clie comprende lo Stato della Chiesa di
Roma, nelle quali trovasi estinto o^^ni vestigio di milizia, uè
i loro abitatori sanno che cosa sia guerra o il trattar le armi,
sembrerà strano e portentoso come da queste stesse regioni,
cotanto ora effemminate ed imbelli, avesser potuto sorgere
schiere si numerose di valorosi guerrieri, i quali negli an-
tichi tempi si assoggettarono quasi tutto Torbe terreno. Ma
non bisogna fermarsi allo stato presente delle cose, quasi
che il mondo non avesse prima avuta altra faccia, disposi-
zione, costumi, istituti e leggi, se non quali ora sono.
Bisogna riportare indietro la nostra attenzione, e riguar-
dare le condizioni andate, e quale aspetto avessero nel tempo
che Romolo diede principio alle cose romane, e quando,
mutata forma di governo, s'innalzò la romana repubblica
cotanto, che giunse a tal grandezza che appena poteva reg-
gere sé medesima. Ciò solo dall'istoria, unica e fedele de-
positaria delle antiche memorie, può essere a noi sommini-
strato, e specialmente, trattandosi de' romani, da questa
incomparabile di Livio. Chi attentamente porrà mente a' pri-
mi libri della prima deca, si accorgerà che a que* tempi i
popoli onde l'Italia era composta, e specialmente i latini,
gli albani, i rutuli, e tanti altri eh' eran vicini a' campi
laurenti ed albani, e generalmente tutti gli altri d'Italia,
non erano distratti ed occupati in altre cure od arti se non
in due sole, cioè nell'agricoltura e nella milizia. Coltiva-
vano con diligenza ed industria i loro campi, e pascevano
con accuratezza i loro greggi ed armenti, onde sostenevano
se stessi e le loro famiglie. Quindi in Roma nascevano tante
contese fra i nobili e la plebe intorno la legge agraria, poi-
ché la plebe, che viveva sopra i campi che le venivano
distribuiti, non voleva soffrire i torti che i nobili tentavano
arrecarle per la divisione de* medesimi. Erano perciò con-
tenti di quanto la terra da essi lavorata e la greggia o l'ar-
mento lor davano per alimento. Né cercavano agiatezza, né
grandi edifizj, né preziosa suppellettile, né abiti pomposi o
altre morbidezze. Erano paghi di picciole case o capanne,
dove potessero ricovrarsi nella rigidezza delle stagioni e
schermirsi dal freddo, dalle pioggie, da' venti, e dove la
notte in placido riposo ristorar potessero le loro membra,
stanche dalle fatiche nel dì sofferte. Erano paghi di abiti
semplici e pochi, solo bastevoli a coprirli e difenderli. Non
aveano perciò bisogno di molti artefici, e pochi cittadini
erano addetti a' lavori delle dita, a' quali d'altronde per lo
più erano impiegate le donne. Ma sopra tutto aveasi gran
cura della milizia, nella quale tutti e quasi sempre si eser-
citavano; poiché sovente un popolo scorrendo oltre i proprj
confini (per l'insita umana natura, che fa l'uomo non mai
PIETRO GIANNONE. 115
contento del proprio, ma sempre desideroso dell' altrui, e
di profittarne quando gli riesca acconcio il farlo), commet-
teva sul campo del popolo a sé vicino prede di animali,
vettovaglie od altro: sicché ciascuno, per difendere il suo,
era costretto di star quasi sempre con le armi alla mano e
pronto ad impedir le altrui incursioni e rapine.
Vivevano questi popoli, specialmente i romani, con mas-
sime diverse, anzi opposte a quelle che al presente si ten-
gono. Anteponevano sempre il ben pubblico al privato :
considerando che dalla pubblica utilità e dovizia fosse per
derivare a tutti un equabile, fermo e durabile bene: e ciò
rendeva i cittadini più concordi e pronti a rintuzzare le
oppressioni, che per avventura potessero venir loro imposte
da' più potenti, interni od esterni che si fossero, ed a resi-
ster loro con vigore e coraggio. Al contrario, anteponendosi
il privato bene al puliblico, avviene che ciascuno pensando
solo di arricchir se stesso, la repubblica s' impoverisca.
Quindi molti divengono avari, superbi ed oppressori degli
altri, e segue che le comodità e ricchezze non siano egual-
mente tra i cittadini distribuite, ondosi dà luogo alTeniu-
lazione ed all'invidia fra loro; oltre che, per la dovizia di
pochi, molti si veggono patir miseria, da che nascono le
servitù, ed avviene che ciascuno sia facilmente esposto al-
l'altrui boria e sovercliieria. Quindi volentieri i romani al
pubblico bene sacrificavano non pur le sostanze, ma la
propria lor vita e quella de' loro figliuoli. D'onde avveniva
che in caso d'invasione, di danno od ingiuria per parte
de' popoli vicini, eran tutti pronti ad unirsi insieme ed a
l'esister con le armi.
Fra i popoli ond' era allora l'Italia divisa, certamente i
r(ìmani e sotto i re e poi sotto i consoli, erano i più ag-
guerriti ed esercitati nella milizia; e nelle occasioni di guerra,
sia offensiva sia difensiva, davano volentieri i loro nomi per
essere arrollati nelle centurie, ciascuno militando sotto i
tribuni, e questi sotto i consoli o pretori, ch'erano destinati
per supremi duci. Cosi in breve tempo formavasi un nu-
meroso esercito; poiché tutt' i cittadini, come per loro pro-
prio mestiere erano esercitati nelle armi, e finita la guerra,
ovvero quando, approssimandosi l'inverno, fossero stati
costretti a ritirarsi, tornavano nelle lor case ad aver cura
delle cose domestiche ed a coltivare i loro campi e ad at-
tendere alla custodia delle loro greggi ed armenti, pronti a
ripigliar le armi ricominciando la guerra. Ed in tal modo
in poco tempo, senza molto imbarazzo e dillicoltà, non meno
i romani che gli altri popoli rifacevano i loro eserciti. Livio
rapporta che la prontezza e la facilità con la quale i ro-
mani reintegravano i loro eserciti intorno all'anno 406 di
Roma, quando non aveano né meno la quinta parte d' Italia,
dopo tante pugne, uccisioni e morti, fu tale, che a' suoi tempi,
quando sotto Augusto l'imperio era cotanto cresciuto, non
110 SECOLO XVIII.
si sarebbe potuto sperare un sì pronto, numeroso e sol-
lecito rifacimento di corpi armati. Da' romani (è Livio che
il (lice) allora furono prestamente rifatte dieci legioni, di
quattromila e du^^ento fanti e di trecento cavalieri Tuna:
Quem nunc, q" soggiunge, novum ecDercitum, si qua externa
vis ingruat, hce vires populi romani, quas vix terrarurn
capii orhis, contractcc in unum Jtaud facile efficiant. Adeo
in quce laboramus sola crevimus, divitlas luxuriemque.
E lo scrittore medesimo, parlando non solo de' romani ma
degli altri popoli vicini, narra essere stata veramente cosa
meravigliosa, come in tante guerre, che contro quelli ebbero
i romani, specialmente contro i volsci, equi e veienti, i due
primi tra questi popoli tante volte vinti e debellati ripul-
lulasser sempre, sicché tenessero solleciti i romani a star
continuamente colle armi alla mano per combatterli e ri-
durli finalmente nella loro dizione, e d'onde mai potessero
sorgere tanti soldati per apparecchiare nuove guerre e com-
pensare tante sconfitte ed uccisioni. l<lon dubito, prrjeter
satietatem, tot jann libris assidua bella cwm Yolscis gesta
legentibus illud quoque succursurum, quod mihi percen-
senti propìiores temporibus harum rerum auctoy^es miraculo
fuit, unde toties victis Yolscis et jEquis suffeceHnt miliies.
Né può non istupire chi riguarda come i bellicosi popoli
della Liguria, che Livio chiama durum in armis genus,
benché tante volte sconfitti da' romani, anch' essi rifacesser
vigorosi per numero e per valore i loro eserciti....
Ma quello che maggiormente dimostra quanto fosse stato
presso gli antichi romani l'amore del pubblico bene, è che
tutti per la repubblica militavano a proprie loro spese,
e fino all'anno di Roma 349 non ricevevano i soldati pub-
blico stipendio. Da questo tempo in poi il senato decretò :
TJt stipendium miles de publico acciperet, cum ante id
tempus de suo quisque functus eo munere esset. D'indi in
poi con maggiore alacrità e prontezza ciascuno dava suo
nome per iscriversi nell'esercito; e poiché per supplire a
cotali spese bisognava imporre al popolo il tributo, accioc-
ché ciascuno secondo le sue forze contribuisse agli stipendj
della milizia ; fu da tutti gli ordini il tributo imposto e vo-
lentieri accettato, dal quale non vollero essere esenti i se-
natori stessi ; anzi questi, per dar esempio agli altri, poiché
allora in Roma non eravi moneta di argento (la quale non
fu posta in uso se non intorno l'anno 490), ma solo spen-
devasi quella di rame, furono i primi a mandar nell' erario
carri pieni di quella moneta, ciò che rese la collazione più
autorevole, onde furon mossi i primi della città a far lo
stesso ; sicché dappoi tutti con somma fede, secondo che
dal censo erano stati tassati, conferivano all'erario il tri-
buto: Patres, prosieguo Livio, bene cccptam rem perseve-
ranter tueri : conferre ip si primi ces, quia nondum argen-
tum signatiim erat, et grave plaus tris quiddam ad cerarium
PIETRO GIANNONE. 117
ronvehentes sjieciosain etiam collationem faciebant. Cinn
senatus summa fide ex censii contulisset, primores plebis
nobilium amici ex composito conferve incipiunt. Dalla
qual cosa derivò che laddove prima, finita la campagna ed
avvicinandosi l'inverno, si ritiravan tutti nelle loro case;
poscia, siccome annuo era lo stipendio, così annuo fu il ser-
vizio, e secondo che richiedeva l'obbedienza dovuta al ca-
pitano, erano i soldati obbligati di svernare dove il coman-
dante avesse l'atto costruire gli alloggiamenti, ed ivi fino alla
nuova campagna dimorai'e. Adunque l'esatta disciplina mi-
litare, l'ordine e l'accurata disposizione dell'esercito, la
costanza, l'intrepidezza d'animo nel non avvilirsi negl'in-
felici e sinistri successi ed il non superbire ne' prosperi ed
avventurosi, la felicità in quasi tutte le spedizioni militari,
la sapienza non meno nelle cose della guerra che nelle
civili, la temperanza e giustizia, ed un savio e discreto
governo, tutte queste virtù resero i romani superiori
alle altre nazioni, e fecero lor conquistare l'imperio del
mondo.
Facciamo ora paragone di queste virtù, di queste mas-
sime e costumi con quelli che al presente si veggono intro-
dotti in Italia, e li troveremo del tutto opposti. Noi scor-
geremo ninna cura o pensiero del pubblico bene, ma ciascuno
unicamente attendere al privato comodo ed utilità, e sfor-
zarsi soltanto a raggiunger dignità, ricchezze ed onori ; per
le quali cose, porsi in opra le arti più vili e le più sfacciate
adulazioni, e ciò nello scopo di vivere in maggiore splen-
dore, agiatezza, pompe, fasti e lussi, in giuochi, conviti ed
altri diletti. Quindi l'ambizione, la superbia, la perfidia, il
mancar di fede, l'avarizia, l'ingordigia ed i più detestabili
vizj tenere il campo. P] poiché la milizia pur troppo è per
natura avversa alla vita morbida e molle, perciò appunto
vediamo ormai essersi estinta e perduta allatto ogni militar
disciplina.
Tutto ciò non dobbiamo imputare che a noi stessi, alla
mala educazione de' giovani ed a' nostri pravi instituti : molti
intanto, ancorché abbiano massime antiche, amano piuttosto
vivere co' costumi moderni, che conformarsi alla pristina
rigida disciplina. Non é che in noi sia mutato clima o na-
tura. La natura è sempre la stessa, e serba un tener costante
nella produzione de' popoli e delle nazioni; a noi sol manca
la disciplina. Della qual cosa pruova evidentissima a questi
dì possiamo apprendere co' nostri propri occhi, se riguar-
deremo i Liguri presenti, e que' popoli alpini che formano il
ducato di Savoia. Certamente in Italia niun' altra gente è
rimasa che sostenga l'antica virtù ed il militar valore de' suoi
maggiori, fuori di questi popoli perseveranti ancora e duri
nella milizia, i quali, sebbene sotto altri nomi, non sono
che propagini e rampolli degli antichi liguri e delle alpine
genti, di cui più sopra si è fatta menzione.
118 SECOLO XVIII.
Quelli che ora cliianiianio piemontesi, nionferrini, lan-
glicsi, canavesi e simili, sono, come si è detto, gli antichi
liguri statielli, vagienni, salassi, taurini ed altri popoli della
Liguria; siccome que'che diciamo savoiardi, tarantasi, njau-
rianesi e simili sono gli antichi allobrogi, i seduni ed altri
popoli alpini. Or tutti questi sostengono ancor oggi, indurati
alle fatiche della milizia, l'antico valor d'Italia, perchè eb-
bero la sorte di essere esercitati nelle guerre sotto i prodi
duchi di Savoia loro principi.
Fu veramente in questa non meno antica che illustre
real famiglia il valore e Tarte militare quasi pregio pro-
prio ed ereditario, il quale con non interrotta successione
da padre in tiglio per più secoli fu continuato e non mai
intermesso. Quindi, come dal cavallo troiano, ne uscirono
tanti famosi ed insigni guerrieri, i quali nel coraggio e nella
grandezza d'animo non cederono a' maggiori capitani che
abbiano potuto vantare i greci ed i romani stessi. Lungo di
lor catalogo potrei qui tessere, ma il mio proposito noi com-
porta. Non posso però tacere di tre eroi, che a' nostri tempi
fecero vedere che nella nostra Italia
nulla manca, o sol la disciplina.
Questi furono l'invitto ed intrepido re Vittorio Amedeo II,
il quale ebbe l'ardimento non pur di resistere a* numerosi
eserciti del grande e potentissimo re Luigi XIV di Francia,
ma liberando Torino, vincerli, fugarli, e fare entrar quindi
le vittoriose sue bandiere fin dentro la Francia stessa. Le
orme di sì illustre capitano furono a" tempi nostri ricalcate
dal suo erede non men del sangue che delle virtù, dal non
men savio che coraggioso re Carlo Emanuele III, il quale
abbiam veduto, imitando le paterne gesta, a capo de' suoi
eserciti esporsi con intrepidezza a' maggiori pericoli, ed
avvalorando col proprio esempio gli animosi e forti suoi
soldati, riportare contro l'oste nemica piene ed illustri vit-
torie, ed al suo apparire ceder le armi e rendersi quelle
piazze di Lombardia già credute inespugnabili. Ma del terzo
chi avrà mai parole bastanti da accennar solo i magnanimi
e stupendi fatti? Io dico del grande, invitto, fortunato e
glorioso maggior capitano del nostro secolo, Eugenio di
Savoia; al cui solo nome abbiam veduto tremare l'ottomano
impero : principe che ha lasciato di sé in Europa trofei si
chiari e memorandi, che somministreranno agli scrittori ben
ampia e doviziosa materia
Di poema degnissima e d' istoria.
Ciò che io dico, maggiormente apparirà chiaro, se fa-
remo attenzione che V Italia, ancorché serva, ha prodotti
sempre capitani illustri ed insigni, i quali militando sotto
le bandiere o dell' Imperio o di Spagna o di Francia, ban
riportato i primi onori e gradi negli eserciti, e che por
ANTONIO CONTI. HO
senno, condotta e valor militare si sono resi immortali, e
la fama ne risuona e risuonerù. per sempre gloriosa nel
concetto e nelle bocche degli uomini. Basterà accennare
solo i Caralìi, i Caprara, i Montecuccoli, che si resero famosi
neir Alemagna e nelle Fiandre ; i Marchesi di Torrecuso
Caraccioli, i Cantelmi, e tanti altri nella Spagna ; i principi
Trivulzi nella Francia; i Farnesi nello Fiandre: e chi po-
trebbe mai annoverarli tutti? Questo esempio, che può dirsi
domestico, senz'andar molto lontano, de' principi di Savoia,
dovrebbero aver sempre innanzi agli occhi gli altri principi
d'Italia, per avvedersi che in Italia non si è scemato l'antico
valore : essi (restituendo ne' loro popoli la prisca militar
disciplina), vedran l'Italia sottratta da servitù, e ritornata
air antica gloria, facendo si che i loro sudditi abbiano il pre-
gio ed il piacere d'obbedire a principi nazionali, e di mili-
tare sotto le insegne de' loro proprj e naturali duci e si-
gnori. — (Dai Discorsi sugli Annali di Livio, ediz. cit.,
parte II, disc. 5°.)
ANTONIO CONTI.
Qiiest' illustre padovano, versato in ogni maniera di stiidj,
nacque il 22 gennaio 1G77. Discendeva da Sperone Speroni, il dotto
cinquecentista, di cui una figlia era andata sposa nei Conti di Pa-
dova. Abbandonata la carriera ecclesiastica, restò semplice abate.
Datosi tutto agli studj, si recò nel 1713 in Francia, ove conversò
di scienze con tutti i più illustri del tempo, e dopo due anni passò
in Inghilterra, ov'ebbe familiarità col Newton. Ferveva allora fra
il Newton e il Leibniz la disputa di priorità nella invenzione del
calcolo intìnitesimale, e il Conti, amico ad ambedue, cercò di farsi
mediatore fra essi; ma veramente riuscì soltanto a disgustarsi l'uno
e l'altro: era però più favorevole al Newton, che al Leibniz. Nel
1716 passò col re Giorgio in Olanda e in Germania, ma arrivato in
Annover trovò morto da pochi giorni il Leibniz, per conoscere per-
sonalmente il quale principalmente erasi mosso. Tornato in Inghil-
terra e poi di nuovo recatosi in Francia, dove fu amicissimo di
madama de Caylus, si diede più specialmente agli studj letterar.i,
interessandosi vivamente della letteratura francese, e partecipò,
molto apprezzato pe' suoi giudizj, alle questioni che più allora si
agitavano nei circoli colti di Francia: fra le altre, a quella tra
il De la Motte e la Dacier per O^ero. Ritornò di qua dalle Alpi
nel 172<3, e morì in Padova ai (j aprile 1740. Egli appartiene a
quella numerosa schiera d'italiani, che, per desiderio di parteci-
pare alla vita intellettuale europea, si davano ai viaggi all'estero:
fu uomo di cultura enciclopedica, se pur non tuttavia profondis-
simo in ogui disciplina.
120 SECOLO XVIII.
La molta applicazione e l'accumulata esperienza non diedero
in lui quel frutto che hc ne doveva attendere, e fora' anche la
troppa e varia dottrina gli fu d' ingombro e d'inciampo. Gli amici
suoi si meravigliavano della vastità degli argomenti ch'egli pren-
deva a trattare, per ciascun soltanto dei quali sarebbe occorsa la
vita d'un uomo. Ma se possedeva la vasta concezione, non aveva
ugualmente la perseveranza nel trattare appieno il tema da lui pre-
scelto: le molte cognizioni e il desiderio di accrescerle sempre,
distraevano di continuo la sua attività dall'uno all'altro argomento.
Poche cose pertanto lasciò egli compiute. Rimase appena abboz-
zato un trattato ch'ei meditava, e del quale bensì espose le linee
principali, sulla Bellezza. Abbiamo qualche altro suo scritto filo-
sofico (specialmente sul Parmenide di Platone), che è buona prova
dell' attitudine sua speculativa e critica. Alcuni scritti ci raccolse
col titolo di Prose e poesie (Venezia, Pasquali, 17.39): il 2" voi.,
del 1756, è postumo. Nel primo trovansi il Globo di Venere, sogno,
poema metafisico, e il Proteo, idilio ; e poi, cantate, sonetti, poesie
varie, traduzioni da Anacreonte, Saffo, Simonide, Callimaco, Ora-
zio, Virgilio, Catullo, e VAtalie dal Racine, preceduta da una Dis-
sertazione. 1\ secondo voi. racchiude frammenti e abbozzi di trat-
tati filosofici e letterarj, traduzioni dall' inglese e fra esse quella
del Riccio rapito di Pope (Parigi, 1728), del quale pur rese vol-
gare, in bei \evsì,V Epistola d'Eloisa ad Abelardo (Xapoli, 1760),'
lettere e prose francesi sulle donne, sulla natura d'amore, sulle arti
e le scienze, ec. Poeta di poca ispirazione, ha tuttavia nelle sue
traduzioni dei pregj non piccoli, ed il suo verso sciolto è nervoso
e robusto, e prelude a quello eh' egli stesso usò nelle tragedie. Il
Foscolo a questo proposito non risparmiò le lodi all'abate pado-
vano. Compose inoltre quattro tragedie di soggetto romano, nelle
quali volle rappresentare i momenti più rilevanti della storia di
Roma; e sono il Giunio Bruto, il Marco Bruto, il Giulio Cesare,
il Druso (Firenze, Bonducci, 1751), al quale doveva aggiungersi
il Cicerone. Migliori di tutte per artificio scenico sono il Giunio
Bruto e Giulio Cesare, eh' ei scrisse dopo aver letto il dramma
dello Shakspeare, non che il Cesare e il Marco Bruto del duca
dì Buckingamshire, che in parte imitò. ^ Ma se il Conti aveva pre-
sente il libero teatro dello Shakspeare, era però ossequente al
regolare teatro francese, e dal francese molto derivò, benché da
molte delle pastoje di esso sapesse disimpacciarsi. L' intento suo
non fu puramente di ricostruzione storica, come si provò a fare il
^ Vedi Zanella, A. Pope e A. Conti, nei Parali, leiter., Verona, Miiu-
ster, 1885, pag. 43.
^ Vedi A. Zardo, Un tragico padov. del sec. scorso, Padova, Raudl, 1881;
F. CoLAGROSSO, La prima tragedia di A. C, 2» ediz., Firenze, Sansoni, 1898:
A. Salza, L'ah. A. G. e le sue tragedie, Pisa, Nistri, 1858. Delle tragedie
del C. parla anche Ch. Dejob, Études sur la tragèdie, Paris, Colin, pag. 131
e segg.
I
ANTONIO CONTI. 121
Gravina; egli desiderava por l'Italia una tragedia storica, come
l'avevano gl'inglesi nelle opere del loro grande poeta: e il Conti
a quel suo idealo di tragedia, mista di materia storica e di inven-
zione poetica, si avvicinò maggiormente nel Druso, ultima delle
sue tragedie e pregevole per molte novità, e vi si sarebbe forse
anche più avvicinato nel Cicerone, se avesse svolto 1' abbozzo che
ne ha lasciato.
Di molte sue scritture sono andati smarriti i manoscritti, che
si trovavano presso una nobile famiglia del Veneto. Una scelta
delle sue prose edite e inedite fu fatta col titolo di Opuscoli filo-
logici da 13. Gamba (Venezia, Alvisopoli, 1832). Utile sarebbe la
conoscenza del suo epistolario con Italiani e stranieri, del quale
una piccola parte, e per quello che spetta soltanto agli Italiani,
fu fatta conoscere da P. Bettio, Lettere scelle di celebri autori
ad A. C. (Venezia, Fracasso, 1812).
[Vedi la lunga e particolareggiata Vita di lui scritta da G. Toal-
DO, e premessa al 2" voi. delle Prose e Poesie; e, sugli scritti in ge-
nere, GIOACHINO BrogNOLIGO, L'opera letteraria di ^. <?., in
Ateneo Veneto, 1894.]
Dante e Petrarca. — Termin.'xta con la lingua degli antichi
latini anche la loro poesia, Dante, il quale lìori dodici se-
coli almeno dopo Augusto, sentendo la forza e la bellezza
di una lingua ancor rozza, T applicò non a perfezionare il
romanzo o la poesia amatoria, non ad adulare i principi
del suo tempo, ma a spiegare nel modo più poetico quanto
v'era di più sublime e nascosto nella teoria rivelata e nella
(ìlosofia scolastica, ponendo per base il sistema della Mo-
narchia da esso ideata, e individuando i gradi delle pene
e de' premj dovuti al vizio e alle virtù, secondo i principj
del suo sistema, lo per me credo, che dai libri della Scrit-
tura che si chiamano poetici, i Salmi, la Cantica, le Pro-
fezie, l'Apocalissi, molto più che dagli autori profani ri-
cavasse lo spirito e il metodo della poesia di cui ci lasciò
il primo esempio. Quando attentamente si esamina la sua
Commedia, non si trova tra' latini o tra' greci alcuna com-
parazione, sia nel luogo, sia nel tempo, sia nell'azione imi-
tata. La scena di essa non è minor di tutto il creato e
dell'intiero sistema del mondo; poiché dal centro della terra
egli cammina per gradi sino a' pianeti, e da questi alle
stelle e al di la; e per dare unità alla scena (ciò che non è
stato osservato dai commentatori), facendo Lucifero di una
sterminata statura (per accennare la quale Milton gli diede
uno scudo uguale al disco della Luna, idea tolta da Vir-
gilio), Dante accresce in guisa la mole del suo corpo, che,
cadendo col capo in giù, dalla parte della zona non abitata
sloga tanta terra, ch'eleva la montagna del Purgatorio, la
quale si va a congiugnere co' pianeti. La zona torrida, ere-
122 SECOLO xviir.
cinta non abitata a' tempi di Dante, accresce la verisimi-
glianza del fantasma poetico ; e la gradazione degli sca-
glioni della montagna del Purgatorio non è meno mirabile
che quella de' gironi e delle bolge dell' Inferno, ove tutto si
misura geometricamente, e compone un'architettura tanto
più mirabile, quanto più orrida. Il Mazzoni prova a lungo
che questa Commedia non è che una specie di sogno esta-
tico. Ma quali ne sono le azioni? divisi i vizj e le virtù
ne' lor gradi, e individuati questi nelle persone, che il si-
stema della Monarchia vuol salve o dannate, assegna loro
con immagini fantastiche, corrispondenti all'individuazione
del grado, le pene ed i premj.
Come di tutto questo estatico viaggio, la poesia, la filo-
sofia morale, la teologia rivelata ne sono le guide, egli le
personifica in Virgilio, in Catone, in Beatrice, e dà l'esempio
della poesia o della creazione allegorica la più sublime, che
mai sia caduta in mente umana. Che il signor Adisson vanti
pure il ^oema. del Paradiso perduto di Milton come un poema
a cui nulla può compararsi, poiché in bellezza non cede al-
V Eneide, in grandezza s\V Iliade, in novità alle Metamor-
fosi, i poemi più pregiati che ci restano degli antichi ; tutto
sia vero. Ma Milton ha lavorato il suo poema sulle storie
e tradizioni rimasteci, laddove Dante tutto ha tolto dalla
propria idea, creando il luogo, il tempo, le azioni; e quel
eh' è prodigioso, laddove leggendo Milton tutta la maravi-
glia termina con la lettura, perchè tutta si confina all'in-
telligenza de' fatti della Scrittura, i quali seco non portano
che le allegorie loro connaturali; all'incontro, più che s'in-
terna a svelare i sensi della Commedia di Dante, più questi
multiplicano, e tutto ciò che ne ha detto il ?.Iazzoni e i com-
mentatori, non basta per discoprire né le allusioni satiriche,
né le politiche, né le mistiche, e molto meno le profondità
dell'arte poetica.
Tale é stato il primo poeta della lingua italiana; e se si
avesse, come osserva il Gravina, seguito l'ampio campo
che avea aperto ai poeti suoi successori, la poesia italiana
avrebbe più sublimità della poesia egizia, greca e latina,
senza avere alcun di que' difetti, che necessariamente v' in-
troduceva la superstizione e l' interesse.
Ma il Petrarca, il quale fiorì nel secolo di Dante, ade-
scato forse dall' applauso che aveano le canzoni amorose
de' provenzali, tra' quali lungamente visse, e stimolato dal-
l'amore di Laura, donna al pari bella che onesta, ristrinse
a quella sola passione l'italiana poesia, e riservò le cose
eroiche e scientifiche per la poesia e per la prosa latina.
Nelle due lingue egregiamente riuscì, perchè egli si consi-
dera quasi il primo ristauratore della eleganza della lingua
latina abolita, per non dir estinta, parte dalla barbarie
de' termini, parte dall' alTettazione d'uno stile declamatorio.
Nelle sue prose latine il Petrarca rinnovò il gusto delle
ANTONIO CONTI. 123
cose morali di Seneca e d'altri antichi; e per il suo poema
latino doWAf'rica, il Tasso lo preferisce nell' invenzione e
nella disposizione a Stazio e a Silio Italico. Molti crede-
rono che da queste opere il Petrarca sperasse l'immorta-
litìi del nome e che le sue poesie volgari non fossero altro
che un esperimento della sua abilità nella lingua italiana
ed un ozio dilettevole degli studj serj, ma non è Tacile il
persuadercelo, allora che diligentemente si considera con
qual industria egli applicò ciò ch'essi chiamavano idee pla-
toniche a purgare e nobilitare la passion dell'amore. Kgli
osservò che Dante trasportò dall'intimo seno della lilosorta
e dell'altre scienze molti termini e molte idee, che non
tanto recavano seco di novità quanto di dillicoltà, come dice
il Tasso, nò tanto di maestà quanto di oscurità e d'orrore,
massimamente perchè i concetti erano vestiti delle lor pro-
prie voci mescolate da Dante, o t'osse elezione o necessità
della materia trattata, tra i lìori onde è adorno il suo poema.
Il Petrarca scelse i concetti più puri, candidi, gravi ed
arguti e scelse le voci le più gentili e più delicate e più
soavi ; onde nelle sue poesie tutto ha non solo del sacro,
del venerabile, ma dei gentile e del delicato. Da' platonici
tolse non de' più dillicili ed incogniti affetti, ma de" più fa-
cili e limitati, più tosto da' limitari che dal centro della
tilosolia; ma con tanta modestia e cosi parcamente nella
poesia li trasportò, con tant'arte li temperò, di tali l'regj
li vestì ed adornò, che pajono non forestieri ma naturali
della poesia. Tutto questo studio senza dubbio fu una con-
seguenza d'avere ben inteso che il poeta deve dilettare, o
perchè il diletto sia il suo fiw.e, o perchè sia mezzo necessa-
rio ad indur il giovamento. 11 buon poeta, dice il Tasso, non
è colui che non diletta; né dilettar si può con que' concetti
che recano diilìcoltà ed oscurità, perchè necessario è che
l'uomo affatichi la mente intorno l'intelligenza di quelli;
ed essendo la fatica cc-n trarla alla natura degli uomini e
degli Dei, ove fatica si trovi, ivi per alcun modo non può
diletto ritrovarsi. Cosi fecero gli antichi poeti Pindaro, Saffo,
Anacreonte, Omero, Orazio, Tibullo e Catullo; ed il Petrarca,
studiandoli, ricavò da loro la vera indole della poesia ita-
liana e tolse dalla passion dell' amore tutto ciò che avea
di rozzo e di vile nelle poesie de' latini, elevandola all' idee
platoniche cosi morbidamente maneggiate e felicemente ap-
plicate, che il carattere di Laura, sia per ciò che riguarda
la bellezza del volto, l'onestà degli atti esterni, la saviezza
e gentilezza delle parole, sia delle virtù dell* intelletto o
del cuore, infiamma alla virtù e diventa il più utile esempio
della morale. — (Dal Frammento intorno alla poesia ita-
liana, in Poesie e Prose, voi. II, p. 228.)
124 SECOLO XVIII.
FERNANDO ANTONIO GHEDINI.
Ncicque in Bologna ai 19 agosto 1084. Studiò scienze, e fu lau-
reato in medicina; appartenne all'Istituto, del quale fu anche se-
gretario; ma non trascurò gli studj letterarj, e fu sollecito a sco-
starsi dal mal gusto del Secento. Stette tre anni (1710 e segg.) a
Venezia, come maestro del figlio d(;l principe Caraccioli, amba-
sciatore spagnuolo, che lo condusse seco in Spagna, donde ritornò
nel 1715, trattenendosi alquanto a Roma. In patria fu fatto pro-
fessore di Scienze naturali; e poi di Eloquenza nel Collegio luc-
chese. Morì il 28 gennaio 1768. Le sue Hime furono stampate a Bo-
logna (Sassi, 1769): alcune sue Lettere si trovano nella raccolta di
Lettere d'ale, bolognesi del nostro secolo (Bologna, Della Volpe, 1 744;.
[Per la biografia, vedi V. C. Alberti, De vita F, A. Gh., coyn-
mentarius, Bouonise, Sassi, 1771.]
Roma.
Sei pur tu, pur ti veggio, o gran latina
Città, di cui quanto il sol aureo gira,
Né altèra più né più onorata mira,
Quantunque involta nella tua ruina !
Queste le mura son, cui trema e inchina
Pur anche il mondo, non che pregia e ammirai
Queste le vie per cui con scorno ed ira
Portar barbari re la fronte china!
E questi che v' incontro a ciascun passo,
Avanzi son di memorabil opre,
Men dal furor che dall'età securi !
Ma, in tanta strage, or chi m'addita e scopre
In vivo spirto, e non in bronzo o in sasso,
Una reliquia di Fabrizj e Curj ?
PAOLO ROLLI.
Nacque in Roma nel 1687. Fu dapprima improvvisatore; ed es-
sendo piaciuto a lord Steers Sarbruch, nel 1715 questi se lo con-
dusse a Londra, ove fu maestro d'italiano alla famiglia del re e
venne ascritto alla Società reale. Ivi scrisse dieci drammi per
musica, che non sono delle cose sue migliori; e curò edizioni di
testi italiani, il Decamerone fra gli altri. Nel 1747 tornò in Italia,
invitando a seguirlo le Muse:
Troppo già seguitandomi, o belle,
Dilettose Castalic sorelle,
l^AOLO ROLLI. 125
Siete fuor Jell' ausonie contrade:
Troppo ò sì che la vostra natia
Soavissima ijjnota armonia.
Qual rugiada in arena so n' cado.
Aiir puro di clima sereno,
Chiaro sol, cheto mar, suolo ameno
Vi richiamano a lieto ritorno.
Ove intesa è dolcezza di canto
Ove ogn'alma ne sente l'incanto
Do le Muse ò il verace soggiorno.
Ripassate dell'Alpi le brume. . . .
Si fermò a Todi, doiule era nativa la madre, od ivi mori il
20 marzo 1705.
Molto ei tradusse: da Virgilio la Bucolica, da Anacrcontc le
Odi, da Kacine V Ester e V Alalie, da Milton il Paradiso jjerdnto
(Londra, 1735). Meglio riuscì nella lirica (1'^ ediz. col titolo Com-
ponimenti 'poetici, Londra, Pickard, 1717: edizione più compiuta,
Nizza, 1782) trattando l'Ode, l'Elegia, la Cantata, ma riuscì spe-
cialmente nelle Canzonette, in che rivaleggiò col Metastasio, anzi
secondo alcuni, ad esempio, secondo il liertòla e il Carrer, lo su-
però in eleganza. Queste sue poesie mollemente musicali, anche
quando non avessero propria accompagnatura di musica, furono
per la loro facilità e dolcezza notissime a' loro tempi e da tutti
gustate. Del luogo che a lui spetta fra i poeti del Settecento,
parla ottimamente il Carducci nella Prefazione ai Poeti erotici
del sec. XVIII, Firenze, Barbèra, p. xxvui e segg. (e col titolo
I corifei della Canzonetta nel sec. XVIII, in MORANDI, Antol. della
crii, mod., p. 546).
[Per la biografìa, vedi le Memorie poste dall'ab. G.B. Tondini
in fronte al Marziale in Albion del Rolli, Firenze, Moiicke, 1770. J
La Lontananza.
Solitario bosco ombroso,
A te viene aOlitto cor,
Per trovar qualche riposo
Fra i silenzj in qiiest'orror.
Ogni oggetto ch'altrui piace
Per me lieto più non è :
Ho perduta la mia pace,
Son io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
Dite, piante, è forse qui ?
Ahi ! la cerco in ogni loco ;
E pur so eh' ella parti.
Quante volte, o fronde grate,
La vostr' ombra ne copri !
120 SECOLO XVIII.
Corso d'ore sì beate
Quanto rapido l'u^f^i !
Dite almeno, amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò:
Ah ! clie r eco mi risponde,
E mi par clic dica no.
Sento un dolce mormorio :
Un sospir forse sarà ;
Un sospir delT idol mio.
Che mi dice : tornerà.
Ah ! eh' è il suon del rio, che frange
Tra quei sassi il fresco umor,
E non mormora, ma piange
i^er pietà del mio dolor.
Ma, se torna, vano e tardo
Il ritorno, oh Dei!, sarà;
Che pietoso il dolce sguardo
Su '1 mio cener piangerà.
Autunno.
Della noiosa estate
Finita è la stagion,
E lunge dal leon se n' vola il giorno.
Non più del caldo sole
L'agricoltor si duole,
E lieto mira il suol di grappi adorno.
Le tigri pose al carro
Di Semele il figliuol,
E scende col suo stuol dalla montagna :
Seco è rallegro Autunno,
E il vario Vertunno
Co' satiri e silvani Y accompagna.
Su '1 tardo suo giumento
Lo seguita Silen,
E un satiro il sostien perchè non cada :
E cento satiretti
Con fauni e silvanetti
Scherzano seco e danzan per la strada.
Vezzose ninfe belle.
Lieto il bel nume appar :
Gitelo ad incontrar ; per voi ritorna.
Pane pur seco viene
Con l'incerate avene;
E i grappoli gli pendon dalle corna.
Ciascuna il suo cestello
Pien d' uve porterà
Dove la corba sta, Anch' ella è piena ;
Poi tutte a franca mano
Ammostino il silvano,
PAOLO ROLLI. 127
Dopo clie glie n'avran carca la schiena.
(juell'uva moscatella
Non mi toccate no,
Perchè serbarla io vo' per la mia bella :
So che fra gli altri tutti
Più delicati frutti
Quest'è il più caro al bel labbro di quella.
Mirate come vaga
Incontro a Bacco vien,
Nuda il bel collo e il sen in vesta d'oro :
D'Amor la madre pare
Allo fattezze rar-e,
Seguita dalle Grazie e dal Decoro.
Le nacchere e i tamburi
Han poi da strepitar
In danze a festeggiar si grato giorno :
Lasci i lavori e il suolo
Tutto il campestre stuolo,
E in lieto giro aflolli il prato adorno.
Fan la siringa amata
Dal fianco scioglierà,
E dolce le dai'à liato sonoro :
La ninfa mia diletta
Sulla fiorita erbetta
Guiderà i balli del silvestre coro.
Tu, Cerilo gentile.
De' fichi a coglier va' ;
Il desco imbandirà, Gerisca ardita :
Ma eh' abbian tutti bada
Lacrime di rugiada,
Il collo torto e la veste sdrucita.
Due bei mellon di Sezza
Messio ne porterà,
Ei che gli arcani sa del Dio di Delo :
Pesano ed han la rosa
Intatta e spaziosa.
Gettai! gradito odore, e han grosso stelo.
Ho poi di Monte Porzio
Vin di quattr' anni ancor.
Me 'l die del suo signor la bella prole :
Ha un non so che mordace
Che punge si ma piace,
E sparge un odor grato di viole.
Lungi dall'aspre cure
Lieti vivrem cosi,
E segnerem più di con bianca pietra.
Timor, tristezza, aIYanno
Fuggono donde stanno
Cuor lieto, dolci carmi e suon di cetra.
128 SECOLO XVIIT.
FRANCESCO MARIA ZANOTTI.
Intelletto nudrito della più svariata cultura, insigne egualmente
nelle scienze e nelle lettere, Francesco Maria Zanotti, ultimo figlio
dell'attor comico Andrea e fratello a Gian Pietro, nacque il G gen-
naio 1G'J2 in J^ologna. Studiò dapprima la filosofia, indi le leggi,
ma non vi continuò per nobil disdegno che nelle scuole s'insegnasse
a ùiv parer bianco il nero e nero il bianco: alle lettere e alla poe-
sia fu avviato dal Ghedini, alle matematiche dal Manfredi, che pur
lo volle suo compagno in commissioni idrauliche. Nel 1718 venne;
eletto professore di filosofia nella patria università, e v'introdusse
le nuove dottrine di Cartesio e di Newton. Nel 1723 fu fatto segre-
tario del patrio Istituto di Scienze, creato dal Marsigli, e nel 17GG,
presidente: e ne scrisse in otto volumi la storia e i commentar]
(Bohonise, 1731 e segg.), riassumendo con precisione e con elegante
latinità i lavori e le esperienze proprie ed altrui. Recatosi a Koma
pel giubileo del 1750, ed ivi accolto e festeggiato dai dotti e dal
suo concittadino papa Lambertini, ebbe l'incarico di recitare in
Campidoglio una Orazione in lode della pittura, della scultura e
dell' architettura, alla quale per bizzarria fece seguire, come in
nome d' altri, una seconda, in che se ne impugnavano le ragioni, e
una terza che difendeva la prima (Bologna, Della Volpe, 1750;.
Prese parte ad una questione di fìsica, che allora agitavasi fra i
seguaci di Cartesio e quelli del Leibniz, e che il D'Alembert provò
esser meramente di parole, scrivendo tre Dialoghi italiani della
forza dei corpi che chiamano viva (Bologna, Della Volpe, 1752); e
poi Sulle forze centrali una dissertazione latina (Bologna, 1762), e,
pur per bizzarria e come da un originale francese, che non esisteva,
il trattato italiano Della forza attrattiva di quelle cose che non
sono (Bologna, 1774). Scrisse pure la Filosofia morale (Bologna,
Pisarri, 1754), in che si attiene più specialmente ad Aristotile, non
senza qualche mescolanza di platonismo, e alla quale si congiunge
un i?a^io?iame?iio sulle dottrine morali del Maupertuis; ed avendo
in questo difeso gli stoici, ebbe per ciò una lunga disputa col pa-
dre domenicano Ansaldi (Venezia, 1763). Ricordiamo ancora un suo
libro Dell'Arte poetica, scritto ad istanza di una nobil donna (Bo-
logna, 1768), anch'esso sulle orme aristoteliche ; una Grammatica
della lingua volgare, oltre ad altre cose minori, e poesie latine
ed italiane (Firenze, Paperini, 1734). Alle Lettere sue già stam-
pate fra quelle d' Alcuni bolognesi del sec. XVIII e nelle Opere
dell'Algarotti (voi. XI-XII), altre se ne aggiunsero dappoi: al-
cune al Morgagni per cura dello Schiassi (Bologna, Sassi, 1826); e
l'intero Carteggio fu poi messo fuori da G. ROCCHI nel 1875 (Bolo-
gna, Zanichelli): nel 1849 a Bologna sei lettere ad Angelo Fabroni
e a Lucca nel 1857 altre ventisette. Sei se ne trovano nella raccolta
di C. MalaGOLA, Leit. ined. di illustri bolognesi (Bologna^ Roma-
FRANCESCO MARTA ZANOTTI. 129
fenoli, 1875, II, 249). Tutte le sue scritture furono dal Palcani, affet-
tuoso discepolo, raccolte in nove volumi (Bologna, 1779 e segg.).
Due grossi volumi di sue Opere scelte diede fuori a Milano nel 1S18
la Tipografia dei Classici italiani.
Lo Zanotti lavorò e scrisse fino alla vecchiaia; negli ultimi
anni, a chi lo dimandava che cosa ei facesse, rispondeva: studio
la mia lingua. Nella quale fu peritissimo, congiungendo insieme
perspicuità e lindura, e con urbana dignità temperando lo stile
degli antichi e quello proprio de' tempi moderni. Ebbe intelletto
acuto, sottile, e alquanto portato al paradosso: di tal nome infatti
intitolò alcuni suoi pensieri: ed è anche da vedere il libretto di
G. Casali, Alcuni pensieri e detti filosofici scherzosi di F. M. Z«-
?jo//i (Venezia, 1799). Fu socio delle Accademie di Berlino e Lon-
dra, stimato dal Fontanelle e dal Voltaire, che gli scrisse volere
che si incidesse sulla sua tomba: Qui giace uno che volea veder
l'Italia e lo Zanotti. Morì ai "Jó dicembre 1777.
[Per la biografia, vedi la vita scritta dal Fabroni, nel V voi.
delle Vilce Halorum, e quella del Reina nella cit. cdiz. dei Clas-
sici.]
Idea del perfetto fliosofo. — Io mi sono assai volte moco
stesso maravigliato, signor Giambattista carissimo,* per
qual cagione, avendo tanti eccellentissimi scrittori descritta,
chi in nn genere e chi in un altro, la l'orma dell'ottimo, in
cui gli uomini riguardando conoscer meglio potessero le lor
mancanze, e correggendosi a norma di quelle farsi più por-
letti o migliori; a ninno, ch'io sappia, sia venuto in animo
di descriver la forma del filosofo perfettissimo. Perchè, co-
minciando dai tempi antichissimi e risalendo alle memorie
ultime delle lettere, noi troveremo che i poeti, i quali pare
che siano stati i primi a svegliar gli uomini ed incitargli
alla virtù, hanno sempre avuto una certa maniera di poesia,
da essi chiamata epopea, nella quale sotto la specie di un
(|ualche eroe hanno inteso di mostrare agli uomini la forma
di un perfettissimo principe e condottiero. E pare che Se-
nofonte, fìngendo di scriver l'istoria del re Ciro, abbia vo-
luto imitarli; essendo opinione di molti che egli, esponendo
le azioni e le virtù di quel re gloriosissimo, non tali le
esponesse quali furono, ma quali a lui pareva che esser
dovessero. Platone propose la forma d'una perfetta repul)-
blica, e fu seguito nello stesso argomento da Cicerone, il
quale vi aggiunse anche quella dell'ottimo oratore. Nò poi A
Quintiliano astenersi dal descrivere la medesima, quantun-
que l'avesse descritta Cicerone. E per lasciare gli antichi,
venendo ai tempi ultimi et a' nostri, voi sapete che il conte
Baldassar Castiglione espose in quattro libri la perfetta cor-
^ Il discorso ò diretto al celebre anatomico G. B. Moit^agui.
IV.
130 SECOLO XVIII.
tegiania, per cosi fatto modo, che parve ninna cosa potere
immaginarsi né più bella, né più nobile, nò più magnifica
(li quel suo Cortegiano; il qual però avrebbe, cred'io, ceduto
al vostro Anatomico, se come voi lo adombraste una volta
in una vostra bellissima orazione, cosi aveste poi preso
cura di vestirlo et ornarlo, e farlo vedere agli occhi degli
uomini ricco e fornito di tutte quelle doti e qualità, che ad
un sommo anatomico si convenissero. Ma voi, distratto dalle
vostre moltissime e gravissime occupazioni, avete voluto
piuttosto essere queir eccellentissimo anatomico che for-
mavate nell'animo, che descriverlo. Se dunque la forma e
la natura delTottimo ha tirato a sé lo studio e l'attenzione
di tanti valentissimi scrittori nelle arti nobili e liberali, e
se alcuni l'hanno seguita eziandio nelle più vili e plebee,
essendo stato un francese che ha descritto con somma ac-
curatezza la forma del perfettissimo cuoco, parca ben ragio-
nevole che alcuno prendesse a descrivere e formar l'imma-
gine di un sapientissimo filosofo, a cui nulla mancasse, e
in cui nulla desiderar si potesse. Ma io credo, due ra-
gioni principalmente aver distolto gli uomini da ciò fare ;
delle quali la prima penso che sia la grandissima e somma
difficoltà di istituire questo filosofo cosi perfetto. Perciocché
se nelle altre discipline che sono più anguste e ristrette,
pur è difficile scorgere quell'ultimo grado di perfezione a
cui posson giungere, quanto più lo sarà nella filosofia, la
qual vagando per tutte le cose che in mente umana cader
possono, non ha confine né limite alcuno? Che se ognuna
di quelle, per esser perfetta, ha bisogno delle altre disci-
pline a lei propinque, da cui però sol tanto prende quanto
le basta per esser più bella et ornarsene, che diremo della
filosofia, che vuol professarle et esser maestra e direttrice
di tutte? Onde si vede a lei richiedersi molto maggior
dovizia di cognizioni e di lumi, che a qualsivoglia altra.
E certo non potrà alcuno, non che filosofo perfettissimo, ma,
a mio giudicio, né pur filosofo chiamarsi, se egli non avrà
una molto acuta e profonda dialettica, per cui possa e de-
finir le cose prestamente, e distinguerle e distribuirle, e
trovar gli argomenti, conoscendone il valore e la forza, e
sapendo misurare la loro probabilità, e contentarsene, qua-
lora non possa giungersi all'evidenza; ricercando poi l'evi-
denza in quei luoghi, ove qualche speranza ci se ne mostri,
e non far come quelli i quali, assueti all'evidenza dei ma-
tematici, soffrir non possono le ragioni probabili dei giuristi;
ovvero, avvezzi alla probabilità dei giuristi, si nolano delle
ragioni evidenti dei matematici : nel che errano cosi gli uni
come gli altri. Et anche dovrebbe, per esser degno del nome
di filosofo, sapere perfettamente tutte le fallacie; perchè,
sebbene è vergogna talvolta l'usarle, è però molto mag-
gior vergogna, essendo usate da altri, il non saper svol-
gerle e discoprirle. Né con tutta questa scienza però sarà
I
FRANCESCO MARIA ZANOTTI. 131
gran fatto il filosofo da apprezzarsi, se egli non se ne ser-
virà, a conseguire le altre, e non avrà, in primo luogo,
compresa nell'animo la varietà e l'ordine e la bellezza di
tutte le cose intellettuali, che chiamansi metafisiche: le
quali alcuni disprezzano avendole per insussistenti e vane;
ma se pensassero, niuna cosa presentarsi giammai all'animo
né più manifesta né più ferma et immutabile delle forme
universali ed astratte, e niente esser più certo che quei
principj e quelle verità, che da esse a tutte le scienze de-
rivano; io non so perchè molto più stimar non dovessero
quelle cose che essi chiamano insussistenti e vane, che non
quelle che essi chiamano vere e reali. E certo che la me-
tafisica ci aprì ella sola da principio e discoprì quella bel-
lissima e importantissima disciplina, che può dirsi il maggior
dono che la natura abbia fatto agli uomini ; voglio dir la
morale; la qual se il filosofo non saprà, nò avrà cognizione
delle virtù né dei vizj, né saprà ragionare del fine del-
l'uomo nò della felicità, io non so che voglia egli farsi
della sua filosofia. E quantunque la perfetta conoscenza
della morale possa da sé sola innalzare il filosofo sopra gli
altri uomini, e farlo, per così dir, più che uomo, egli non
dovrà però esser privo né della scienza economica, né della
politica e dovrà saper giudicare rettamente dei costumi e
delle usanze, tanto domestiche quanto pubbliche, perché do-
vrà essere peritissimo eziandio della giurisprudenza. E quanto
a me, se io dovessi formarlo a mio modo, io vorrei che fosse
anche eloquente: e ciò per due ragioni, delle quali la prima
si é, per poter adornare le altre parti della filosofia ed
esporle con bel modo ; perchè sebbene sono stati molti filo-
sofi che hanno trascurato ogni ornamento del dire, io non
credo però che ne sia stato alcuno mai tanto rozzo, che po-
tesse la sua rozzezza piacergli. L'altra ragione si è, che io
tengo che l'eloquenza sia una parte della filosofia essa pure;
poiché se credesi comunemente che alla filosofia si appar-
tenga il sapere come si educhino le piante e si lavorino i me-
talli, per qual ragione non dovrà ella anche sapere come e
per quai mezzi si lusinghino gli animi umani, e si eccitino
e si movano? E per quest* istessa ragione, niente mi ma-
raviglierei se quel perfettissimo filosofo, che noi andiamo
ora mimaginando, volesse essere anche poeta. E certo,
avendo ey:li quella tanta cognizione che noi vogliamo che
abbia, di dialettica, di metafisica, di morale, avrebbe un
grande aiuto ad essere un dottissimo poeta e un oratore
eloquentissimo. E noi sappiamo che Cicerone, prezzando
poco i documenti della rettorica, niuna cosa stimò essergli
stata tanto giovevole a divenire quel grandissimo oratore
che era, quanto lo studio delle sopraddette scienze ; et esa-
miuando una volta, qual filosofia fosse a questo fine più ac-
H| comodata dell'altre, antepose a tutte quella dei peripatetici
132 SECOLO xviir.
com'era, non già dalle ollicinc dei retori, ma dagli spazj
dell'Accademia. La qual cosa considerando io talvolta meco
stesso, e pensando che (jiieir antica lilosolia partorì pure
al mondo un cosi eccellente e cosi divino oratore, non so
comprendere come molti se l'abbiano per una filosofia inu-
tile e da sprezzarsi. Lascio stare che tanti altri oratori e
poeti valorosissimi e sommi uscirono da quelle medesime
scuole. Ma ritornando al nostro filosofo, molto ancora gli
mancherebbe, se e^rli non possedesse perfettamente tutte le
parti della fisica; nella quale entrando, io vorrei che egli
non solamente andasse dietro a quelle cose che per li sensi
ci si manifestano, ma procedesse oltre con l'intelletto, e
cercasse anche i principj e le cause che ci si manifestano
per la ragione ; soddisfacendosi di quella probabilità che
lianno, giacché all' evidenza non possono giungere, né i-i-
traendosi da questo studio per paura che quella opinione,
che oggi par probabile, potesse una volta trovarsi falsa.
Perciocché il pretendere che ciò che si dice, non debba po-
ter esser falso, è una pretensione superba, e conveniente
piuttosto a un Dio che a un filosofo; e quegl'istessi che,
trasportati da una tal vanità, per essere sicurissimi di ciò
che afl'ermano, professano di non volere attenersi se non
alle esperienze e alle osservazioni, volendo poi ridurre i
ritrovamenti loro a leggi universali e costanti, che debban
valere in tutte le cose, eziandio in quelle che non hanno
mai osservate, cadono anch'essi nel pericolo della proba-
bilità; la qual probabilità se non volesse seguirsi per paura
di errare, non potrebbono più né i medici curar gli infermi,
nò i giudici diflinire le cause; e si leverebbe del mondo
ogni regola di buon governo. Io vorrei dunque che il filo-
sofo sapesse tutti i sistemi, almeno i più illustri, per se-
guir quelli che fosser probabili, se alcun tale ne ritrovasse,
e rigettar quelli che non fossero : i quali però saper si deb-
bono, benché si vogliano rigettare; anzi rigettar non si
dovrebbono senza saperli ; che è cosa da uom leggiero, ri-
gettar quello che non si sa. E già la fìsica stessa, mostran-
dogli i suoi sistemi, et istruendolo delle sue esperienze et
osservazioni, e manifestandogli le sue leggi, non è da du-
bitare che non gli aprisse anche la chimica, la medicina, la
notomia, e noi conducesse ne' vasti campi di tutta 1" istoria
naturale. La qual fìsica vorrebbe però sempre aver seco la
geometria e l'algebra, con le quali spessissime volte viene
a deliberazioni e si consiglia; e sono esse tuttavia perso
medesime bellissime scienze e nobilissime, et oltre a ciò
amicissime della metafisica, da cui credono esser nate. Cosi
che io esorterei il filosofo ad assumerle anche per lor m^--
desime ; perchè assumendole solo in grazia della fìsica, po-
trebbono, e giustamente, averselo a male. E queste poi lo
introdurrebbono alla meccanica, all'optica, all'astronomia:
delle quali discipline dovrebbe il filosofo essere peritissimo.
CARLO INNOCENZO FRUGONI. 133
Parrà forse ad alcuno che io sia fastidioso e poco di-
screto, volendo imporre al filosofo tanto peso di studj e di
cognizioni, che non è persona al mondo che portar lo po-
tesse. Ma se eglino pensassero che io non lo impongo a
loro, né a veruno di quelli che essi conoscono, ma ad un
lilosofo che vorremmo imaginarci e fìngere, e che dovendo
superar tutti gli altri nella virtù e nel sapere, vogliamo
ancora che gli superi nella memoria e nell'ingegno; credo
che facilmente mi perdoneranno, et anche mi scuseranno,
se io vorrò che, sapendo egli tutte le scienze che abbiamo
dette, e molte altre, sappia ancora l'istoria loro, e come
nacquero tra gli uomini e crebbero, e passarono in varj
tempi e varie nazioni, e con quali aiuti e per quai mezzi
a tanta autorità e gloria s'innalzarono; che, oltreché è con-
veniente a qualunque professore il sapere gli avvenimenti
dell'arte sua, questo singolarmente è proprio della filosofìa;
perciocché l'istoria dell'altre scienze non è una parte di
esse, né é parte della rettorica l'istoria della rettorica, nò
della dialettica l'istoria della dialettica; ma l'istoria della
filosofia, che tutte le altre comprende, sembra essere una
parte della filosofia stessa. Imperocché se i filosofi consi-
derano con tanta attenzione gli altri animali, e notano di-
ligentemente e raccolgono le loro azioni e tutte le loro
industrie, e questa istoria pongono tra le parti della loro
scienza; io non so perché non debbano porvi anche l'istoria
degli scienziati e di lor medesimi : tanto più che sono essi
più nobili degli altri animali, essendo dotati di ragione, et
avendola più anche degli altri uomini coltivata. Ma la-
sciamo ormai di raccogliere tutte le infinite qualità e doti,
che a quel filosofo che noi vorremmo veder descritto ec-
cellentissimo e sommo si richiederebbono ; acciocché non
paia cir io voglia formarlo io, e presuma far quello che ho
detto non essere fino ad ora stato fatto da ninno, a cagione
della grandissima difiicoltà. Sebbene io credo che anche
un'altra ragione abbia distolto gli uomini dal farlo; e que-
sta é, perché nò potrebbe farlo chi non fosse filosofo, né chi
fosse, facilmente vorrebbe; essendo la forma del filosofo
perfettissimo una cosa tanto grande e magnifica e divina,
che non ò alcuno cosi dotto in filosofia, il qual mirando in
(luella imagine, non si dovesse vergognare di sé medesimo.
— (Dal libro II Della Forza de' ("orpi che chiamano viva.)
CARLO INNOCENZO FRUGONI.
Nacque in Genova di famiglia patrizia, ma decaduta, ai 21 novem-
bre 1692. Studiò presso i padri Soniaschi e a sedici anni lasciatosi
indurre € a pronunciare i tremendi voti » fu, ci dice « cattivo clau-
Btralc, poiché fatto per forza. » Professò lettere a Brescia, a llonin,
134 SECOLO XVIII.
ove dal Gravina ebbe conforti a poetare, a Genova e a Bologna: il
cardinal Bentivoglio, traduttore di Stazio, lo prese a proteggere, e
dopo averlo raccomandato ai Farnesi di Parma, gli ottenne, anche,
da Clemente XII, di poter svestir l'abito claustrale (1731), restando
semplice abate. Le vicende politiche, cui Parma andò soggetta,
lo fecero restar privo d'ogni sussidio, sicché si rifugiò a Venezia,
ma al venir dei Borboni (1749), tornato a Parma, ebbe il favore
di Don Filippo e del ministro Du Tillot, e fu fatto maestro dei
ducali Infanti, poeta di corte, ispettore degli spettacoli, segreta-
rio dell'Accademia di Belle Arti. Cosi visse quieto e felice sino
al 20 dicembre 1768, compartendo i suoi giorni fra la poesia e la
galanteria, perseverando impenitente nell' una e nell' altra, augu-
rando che la voce e la vita in me a^ estingua (Sciolti a Caterina II),
assiduo corteggiatore e costante patito di belle signore,' caro ai
potenti, esempio e invidia ai poeti novellini.
La sua maniera segna una terza ed ultima forma della poesia
arcadica (ebbe in Arcadia il nome di Cornante JEginetico), che rin-
calzò di un po' più di « sensibilità » propria de' tempi, e con un
suono del verso or più robusto e sonante, or di una languidezza,
che parve semplicità e molte volte è sciatteria. Trattò tutti i me-
tri, ma riuscì meglio nella canzonetta pastorale e mitologica, con-
tinuando in peggio il Rolli e il Metastasio; il verso sciolto di sua
fattura, che il Bettinelli propose fra gli eccellenti, merita V epi-
teto di poltroneria, che gli diede il Baretti, il quale per dileggìo
intitolò il Frugoni Principe dei versiscioltaj. Gli si potrebbe per-
donare, se fosse vero che all'apparir del Giorno del Parini con-
fessasse di non averne mai saputi fare. Infelicemente tentò il ge-
nere drammatico: che gli mancava il fiato a lunghi componimenti,
né poteva immaginare se non tenui scenette. Il suo verseggiare è
ora tumido e fragoroso, ora scherzoso e tenue: paragonabile nel-
l'un caso a gonfio torrente, nell'altro a garrulo ruscello: ma è
quasi sempre acqua, or lutulenta, or scipita. Fecondissimo ver-
seggiatore, scrisse su svariati argomenti, il più spesso però frivo-
lissimi: per nascite, battesimi, nozze, onomastici, compleanni, mo-
nacazioni, lauree, morti, guarigioni : per principi, principesse, pa-
trizj, dame: lodatore di cagnette, di canarini, di gatti, di galli:
poeta essenzialmente da raccolte, ch'erano la maggior produzione
letteraria del tempo, a cui i migliori ingegni erano obbligati dal-
l' uso e dalle clientele, i minori invitati da vanagloria di appagarsi
con quelli. Le sue poesie facete e satiriche sono goffe e plateali:
le erotiche, lascivette, quando non sieno addirittura procaci: non
certo da rigido sacerdote, ma da abate svenevole del secolo XVIIL-
Era, più ch'altro, un felice, e a volte, buon improvvisatore, che
aveva sortito, com'ei disse, « certo dono facile di cantare; » però,
' Vedi Mazzoni, In hihlìotem, Bologna, Zanichelli. 1886. pag. 3.
2 A. Neri, in Passatempi letter., Genova, Sordo-muti, 1882, pag. 173,
CARLO INNOCENZO FRUGONI. 135
a momenti, si teneva per gran poeta, e innovatore, e sperava l'immor-
talità: asseriva che Orazio negli Elisi lodava i suoi versi (L'ombra
di Pope) e le Grazie attente li ascoltavano (La Colomba). Ebbe tut-
tavia miglior coscienza del suo valore quando, negli ultimi anni,
al Fabroni, che gli chiedeva notizie della sua vita, rispose: «Chi
Hon io ? verseggiatore e nulla più, non poeta » e quando ebbe
a scrivere: i versi miei Tutti col viio viorire Sconosciuti mor-
ranno {Opere, IX, 138). Ma a' suoi tempi, e anche un po' dopo,
conseguì gran riputazione. Il Monti lo chiamò padre incorrotto di
corrotti figli; ma i figli non erano punto degeneri dal padre. Ora
appena di lui « si pispiglia, » e meritamente ; esempio del poter
della moda in età frivola, ebbe, come dice il Bertana, esuberante
vivacità d'ingegno, ma fu « traviato dalla miseria de' tempi e dalla
necessità della sorte. »
Le sue Opere poetiche furono in 10 voi. stampate a Parma
(Stamperia Reale, 1779), e a Lucca in 15 voi. (Bonsignori. 1779-80):
da essi fu tratto il meglio, prima da G. Cocconi, che ne fece
4 voi. stampati a Brescia (Berlendis, 1782), con un Proemio, e
poi da F. Soave, che vi premise una Vita e un Discorso (Venezia,
Storti, 1793,4 voi.); ma quattro volumi sono sempre troppo, e una
scelta parca e giudiziosa dei versi del Frugoni fece il Carducci,
nei Poeti erotici del secolo XVIII (Firenze, Barbèra, 1878). Alcune
sue Lettere inedite al Fabroni furon stampate da A. Bertoldi (Forlì,
Bordandini, 1891), ed altre, ivi pure nel 1892, da G. Mazzatinti;
una al Loschi da G. Zanoni per nozze Flamini-Fanelli (Roma,
tipogr. elzevir., 1895) e dal medesimo: Lettere e Rivie inedite,
(Roma, tipogr. poliglotta, 1895); quelle pubblicate da A. Tambel-
LINI nella Rivista romagnola, I, riguardano il serotino amore di
lui per Cornelia Barbaro-Gritti.
[Per la biografia, vedi le Vitce del Fabroni, I, 160; V Elogio
di G.Rezzonico, Parma, Bodoni, 1772, e \e Memorie premesse da
lui alla cit. ediz. parmigiana; A. Cerati, negli Elogi italiani rac-
colti dal Rubbi, Venezia, Marcuzzi, 1782, voi. III; V Elogio di
Pell. Salandri in Race, di Prose e Leti, del sec. XVIII, Mi-
lano, Classici, I, 253 ; G. Torelli, C. /. Frugoni, in Paesaggi e
Profili, Firenze, Le Mounier, 18fìl, p. 319 e segg. Buon saggio let-
terario è quello di Em. Bertana, Intorno al F., in Giom. St.
Leti. Hai, XXIV, 337.]
li giuramento di Annibale.
Del primo pelo appena ombrato il mento
Avea r ardente giovane affricano,
Quando sul sacro aitar posta la mano
Proferiva l'orribil giuramento;
E cento deità chiamava e cento
Suir alto scempio del valor romano j
136 SECOLO xviir.
Rebbon li giusti Dei lasciare in vano
L'atroce voto, e diérlo in preda al vento.
Ma se veduto avesse il torvo e crudo
Volto, ed udito il parlar duro o franco
Di lui, che ancor non appendea lo scudo
Al braccio, e il fatai brando al lato manco,
Roma temuto avrìa, come se i^'-nudo
Già vedesse il gran ferro aprirle il llanco.
Annibale sulle Alpi.
Ferocemente la visiera bruna
Alzò sull'alpe 1' affrican guerriero,
Cui la vittrice militar fortuna
Ridea superba nel sembiante altero.
Rimirò Italia : e qual chi in petto aduna
Il giurato suir ara odio primiero,
Maligno rise, non credendo alcuna
Parte secura del nemico impero.
E poi coi forte immaginar rivolto
Alle venture memorande imprese.
Tacito e in suo pensier tutto raccolto,
Seguendo il Genio che per man lo prese,
Coir ire nitrici e le minacce in volto,
Terror d' Ausonia e del Tarpeo, discese.
La Rosa.
Nasci col dì novello,
pargoletta rosa,
E mezzo ancora ascosa
Già porti il primo onor :
Chi pareggiar ti possa
Per vanto di colore
di soave odore
Non hai fra gli altri fior.
Desta dall' oriente
So che la stessa Aurora
Ti guarda e s' innamora
Di tua gentil beltà :
So che d' elette stille
Ristoro poi ti dona,
E fior per sua corona
Non altro elegger sa.
So che a la Dea vezzosa
C ha mille Amor seguaci
Sola sei cara e piaci.
Quando dal ciel giù vien.
So che di te poi tanto
L' aurette invaghir fai,
CARLO INNOCENZO FRUGONI. 137
Che dilungarsi mai
Non sanno dal tuo son.
So che le pastorelle,
So che i pastori amanti
T' aman d'aprii fra quanti
Fior vede V alba uscir.
Breve però è il tuo pregio :
Por poco, se no "1 sai,
Sì vaga riderai :
No, non insuperbir.
Flora, sebben ti diedo
Foglie sì porporine,
Sebben d' acute spine
Cinta spuntar ti te,
Non ti die ferme tempre
Centra gli estivi ardori,
K di regnar tra' fìoìi
Non lungo onor ti die.
Presto verrà il meriggio
De' più bei fior nemico ;
Presto in giardino aprico
Tu pur dovrai languir.
In van ti lagnerai
De l'alVrettato oltraggio;
Dal suo cocente raggio
Non ti potrai coprir.
Se su *l mattin ridente
Ti rimirai sì altera,
Su la vicina sera
Cadente ti vedrò.
Ma, folle I in van ragiono
Teco, che sorda sei,
E i saggi accenti miei
No, non intendi, no.
Cleri, che si Vistosa
Te n' vai di tua beltade.
Nel lior che presto cade
Contempla il tuo destin.
D'ostro e di gigli sparso,
Di leggiadria, di riso,
Non avrai sempre il viso.
Non sempre nero il crin.
Tempra l' acerbo orgoglio ;
E men crude! rimira
Chi langue, chi sospira,
Chi chiede a te pietà.
Godi di tua ventura
Fin che hai gli amori intorno:
Fugge, e più far ritorno
Non può, la fresca età.
138 SECOLO XVIII.
GIOVAN BATTISTA SPOLVERINI.
Nacque di nobil famiglia in Verona il 25 giugno 1605, e studiò
in Bologna ; alle lettere fu avviato da Scipione Maffei. Copri varj
ufficj civili: vent'anni attese a comporre il suo liocma. La coltiva-
zione del riso, che fu la prima volta stampato in Verona, Carat-
tanì, 1758, poi a Padova nel 1810, pei tipi del Seminario, con annota-
zioni d'Ilario Casarotti. Imitò in esso con felicità, sebbene con un
po' troppo di ridondanza, lo stile virgiliano, e fra i poemi georgici
italiani questo dello Spolverini è senza dubbio de'migliori ; lo ajutò
a perfezionarne le forme l'amico suo Giuseppe Torelli; ma povera
cosa, di un petrarchismo frugonizzato.sono le sue liriche, delle quali
diede notizia Emilio Barbaran, Sopra un vis. del n. G. B. S.,
Verona, Zannoni, 1896. Il suo illustre concittadino, Ippolito Pinde-
monte, tessè due volte V Elogio di lui, uno più breve, l'altro più
ampio : ambedue riprodotti negli Elogi di letterati, Firenze, Bar-
bèra, Bianchi e C, 1859. Morì il 24 novembre 1762.
Bellezze e pregi della pianura.
Al fin desto e tranquillo, attento e pio
Il buon coltivator sperando posi,
E godendosi il ben si serbi al meglio ;
Alzi gli occhi là su, né ingiusto o ingrato
Porti invidia ad alcun, né voi felici
Chiami sol tanto abitator de' monti.
Che se qui non avrà così salubre
Il cielo, e l'aer puro, e chiare Tacque,
Che con bel zampillar soavemente
Scendan fra sassi mormorando al piano,
Se cosi vaghi boschi, ombre sì grate,
Si piacevoli erbosi aprici colli.
Di vigne adorni, e verdeggianti olivi,
Da la cui sommità può d'ogni parte
Chi vi poggia appagar lo sguardo errante.
Or mirando vastissime pianure
(Ampio regno di Pan, Cerere, e Bacco)
Òr pietrosi torrenti, or fiumi, or laghi
Cinti d'orride balze, e rive opache;
Ora più da vicin qua e là dispersi
Ricchi alteri palagi, antiche mura.
Deliziose ville, eccelse torri,
E quant' altro allettar può l' avid' occhio ;
Se gustar non potrà di sì dolci uve.
Di liquor si pregiati, ove rivali
Si contrastan l' onor natura ed arte ;
GIOVAN BATTISTA SPOLVERINI. 139
Se de' frutti, de l'erbe e di tarit' altre,
Solo a' monti concesse, utili piante,
Se di tanti, per line, agj e diletti,
Onde ai piani terren va il colle innanzi,
Ch'io non saprei dir tutti; ei qui per certo
Godrà più aperti spazj, erbe più folte,
Più fruttiferi solchi, e lieti prati,
Ben partite campagne, in più divise
Da fecondi ruscei bagnati piani.
Santa Pale, a te sacri, o a qual s'estima
Nume in esse abitar amico al Riso:
Ove si può ne' più sereni verni
Scorrendo affaticar veltri e sparvieri ;
Ove si scorgon numerosi a stuolo
Fra le stoppie o fra l'erba errar gli armenti:
Mentre intanto non mai formaggio o latte
Manca al padron, non mai concime ai campi,
Non cavalli a le trebbie, al vomer tori.
Poi qual diletto, quando il sol declina
Vèr lo Scorpione a far più brevi i giorni.
Fin che di nuovo ascenda a l'Urna e ai Pesci,
Or con caccia, or con pesca, in valli e stagni,
Or con lieto passeggio in piaggie apriche
Di sì ilolce piacer far parte a' suoi !
Quindi, con puro amor, d'erbe e di frutta
Del suo sempre innallìato e vivid'orto,
Di non compri colombi, e di quant' altro
In più copia che al monte, in cento guise
Somministrano al pian la corte e l'aja,
E 'l vivajo e 'l giardino, ire apprestando
La parca mensa e schiettamente adorna!
Troverà così belle, opache rive.
Cosi pingui ricolte, altèri tanto
In lunghissime tìle i pioppi e gli olmi,
I frassini, gli ontan, le querce, i salci.
Da chiamar tutti a sé gli sguardi e i passi:
Poi tal lussureggiar fra solco e solco
II ventoso popon, la molle zucca,
Il canape vorace, il bianco lino.
Felicissima pianta a involger nata
Membra gentili, tal eh' invidiose
Se ne mostran talor le spose alpine.
Or che non troverà? Più grati i colti,
Più agevole il lavor, men crudo il vento
E ne" verni peggior più mite il gelo.
Ma, non men che fra' monti, in piano o in vallo
Avrà cheti i pen<ier, placido il core,
E di doglia e timor l'alma disgombra.
Qui, non men che là su, fida e soave,
{) si mova si stia, sincera pace, -
l'40 8KC0L0 XVIIl.
Culto semplice e puro, un viver sctiiotto,
Un vaf^ar dolce, un riposar ti'anffuillo
Faranno i giorni suoi lieti e giocondi. •
(Dalla Coltivazione del rino, lib. III.
La trebbiatura del riso.
Qui di fretta è mestier, d'ardire e forza;
Qui di por mano agli scudisci e a' lacci ;
Ch'ora comincia il più; nessun stia indarno.
Questi accoppj fra lor, quei volga in giro
Le animose cavalle, e i lunghi intorti
Lievi capestri a la sinistra avvolti,
Con la destra le punga, e al corso inciti.
Bel veder le feroci a pajo a pajo
Pria salir l'alte biclie, somiglianti
A festosi delfin, quando ondeggiante
Per vicina tempesta il mar s'imbruna,
Or sublimi, or profonde, or lente, or ratte
Sovra d'esse aggirarsi, e arditamente
Sgominate avvallarle, in ogni lato
Gli ammontati covon facendo piani;
Poi distese e concordi irsi rotando
Con turbine veloce in doppio ballo,
E smagliando ogni fascio, e sminuzzando
Col cavo piede le già tronche cime.
In breve ora cangiar l'erto, spigoso
Clivo, d'inutil paglie e reste infrante,
E di sepolto grano in umil letto.
Ferve il giro e il pestìo: s'ode bisbiglio
Di sì cupo tener, qual se cadendo
Fischi, e il duro terren rara e pesante
Senza vento percota estiva pioggia.
L'une e l'altre s'incalzano, e a vicenda
Prendon stimolo e il dan: talor diresti
Flagellato palèo ronzar d'intorno,
di naspo leggier versata ruota,
Dal cui mezzo il rettor de le fugaci
La pieghevol cervice e il pie governa.
Pur lo sforzo, l' arder, l'impeto, il corso
Han qualche pausa; indi ritorna il primo
Volteggiamento e l' interrotta danza,
E l'anelito e il suon; tal fuma e spira
Fiato, anzi foco da le aperte nari,
Tal distilla sudor, escon tai spume
Dal collo, per le spalle e per li fianchi,
Con sì grave respir, che le primaje
Dal soverchio sbuffar de le seguaci
Molli ed umide n' hanno i lombi e 1' anche.
ANTONIO COCCHI. ^^^ 141
Non con forza niagf,Mor, l)aklanza o brio,
Con più legj^iadro portanuMito e s^Mianlo
Per li tessali pian corsero errando
Del Centauro le fì^die; e non diverso '
L'erte orecchie vibrar, nitrendo a l'aure
Di Saturno e Nereo lo fiilse spose.
(Ihùl.. lil). IV.)
ANTONIO COCCHI.
DI padre niiigellano, residente a Benevento ai scrvigj de' Riniic-
cini, nacque ai :ì agosto del 1(51)5. Studiò medicina a Pisa. Conosciuto
e preso a ben volere da Lord Huntington, con lui andò in Inghil-
terra, ove avvicinò il Newton, e poi con quel signore viaggiò parte
di Europa, sempre osservando e studiando. Dopo tre anni, nel 1720,
ritornò in Toscana: aveva fatto stampare a Londra una sua tra-
duzione latina del romanzo di .Senofonte Efesio sugli Avwri di
Abrocome ed Anzia. Fu fatto professore di medicina a Pisa: ma
la poca eloquenza e la guerra che gli si faceva per la novità delle
sue dottrine, lo indussero a rinunziar alla cattedra e fermarsi in
Firenze, ove ottenne l'insegnamento dell'anatouìia. Fu anche an-
tiquario cesareo. Col Micheli istituì una società botanica, e col Tar-
gioni-Tozzetti attese al riordinamento della liiblioteca Magliabe-
cliiana. Fu il primo toscano che, nel 17;VJ, venisse ricevuto nella
massoneria, introdotta da Inglesi, e accolta con favore dai più
liberi ingegni, per contrapporla alle conventicole bigotte, fiorenti
all'ombra degli ultimi principi medicei.' Morì il 1» gennaio 1758, e
venne sepolto in Santa Croce.
Fu il Cocchi uomo di molta e varia cultura. Continuò nella
scienza e nelle lettere la tradizione toscana, che muove da Galileo
e per gli .-iccademici del Cimento giunge al Redi e al Bellini. Nello
stile non ha la festività di questi due, ma anche il Baretti rico-
nosce che se non è « nervoso e veloce » è però « chiaro e ni-
tido; » e altrove lo loda, perchè «fra gli odierni Toscani ha uno
stile quasi perfettamente buono. »
Raccolse e pubblicò tradotti dal latino gli scrittori greci di chi-
rurgia (Firenze, 17.51); mise per primo a stampa i Discorsi del liel-
lini (Firenze, 1744) e la Vita del Cellini (Colonia, ma Napoli, 1728).
Di suo, scrisse un Trattato dei Bagni di Fisa (Firenze, 1750) e pa-
recchie dissertazioni scientifiche e letterarie, Sìd vitto pitagorico,
Sidvial del Miserere, SulUEnriade del Voltaire, ec, che furono poi
raccolte col titolo di Z>isco7'si<o5ca7ii (Firenze, Bonducci, 1701,2 voi. \
contro i quali troppo violentemente menò la sua frusta il Baratti.
F. Sbiqoli, Tovimaso Crniìtli e i prìini frainaasuni in Firenze, Mi-
lano, Battezzati, 1884, pag. 68.
142 Secolo xvm.
Oltre voluminose Effemeridi, utWi a consiiItarHi non solo da chi vo-
lesse rifar la sua biografia, ma alla conoHecnza de' tempi (un Ha<,'-
gio ne fu pubblicato nel giornale IL Fanfani, 10 aprile 1883), lasciò
manoscritte molte altre cose, stampate di poi, fra le quali il discorso
Sul matrimonio, pubblicato dal figlio Raimondo, anch'esso dotto
anatomico. In una seconda ediz. del discorso (Parigi, 1762) è stata
aggiunta una Lettera a una aposa, tradotta dall'inglese, ma che è
tenuta come cosa del Cocchi stesso. Il discorso sul Matrimonio,
che si dice recitato agli amici la vigilia delle sue seconde nozze,
è un paradosso, che suscitò le ire del Baretti e fu messo all'In-
dice dei libri proibiti. Parecchi suoi Consulti medici furono stam-
pati dal celebre Andrea Pasta (Bergamo, 1791) e altri con sue
Lettere dal Del Chiappa (Milano, 1831). Una buona raccolta delle
cose del Cocchi fu fatta in 3 voi. dal Gherardini nella collezione
dei Classici di Milano, 1824.
[Per la biografia, vedi Fabroni, Vitce i^aZor., XI, 342; G.L.Tar-
GIONI, negli Elogi di illustri toscani, IV, 328, e Ferd. FOSSI nel
1» voi. dei Discorsi e lettere di A. C, Milano, Classici, 1824.]
Dell'uso e vantaggi dell'acqua fredda. — .... Non è mera-
viglia se in trenta secoli, da che la medicina si coltiva in
Europa, i rimedj sieno diventati quasi innumerabili, dopo
r industria di tanti valenti uomini nel registrarne gli effetti.
Sicché il dotto ed esperto medico non può mai aver bisogno
di ricorrere ad alcuna di quelle abominevoli materie, né a
quelle superstiziose, vane e ridicole ordinazioni, delle quali
sono costretti bene spesso a fare uso coloro che disprezzano,
cioè ignorano la medicina. Tanto più che si vede che molti
corpi, i quali con una segreta forza allettano tutti i nostri
sensi, e che fortunatamente quasi per tutto s'incontrano,
per la naturale loro efficacia possono nel corpo nostro mi-
rabili mutazioni soavemente e sicuramente produrre.
Uno di questi senza dubbio è l'acqua, la quale né per
sapore né per odor punto ingrata, e per la bella adaman-
tina sua chiarezza, più d'ogni altro splendente corpo, pos-
sente, come osservò Pindaro, a dilettare la vista, è insieme
forse più di qualunque altra materia, idonea a servire in
moltissimi casi di sovrano rimedio. Quindi è che cosi spesso
l'abbondante interno uso dell' acqua pura, o calda o più e
meno fredda, si trova prescritto e nelle febbri ardenti ed
acute ed in altri moltissimi mali dagli eccellenti medici
d'ogni età e d'ogni paese; ed a' tempi nostri si è veduto
con gran successo all' uso interno dell' acqua fredda adat-
tare quel bellissimo metodo universale di Eraclide taran-
tino, cioè con piccole frequenti bevute più sicuramente me-
scolare col già viziato liquido quel nuovo e salutevole. Né
solamente per V interne angustissime foci de' vasi chiliferi,
ANTONIO COCCHI. 143
introdotta l'acqua nel circolo de' nostri liquidi è ella ba-
stante a mantenere o restaurare la sanità, ma applicata
altresì all'esterna nostra superficie in tiepido bagno o la-
vanda, e per lo contatto e per la pressione ed ancor pe-
netrando per le linfatiche vene ne' loro estremi aperte, può
facilmente e con diletto produrre le tanto desiderate mu-
tazioni, che sono ben note a chiunque la struttura di nostra
macchina intende. E benché abbiano i teneri animi della
maggior parte degli uomini un non so che d'orrore al freddo,
pur, nel leggere le antiche memorie e le fedeli relazioni
de' moderni viaggiatori, si osserva che quasi tutti i popoli,
por pulizia o per esercizio o per diletto, e lavarsi e nuo-
tare nell'acqua fredda hanno amato. 11 che non si deve,
s'io ben discerno, riconoscere dall'invenzione di qualche
sagace ingegno, ma dal bisogno e dal comodo che di ser-
virsi dell'acqua fredda avevano quei primi abitatori d'ogni
paese, che, rozzi e privi di molti strumenti, vivevano ne' bo-
schi, e presso a' fiumi fermavano le lor famiglie raminghe;
poiché tale é molto probabile che fosse l'antichissimo stato
anco delle più eulte nazioni: come della sua, che fu tanto
gentile, giudiziosamente pensa Tucidide, e le moderne sco-
perte fanno vie più verisimile; onde non è mancato chi
creda che ne' tempi a noi più remoti tutta la terra fosse
una selva.
Introdotta poi la cultura, si osservano non ostante ri-
masti in molte parti i vestigj d" un tal costume. Omero, per
esempio, neWIliade. fa che Diomede ed Ulisse sull'alba e
di pi'imavera si lavino nel mare, per refrigerio di quella
loro faticosa notturna impresa, e quindi prendano vigore e
conforto. E, neW Odissea, rappresenta le fanciulle, che ac-
compagnavano la real donzella Nausica, a lavarsi per diletto
nel fiume, benché fosse d" autunno, come dalle circostanze
si può chiaramente conoscere, se pur non era d' inverno.
1 quali due luoghi dell' antichissimo poeta io mi maraviglio
come osservati non furono da Plinio, che fu nello scrivere
sì accorto, dicendo egli che in Omero solo della calda la-
vanda, e non mai della fredda, si trova fatta menzione. Voi
vi ricordate altresì come Virgilio, forse coli' autorità di Ca-
tone e di Varrone citati in quel luogo da Servio, ci fa sa-
pere che gli Itali primitivi portavano i loro figli pargoletti
a' fiumi, e col ghiaccio e coli' acqua freddissima rendevano
i loro corpi più duri e sofferenti. L' istesso narrasi aver
fatto gli Spartani anticamente ed i Germani ed i Celti ; e
tal costume essere oggidì famigliare ad alcuni popoli del
settentrione e delle due opposte Indie, non solo per i fan-
ciulli, ma per gli adulti e per le femmine ancora, voi
l'avrete senza dubbio, come l'ho io, più volte letto e sen-
tito» dire da chi gli ha veduti.
E le reliquie de' bagni de' Romani e le descrizioni che di
essi negli antichi scritti si trovano, dimostrano che in tutti
144 RECOLO XVITT.
emvììa piscina, o battisterio clie dir si voglia, che ognun
sa che d'acqua fredda era pieno, ove ognun poteva non
solo tuffarsi, ma nuotare : ed al tempo di Augusto era in-
trodotta r usanza, come fa ricordo Plinio, di farsi dopo il
bagno caldo molta fredda acqua gettare addosso, sicché
vedevansi, come egli dice, i vecchi consolari esciti dal ba-
gno andar con ostentazione per le strade tremando. E più
d'ogni altro maraviglioso a' tempi nostri deve sembrare il
costume dei Macedoni, appresso a' quali fin le donne di
parto lavavansi nell'acqua fredda; il che servi di motivo
air accortissimo re Filippo di togliere il comando a qiiel
suo troppo delicato generale, tarantino di nazione, che le
calde lavande usava, come racconta Polieno, degno di molta
fede, raccoglitore delle antiche memorie.
Oltre l'esercizio e il diletto, servironsi anticamente del-
l'acqua fredda, forse più spesso per religione, osservandosi
negli scrittori che per avventura niuna nazione v' è stata,
che creduto non abbia meglio poter piacer a" suoi Dei dopo
le fredde lavande. Quindi le tanto famose lustrazioni e pu-
rificazioni degli Egiziani e de' loro vicini, e le tante super-
stizioni de' Greci, de' Romani, de' Barbari. Sovvengavi di
quel superstizioso, dipinto da Teofrasto, che, passeggiando
per la città, non sa passare da una fontana anco nelle pub-
bliche piazze, ch'ei lavar non vi si voglia la testa
E se, talmente comune essendo tra gli uomini antichi l'uso
esterno sul corpo dell'acqua fredda, i medici di que' tempi si
avvisarono di osservarne con diligenza gli effetti e di ac-
crescerne il numero de" rimedj, parmi che perciò molta
lode lor deva darsi. L' essersi poi ciò fatto da loro con tanto
giudizio, ed in quei mali solamente e con quelle intenzioni
per cui queir uso molto ragionevole vien dimostrato dalle
nostre più recenti scoperte, deve, se io non m' inganno, pa-
rere maraviglioso a chiunque crede che gli antichissimi me-
dici in una rozza semplicità fossero involti
Quegli Egiziani, che le finezze della medicina tutte pro-
babilmente sapevano, non temerariamente, ma con minuta
cognizione delle forze del corpo umano, mostrano avere in-
trodotto nell'arte l'uso delle fredde lavande. Antica e no-
bile testimonianza di questo abbiamo tra le altre nella per-
sona d'Euripide, il quale insieme con Platone, come è scritto
nella Vita di questo, in Egitto viaggiando, essendo quivi
sorpreso da una importante infermità, fu da quei medici
felicemente col bagno freddo di acqua marina guarito; al
che dicono che alluder volesse quand' ei fece quel famoso
verso :
Lava il mar tutti quanti i mali umaui.
E siccome ne' libri d' Ippocrate molti vestigj si trovano
della buona filosofica medicina d' Egitto, uno di questi si è,
a mio credere, l'uso esterno dell'acqua fredda, da lui sì
ANTONIO eoceni. 145
spesso lodato o praticato. Anzi da tutto ciò eh' ei ne dice
in varj luoghi, e particolarmente in ({uel suo curioso libro
dell Uso de' liquidi, è nianiCesto che egli ne aveva la buona
teorica, senza la quale l'arte è cieca e fallace. Hen è vero
che, essendo egli stato breve ed oscuro, non cosi pienamente
a prima vista si conosce il merito di sua dottrina, come
quando ella si considera dopo aver ben compreso tutto ciò
chele diligentissime scoperte de' tempi nostri di più certo
ci dimostrano sulla natura dell'acqua fredda, e sulla fab-
brica e disposizione dell' estrema parte del nostro corpo che
ne deve ricevere l' impressioni
Or poiché il freddo ristrigne e condensa tutti i corpi, e
ciò in proporzione delle loro rarità, è manifesto che l'acqua
fredda applicata alla superlicie del nostro corpo produrrà
quivi tutte quelle meccaniche mutazioni, di cui le parti vi-
cine per la loro composizione e natura sono capaci. Sov-
vengavi che la cuticola, onde il nostro corpo è ricoperto,
è di piccolissime S(iuame composta, non continua, ma prin-
cipalmente da due sorta di minime ed innumerabili aper-
ture interrotta, delle ((uali le une sono ultime estremitii
patenti d'arterie non sanguigne, che portano fuori del corpo
alcuni li(iuori, come il sudore e la traspirazione, e canali
escretorj si chiamano; le altre sono il patente principio di
vene pur non sanguigne, che portano dentro al corpo tutto
ciò che è atto ad entrarvi, e massime l'aria e l'acqua, che
per l'aria è sempre in minutissima e impercettibil nebbia
dissipata, e i nocivi ellluvj per essa sparsi, e i penetranti
rimedj applicati, onde assorbenti canali son dette. Sicché
non è necessario, che per lo medesimo condotto entrino ed
escano opposte materie, come supposero per T addietro i
medici e il gran Bellini. Sotto questa prima coperta sta
quella membrana come finissima rete perforata, che ha il
nome del suo primo inventore incomparabil Malpighi, dando
passaggio non solo a' detti canali, ma a ([uelle chiuse estre-
mità dei nervi chiamate papille da lui medesimo, che in
esse l'organo del tatto discoperse. Queste hanno lor base
nella cute, la quale è una forte membrana di fibre tendi-
nose e molto elastiche tessuta, per la quale un' increbile
quantità di minimi vasi sanguigni si sparge. Ognun sa che
sotto trovasi la membrana adiposa, e quindi i muscoli, e
negl' interstizj innumerabili vasi d'ogni genere e piccoli
e grandi s'incontrano, e finalmente la dura resistenza
degli ossi.
L'operazione, dunque, dell'acqua fredda sul nostro corpo
primieramente sarà una notabile pressione cagionata dalla
mentovata interna resistenza degli ossi, e dall' esterna gra-
vità dell' acqua per ogni verso operante. Dovendosi aggiu-
gnere alla pressione dell'aria ambiente, quella che produce
la colonna dell'acqua imminente al corpo, la quale se fosse
alta braccia 17, raddoppierebbe la pressione dell'aria ; onde,
L
IV. 10
14G SECOLO XVIIT.
a minore altezza, questa aggiunta pressione sarà a propor-
zione minore sì, ma sempre considerabile. Egli è vero che
questa pressione è comune altresì al caldo bagno; ma de-
vesi osservare che, nel freddo, ella è maggiore, si perchè
la gravità specifica dell'acqua fredda è maggiore che della
calda, sì ancora perchè rarafacendosi col caldo tutti i corpi
liquidi e solidi, ed ampliandosi, è manifesto che il dilata-
mento, che per lo caldo bagno seguirà negli umori e ne' ca-
nali vicini alla superfìcie del corpo, diminuirà T effetto della
pressione. Ove al contrario nel freddo, facendosi minore il
corpo del liquido e '1 diametro del canale, ognuno vede che
l'effetto della pressione dovrà essere molto maggiore.
La quale condensazione cagionata dal freddo, restrin-
gendo chiudendo per qualche tempo i picciolissimi orifizj
delle dette arterie esalanti, farà che non si diminuisca l'in-
terna umidità delle vicine parti, e che perciò si manten-
gano le fibre nella loro consueta flessibilità; ove al con-
trario nel bagno caldo, come dimostrano gli esperimenti
statici, spariscono insensibilmente dal corpo fino a venti
once d' umido per volta, onde nasce quella dolorosa rigidità
delle fibre, che talor ne succede.
Ed oltre al mantenersi umide e cedenti le fibre nel ba-
gno freddo, la pressione e il condensamento accresceranno
ancora la naturale inclinazione o moto al contatto nelle
particelle componenti i nostri liquidi, onde la più facile
formazione de' loro globuli; ed accresceranno l'azione dei
canali sopra i medesimi liquidi, facendo maggiore la lor
tensione e più frequenti le lor vibrazioni e più forti. E pe-
rocché neir estremità del corpo i canali sono sottilissimi e
nella massima lontananza del cuore, ove la forza sua di-
venta minima e quasi nulla, non saprei dire quanto uno
esterno motore quivi esser possa opportuno per promovere
e le separazioni e la nutrizione, e render più forte 1' ela-
sticità del corpo, che chiamasi vigore.
E perchè, come osservarono quei gloriosi che l'Accade-
mia del Cimento formarono, al primo immergersi dei vasi
di rigido cristallo, pieni d' acqua o d' altro liquore, dentro
ad altr' acqua freddissima, succedono quegli strani accidenti
di scemare, di crescere, di quietare, di risalire, di correre,
di ritardarsi, par molto ragionevole il dire che al primo
penetrar 1" effetto del bagno freddo su' nostri cedenti canali,
e moto e mescolamento de' contenuti liquori ed una certa
vicissitudine ed alterna agitazione deva seguirne, senza la
quale bene spesso i nostri umori in una perniciosa quiete
o spontanea mescolanza si conducono.
Essendo poi i nervi gl'istrumenti più validi e quasi im-
mediati dell'interna forza dependente dalla vita (la qual
forza, altri chiaman natura), ed osservandosi nel corpo
umano una non ancor bene intesa corrispondenza anco
traile parti sue più remote per via de' nervi, chi negherà
ANTONIO COCCHI. 147
clic, venendo il freddo corpo dell' acqua da tutte le parti
subitamente al contatto delle nervee papille, e risvegli l'in-
torpidito moto delle fibre tendinoso della cute e delle mu-
sculari tuniche dei vasi vicini, ed insieme per quell'ignoto
consenso, abbia la forza di rendersi alle più intime parti
sensibile?
Da questa naturai forza del corpo umano vivente nasce
quel suo reciproco restituirsi, dopo la fredda immersione,
al suo primiero ed anco a maggior calore ; perchè, essendo
le sue parti elastiche, ed atte a mantenere per lungo tempo
quel moto che peristaltico od oscillatorio si chiama, quando
elle vengono dalla pressione e dal restrignimento insieme
e dallo stimolo mosse ed ajutate, non è maraviglia che
l'azione loro tanto più facile diventi e più pronta.
Ed essendo manifesto dalle cose dette fin qui, che per
lo accresciute forze e per li ristretti canali è necessario,
che mediante il vital moto la velocità del sangue s'accresca,
e per conseguenza l'attrizione, onde il calore, e s'accresca
ancora la separazione nella cortical parte del cervello, onde
l'alacrità; pare che molto giudiziosamente pensasse Ippo-
crate quando ascrisse tutti i buoni effetti del bagno freddo
al calore, che necessariamente ad esso succede, e si rise
di coloro che il caldo e il fi^eddo e l'altre due qualità cre-
devano essere qualche cosa di reale e costante alle nostre
membra allìsso; la qual vanissima ipotesi si vede che fin
d'allora impestato aveva la medicina.
Perchè dunque il bagno freddo opera sopra di noi solo
come istrumento delle proprie nostre forze, quinci si trag-
gono come conseguenze tutte le più importanti cautele
per r uso di esso, le quali si vede che anco gli antichi os-
servarono, e tra essi più maestrevolmente d'ogni altro un
valente uomo chiamato Agatino, che fece il medico a Roma
sotto Trajano, e fu maestro del celebre Archigene, essendo
d' una certa setta, al parer mio, non punto stolida, che,
come lor rimprovera Galeno, la loica sprezzavano, ed alle
esperienze attenevansi. Le opere di costui essendo perdute,
un bellissimo e lungo frammento ce ne ha conservato nella
sua raccolta Oribasio, giusto sull'argomento del quale io vi
parlo, e che merita certo la lettura d'ogni curioso.
Una di queste cautele deve essere intorno alla tempe-
ratura del bagno. Gli antichi, che termometri non avevano,
se ne rimettevano al discreto giudizio del senso e della fa-
cile sofferenza, secondo l'aurea ed universal regola d'Ip-
pocrate, sì nell'estate che nell'inverno. Alcuni davano per
misura di mezzo il naturai freddo dell'acqua marina; e sic-
come, secondo che avverte Galeno, per l' uso di un tal ri-
medio è necessario un certo brio e valore nell'animo, cosi
osservasi, che coloro che più rasentavan l'eroe, le più fredde
acque cercavano. Voi vi ricorderete d'Orazio, che immor-
talò r amabil freddo d'una fonte del suo podere, e che nel
L
148 SECOLO XVIII.
cuor (Icir inverno de' più freddi bagni anflava in traccia,
])oncir ei fosse d' un' età che gli faceva desiderare il soc-
corso del vin generoso, come oi medesimo scrive. Seneca
poi molto vecchio, nelle calende di gennaro gettavasi nel-
r Euripo, il quale non può esser altro che quello cui dice
Frontino che la gelidissima Vergine dava il nome; e que-
st' acqua, ed altresì la non più calda Marzia, sono spesso
nei latini autori per questo uso mentovate.
I moderni poi, che più esattamente i gradi del calore
misurar sanno, han creduto che idonea al bagno e alle la-
vande fredde sia quell'acqua, che di tre o quattro gradi è
men calda del temperato ambiente, il quale ne' termometri
universali di recente invenzione fatti col mercurio, è segnato
intorno al cinquantesimo grado.
E perchè il calore interno del corpo umano è sempre
maggior di quello di qualsivoglia ambiente nel quale ei può
vivere, ne segue che, quando anco l'acqua non fosse punto
più fredda dell'aria d'allora, ella sarebbe non ostante capace
di produrre il bramato raffreddamento ; sì perchè ella è
tante volte più densa dell' aria, e sì perchè ella toglie in
un tratto dal corpo nostro la sua già fatta tiepida atmo-
sfera, e molto più se quegli che vi s'immerge, si movesse.
Io ho voluto dir questo, acciocché a niuno paja strano ch'io
conti traile fredde le immersioni e le lavande, che d'acqua
comune talora Ippocrate ordina farsi a mezza estate, mo-
strando l'esperienza che la velocità, colla quale i corpi caldi
si raffreddano, è in proporzione composta della densità e del
freddo de' fluidi ne' quali s'immergono; la qual dottrina
mi fa sovvenire di quella fortissima espressione del nostro
maggior poeta:
Nel bollente vetro
Gittato mi sarei per rinfrescarmi.
È dunque manifesto, che il bagno poco freddo non sarà
privo d'effetto, e che il molto freddo non avrà quel peri-
colo che forse alcuno s'immagina, purché T immersione duri
brevissimo tempo, cioè non più mai di due o tre minuti,
e bene spesso nemmeno uno, e purché venga usato in
que' corpi che hanno bastante elasticità ne' loro canali per
prontamente restituirsi, o da natura o per consuetudine
acquistata, non potendo altramente spiegarsi, quel che pure
per la storia è certissimo, che moltissimi uomini al mondo,
e anticamente e a' tempi nostri, nelle gelide onde tuffaronsi
nella neve senza morire
E benché io sappia che fosse costume anticamente, e ciie
ancor lo sia appresso alcuni popoli, l* entrar sempre ri-
scaldati nel bagno freddo, il che forse può accrescerne l'ef-
fetto, stimerei però molto più sicuro l' astenersene allora,
aspettando che i liquidi nostri sieno nella loro naturai calma;
anzi, che meglio ancora fosse l'usarlo molte ore dopo che
ANTONIO COCCHI. 149
il nuovo chilo è eiiti'ato nel sangue, uccioccliè con questo
aiuto egli vie più si mescoli, si assottigli e si muova, l'armi
ancora evidente, che ove sia in qualche parte del lungo
viaggio dei nostri liquidi un qualche invincibile ostacolo o
rottura di canali, non si debba usare il bagno freddo, il
(juale, come ognun vede, non può togliere quei mali, e può
accrescerli. Puossi altresì dalle cose dette dedurre, consi-
derata l'operazione dell'acqua fredda insieme sopra i li-
quidi nostri e sopra i canali, ch'ella possa taluna separa-
zione accrescere, e tal altra diminuire. Alle quali facoltà
chiunque avrà riguardo, non potrà essere ingannato nò da
coloro che per avventura l'acqua fredda lodassero per
tutti i mali, e nemmeno da chi impropriamente la propo-
nesse
Ognun sa quanto parimenti importi la libera e mode-
rata traspirazione, e (luanto possa contribuire a mantenerla
nelle sue giuste misure il bagno freddo, il quale, lavando
gl'impercettibili orifizj, e le squame della cuticola non la-
sciando tenacemente unirsi, apre a quel sottilissimo liquido
il passaggio, ed accrescendo l'elasticità lo mantiene nella
dovuta angustia, onde impedisce la soverchia evacuazione
o di queir istesso liquido o del sudore, la quale può bene
spesso esser nociva, e, se non altro, alTrettare la debolezza
e rigidità della vecchiaja, come saviamente avverte il San-
tone. Neil' istesso modo diminuendosi gli orifizj de' canali
assorbenti, si toglie l'ingresso alle nocive mescolanze ed
esalazioni che sono sparse per l'aria, e si mantengono in
(luella facilità di ristringersi al minimo stimolo, come per
la troppa luce fan le pupille
Non ò dunque maraviglia che accortissimi e valorosi uo-
mini, massime tra' Romani, abbiano fiimigliarmente usato
i bagni freddi per conservare la sanità. Del vecchio Plinio
si sa dal suo nipote, che l'occupatissimo o regolar suo modo
di vivere ci ha diligentemente descritto; ed Alessandro Se-
vero, che fu insieme e dotto e prudentissimo imperadore
e d' una esatta regola di vita osservantissimo, rade volte
e non mai nel bagno caldo, ma quasi ogni giorno nell'acqua
fredda lavavasi, come racconta Lampridio; e molti altri
simili esempi nelle Vite de' famosi uomini s'incontrano....
Non ardirei però dire che questo rimedio sarà sempre
negletto tra noi, vedendo che da poclii anni in qua alcune
nazioni d'Europa ne han rinnovato il costume, e ch'ei va
ogni giorno più dilatandosi. Tra queste parmi che sia in
cose mediche di massima autorità la britannica, senza le
cui maravigliose scoperte in ciascheduna parte delle fisiche
cognizioni, sarebbe forse la moderna medicina non ancora
afìatto escita fuori della caliginosa ignoranza in cui, avanti
all'Arvéo, ella era involta. Né solamente la vasta esperienza
e il profondo sapere de' medici britanni ha contribuito al
rinnovamento dei bagni freddi, ma un certo nobile ardire
150 .SECOLO XVIII.
altresì di (inolia valorosa ^dìde, traila rjujtle molLi altri
os(3nnp.j si trovano deH' antico virtuoso viver romano. —
(Dal li (lei BiscornL)
Educazione inglese nel secolo XVIII, Lettera al marchese
(\ Uinuccini. — Per eseguire i comandi di V. S. illustris-
sima, e darle (juanto io posso più chiara informazione della
maniera dei Nobili inglesi d'allevare la loro gioventù, le
dirò tutto quello che io medesimo ho osservato da che co-
minciai ad avere esperienza di questa gente, o che ho sen-
tito dire da alcuni di loro, o per dignità o per dottrina con-
siderabili. Già V. S. illustrissima sa che la Nobiltà inglese
è di due sorti : una, per così dire alta, che sono i Pari del
regno, da' duchi fino a' baroni ; e tutti questi si chiamano
lórdi, cioè signori; e l'altra bassa, che comprende i figli
cadetti dei signori e baronetti, i cavalieri, ec, fino a'seni-
plici gentiluomini, che si intendono esser tutti coloro che
vivono d'entrate senza manuale lavoro; onde il nome è ge-
nerico, e non è sdegnato nemmeno dai signori gentiluomini
inglesi, che hanno il loro domicilio sui loro beni alla cam-
pagna, e sono egualmente sparsi con molta utilità del paese
per tutto il regno, passando solamente una parte dell'anno
a Londra, o per loro occorrenze o per loro piacere.
E perchè c'è un laudevol costume, idoneo mirabilmente
per conservare la privata concordia e per aumentare la
pubblica felicità, cioè che ogni uomo giunto ad una certa
età lascia la casa del padre e diventa capo di una nuova
famiglia, quindi è che tutti della seconda nobiltà si trovano
come costretti ad applicarsi o alla chiesa o alla legge o
alla medicina o alla corte o alla milizia; e credendo nulla
oltraggiare il nome di gentiluomo quanto la povertà, alla
quale pajono gì' Inglesi affatto indocili, molti si danno an-
cora alla mercatura. Procurano poi di essere eletti da' po-
poli membri della Camera bassa; e bene spesso alcuni di
loro, divenuti autorevoli e ricchi, sono dal re fatti lórdi,
e così ascendono all'alta nobiltà; della quale quei che sono,
occupano le principali cariche della corte e del regno ; oltre
r aver ciascuno per natura sua voto alla Camera alta, la
quale, insieme coli' approvazione del re, esercita la somma
ed ultima autorità, fa le leggi e risolve sui privati e sui
pubblici affari. V. S. illustrissima vede dunque una specie
di bisogno che tutta la Nobiltà inglese ha di sapere, chi più
chi meno : dell' educazione di chi ha da essere o ecclesia-
stico o avvocato o medico, non occorre, cred' io, parlare.
Solo in generale non voglio tralasciare di dirle, che alcuni
de' loro preti sono dottissimi fuori ancora della teologia :
intorno alla quale gli errori che hanno, e la soverchia li-
bertà colla quale pensano e parlano di cose incomprensi-
bili, rende la loro dottrina d'infelici conseguenze per la
fede de' popoli ; benché per Y alta indolenza nella quale il
ANTONIO COCCHI. 151
proselito governo è rispetto alla teoria ilella religione, quella
purt(^ (Iella loro scienza, per servirmi di una parola inglese,
(i quasi insignilicantc. Il sapere dei legisti, dei (juali ci è
un numero prodigioso, giudicandone per alcuni che io no
conosco, non è tanto gotico nò tanto barbaro, come io mi
sarei aspettato. Ma veramente la solida e la leggiadra eru-
dizione, cioè le scienze, la lilosofia, e ciò che si chiama
belle lettere, si trovano per lo più in alcuni o medici o
gentiluomini oziosi. Lasciando dunque da parte V educa-
zione di costoro, letterati di professione, vengo a quella di
cui V. S. illustrissima vuole ch'io parli, cioò del tiglio j)ri-
mogenito di un signore, o di un gentiluomo ricco, che come
signore voglia allevarlo.
Due veggo che sono i modi principali che adoprano, se-
condo le dilVerenti circostanze di ciascuno. La maggior parte,
quando il l'anciullo lascia la gonna, lo levano di sotto la dire-
zione della governante, e lo mettono a convivere in «lualche
scuola simile a uno de' nostri seminarj. Di queste ne sono per
tutto il regno moltissime, pubbliche e private. Tre sono fa-
mose, che si dicono reali, perchè il re ne dona i luoghi, ben-
ché ammettono poi altri coi loro danari. Una di queste è in
Londra ; le altre due nelle province. I maestri di tali scuole
sono preti di conosciuta probità e dottrina. Le loro mogli
hanno la cura delle minute cose domestiche ; e di essi la
pi'incipal sollecitudine si è fare studiare al fanciullo la pro-
pria lingua, il francese, il latino e il greco, ed inspirargli al
meglio che possano, i principi di religione e di morale. Di
scienze non ne parlo, l'assata la puerizia e levato il lìglio
da (pieste scuole, è mandato ad una delle due Università,
ove lo mettono in (lualche collegio a convivere, e ne rac-
comandano il governo ad uno di certi uomini che chiamano
tutori, che noi non abbiamo ; i quali, vivendo anch'essi nel
collegio, sono pagati per soprintendere alla condotta e agli
studj de* giovani. Quivi, restando ordinariamente (piattro o
cin(iue anni, fa'varj corsi sotto diflerenti maestri di filo-
sofia, di geometria, d'esperienze, d'anatomia e simili ; fre-
quenta le famose librerie, che quivi sono, e, senza prendere
laurea, intorno ai venti anni ritorna alla casa del padre, il
([uale allora avendogli trovato un governatore, lo manda a
viaggiare.
Un altro modo usato da pochi e più distinti signori, è
quello di allevare il fanciullo nella casa paterna fino al
tempo di mandarlo all' Università. Costoro procurano di
scegliere un uomo secolare, per lo più onorato, savio, dotto,
civile, al ([uale, prendendolo in casa a loro stipendio e
trattandolo sempre alla pari, commettono l' intera educa-
zione del figlio. L' esperienza dimostra questo riuscire il
miglior modo ; ma è molto dillìcile trovar qua un uomo
con tutte le dette (lualità in grado un poco sopra T ordi-
nario, il (luale abbia bisogno di servire. Però in questo sono
152 SECOLO XVIII.
i signori inglesi un poco infelici, trovandosi molti di loro
obbligati ad adoprare scozzesi, francesi rifuggiti o svizzeri :
gente spiritosa, che milita contro la povertà, e i cui prin-
cipi ^^^ possono interamente convenire a un nobile di que-
sto paese. Un tal uomo, che è governatore e maestro del
fanciullo, s'occupa tutto non solo ad insegnargli esso me-
desimo ciò che si crede opportuno, ma sceglie i maestri
subalterni e loro soprintende, disponendo a suo arbitrio
delle occupazioni e dei piaceri del suo pupillo. Ma, quel
che più importa, va sensibilmente imprimendo nel tenero
animo i sentimenti della virtù, e si affatica di fargli pren-
der piacere neir ornarsi di quelle doti, che poi devono ren-
derlo a suo tempo o savio ministro o gran capitano o
gentil cortigiano, e, se non altro, ajutarlo almeno a godere
tranquillamente e con erudito lusso le paterne ricchezze.
Lo accompagna poi air Università, ove gli serve di tutore,
e finalmente lo conduce a viaggiare. Molti, per gli consigli
interessati dei loro governatori si fermano o nelle pro-
vince di Francia o in Lorena o a Ginevra o in qualche
altro luogo anche più oscuro, per ripulirsi negli esercizj e
nel francese. Ma i più giudiziosi e i più onesti li conducono
a dirittura a Parigi, ove restano quanto bisogna per im-
parare il buon francese, il ballo, la cavallerizza, la geo-
grafia, e per prendere il gusto della magnificenza negli
abiti e negli equipaggi, e una certa disinvoltura e fran-
chezza di maniere, con altre simili galanterie, di cui Pa-
rigi è la sede. Passano poi in Italia, ove diventano dilet-
tanti di antichità, di disegno, di musica, di rare edizioni,
imparano T italiano, e, fatto il giro di Germania e de' Paesi
Bassi, ritornano a casa. Allora il governatore ha finita la
sua incumbenza, e il giovane è affatto abbandonato alla sua
propria condotta. La maggior parte si danno subito all'ozio,
e, portati dall' universale inalterabile usanza di tutti gì' In-
glesi, di bere costantemente ogni giorno per lo spazio di
quattro o cinque ore, e spesso di otto o di dieci dopo il
pranzo a piccole e frequenti dosi, prendono l' amore del
vino, trovando diletto in queir assopimento dell' anima che
ci produce : il giuoco precipitoso e i luoghi infami sono i
loro favoriti trattenimenti ; e così spargono d" oblio le belle
conoscenze acquistate con tante spese dei loro padri, e con
tanto incomodo de' loro maestri. Restano però loro sempre
alcuni segni d' aver saputo una volta latino, greco, geo-
grafia, istoria : e ve ne sono che, con tutti gli strapazzi da
loro sofferti nell' animo, non perdono le comprese cognizioni.
Dopo qualche tempo, o pe' consigli o per la sollecitudine
de' parenti, o per la mera necessità delle casuali combina-
zioni, che in un gran numero sono poco meno che infinite,
quasi ciascuno di loro si trova non ostante, o nel ministero
nella milizia o nella corte, prendono moglie e diventano
capi di famiglia ; e, bisogna far loro giustizia, con tutti i
ANTONIO COCCHI. 153
vi/j e con tutte le stravaganze, riescono poi rari maestri di
prudenza, di valore e di cortesia.
Questa maniera di educare è universale ; e, come tutto
le cose umane, riesce in alcuni più, in alcuni meno l'elice-
mente : sicché il pensiero di fare il tìglio letterato, di quella
letteratura di che ho parlato, l'hanno tutti i signori, i quali
la credono una necessaria dote del galantuomo. E vera-
mente un gentiluomo pretto ignorante non si trova in In-
ghilterra, come in tutto il resto del mondo la maggior parte
lo sono. Una delle ragioni è forse perchè gl'Inglesi, a causa
del loro grasso terreno e delle utilissime leggi meno che
altrove neglette, sono la più ricca nazione del mondo, e tra
loro i grandi hanno molto di più di quel che basta a qna-
lunque sontuosità. E siccome negli Stati si vede dall'istorie,
che la cultura e le lettere vengono dietro alla potenza e
alla vecchiezza, e si prendono con esse, così avviene nelle
case private. Altrove i vecchi sono sovente avari, cioè par-
chi e timidi consumatori dei frutti dei loro tesori ; gl'Inglesi,
quanto il resto degli uomini, avidi dell'altrui, ma del loro
profusi. Comunque si sia, certo è che naturalmente un ricco
savio crederà sempre uno degli impieghi del suo denaro più
utile per il suo tìgliuolo essere il comprargli l'animo ben
regolato e il corpo ben disposto; le quali due cose si acqui-
stano per mezzo della buona educazione e non altrimenti, e
senza le quali tutte le umane felicità sono piene d'amarezza.
Gli autori, de' quali gì' Inglesi si servono per la loro gio-
ventù, sono secondo la scelta e il gusto dei maestri. Nelle
scuole per la grammatica hanno dei libercoli scritti nella loro
lingua, assai buoni, come pure dei dizionarj ; e, subito che
possono, occupano li fanciulli della lettura dei l.atini. I più
accorti li fanno principiar da Fedro, Quinto Curzio, (tiustino,
che, per essere narrazioni, sono più facili e più dilettevoli
per loro ; e a poco a poco li fanno amici de' più solenni : Te-
renzio, Cesare, Cicerone, Virgilio, Orazio. Ho veduto delle
Commedie di Terenzio rappresentate in latino nella scuola
di Londra, cred' io con moltissimo loro profitto. La Bibbia
volgare è il libro sul quale tutti imparano a leggere, come
da noi quell'insulso romanzo del Damasceno, il Giosafatle;
per la geometria si servono degli Elementi di Euclide, della
traduzione latina del Commanderio. Per la tìlosotìa, del Ko-
hault dal dottore Clarke tradotto in latino e moltissimo mi-
gliorato con solide ed importanti annotazioni, e d' altri
molto belli Trattati dei loro professori. In generale i tìlo-
sotì inglesi, dei quali è padre il Newton, abborrono le ipotesi
tanto famigliari ai Francesi ; e, imitando il nostro incom-
parabil Galileo, nulla supponendo, ed osservando solo le
cose esposte ai nostri sensi, si affaticano di ridurre tutti
gli effetti in natura per una catena di cause secondarie alle
due prime ed oscure, gravità e attrazione, ove tìniscono le
loro indagini, non trovandosi altra dipendenza che dall' uu-
154 SECOLO XV IH.
toi'c (lolla suprema causa, Iddio, con sublime lilosoiia cliia-
mato dal signor dell' altissimo canto
Quel vero in che si quota ogni intelletto.
Per Tastronomia hanno il Gregory; per la metafìsica quel
bellissimo Trattato fieli' Intendimento umano di Locke ; e
per conoscere le dilTerenti opinioni degli antichi un esatto
e giudizioso libro nella loro lingua, che si chiama Sistema
intellettuale del dottissimo Cudworth. Molti leggono il New-
ton ancora, contentandosi di crederne le conclusioni sulla
fede dei più eccellenti matematici, che ne hanno esaminate
le prove, le quali sono da pochissimi intese. Quasi tutti i
signori hanno altresì letto Grozio, Bella guerra e della pace,
e Puffendorf, Belle leggi naturali e delle genti, che hanno
data una vista alle leggi del loro paese. I libri poi, che gior-
nalmente escono alla luce, essendo ad ognuno interamente
permesso di dire ciò eh' ei pensa, non mancano d'avere
alcune buone cose tra molte malvage.
Perchè io m' immagino che tale informazione dell' edu-
cazione inglese sia stata richiesta a V. S. illustrissima non
per la sola curiosità., ma per trarne, se vi fossero, alcune
cose utili ed adattabili ad un signore del nostro paese, e
giacché ella mi comanda dire il mio sentimento, mi ardirò
a fare alcune piccole riflessioni. Io non ho dubbio alcuno,
che uno de' nostri più ricchi cavalieri ha moltissimo van-
taggio sopra un Inglese per fare il suo figlio un uomo per-
fetto. Se mai per avventura vi aspirasse, Firenze è di
tutta la terra il luogo per gli studj delle lettere e belle
arti il più idoneo ; perchè io non so pensare dove mai si
trovino insieme come quivi, numero considerabile di uomini
dotti, frequenti assemblee letterarie, bellissime librerie, rac-
colte singolari di manoscritti e di antichità, ottimi maestri
di disegno, musica d'ogni genere, buon maneggio di cavalli,
e tutti gli altri esercizj a maraviglia; splendida corte, son-
tuose feste, belli edifizj, statue e pitture eccellenti ; il po-
polo ingegnoso, e, come osservò il Segretario fiorentino,
sottile interprete di tutte le cose : e, per idioma, fino della
plebe, la lingua de' buoni autori italiani ; e tutte queste
cose in piccol cerchio di mura : delle quali può, col mi-
nimo incomodo godere il frutto un signore di Firenze, credo,
con la decima parte del danaro, che un inglese è obbligato,
per metterne insieme solo alcune, a spendere nel suo paese.
Oltre di ciò, in Firenze è minor la licenza e l'opportunità
dei vizj, la sobrietà è quasi universale, e la maniera un
poco più delicata ; ed è facile a trovarvi un povero galan-
tuomo letterato e di tutte le più rare qualità adorno, che
muoja di fame, e gli paia fortuna il faticoso impiego di go-
vernatore nella casa di un ricco. Il che Ella non può mai
credere quanto sia dilfìci4e qua. Onde avviene che, con tutto
che universalmente si stimi la domestica educazione da
PIETRO METASTASIO. 155
preferirsi ix (luella delle scuole, per la mancanza di uomini
idonei, che verdiano applicarsi a (iiiesf aliare, sono i)ocliis-
simi i sif^nori che godono un tal vantaggio. Io non conosco
che il piccolo duca di Bukingham, che ò sotto la direzione
di un gran galantuomo dotto e garbato, m. Coste, noto per
le belile traduzioni che ha stampato. Tre o quattro altri si-
gnori di primo rango so essere stati allevati così. Dovreb-
bero duniiue i signori fiorentini imitare in questo gì' Inglesi ;
e, giacche lo possono, cred' io, facilmente trovare, dare ai
ligli loro un governatore capace di guidarli dall'infanzia
lino al sommo dell'educazione, che devono avere non solo
per (piel che spetta al sapere, ma per la morale e per
l'arte del vivere, che più importa. K per trarne quell'uso,
scelto che l'hanno con le dovute qualità e particolarmente
colla sulliciente cognizione del mondo, bisognerebbe che,
come gl'Inglesi fanno, lo trattassero bene, tenendolo in
casa loro, non come un servo, ma come un amico, e sli-
mando che, siccome dall'insinuazioni di lui, dev'essere for-
mato l'animo del figlio loro, e dall'attenta vigilanza con-
servatane illesa la sanità, né danaro nò civiltà sono mai
meglio impiegati per il liglio, che nel procurargli e man-
tenergli si dolce pedagogo. Dovrebbero altresì mandarli a
viaggiare per l' Europa come gì' Inglesi fanno, o coi loro
governatori che gli hanno allevati, o, se tale educazione
non han potuto avere, mandarli almeno con qualche altro
uomo solirio e prudente e culto abbastanza, per condurli e
i-eggerli nel viaggio, e farli, come dice il poeta,
del moiulo esperti
E dclli vizj umani e del valore. {f»/-, C. X.WI.)
riKTHO METASTASI^
Pietro Bonaventura nacque in Honia il 'A di gennaio del l(ì98
il.i Fclirv^ Trapassi d'Assisi (già soldato del papa, poi negoziante
di (ju«dhi curiosa varietà di cose, clic i Koniani dicevano arte
bianca) e da Francesca Galastri, bolognese. Andò da prima ad
imparar T orotìce : bello della [)ersona, mentre cantava e improv-
visava felicemente, fu notato e ricercato dall' ab. bravina (1701)),
che ottenne dai genitori di tenerlo presso di se, e cominciò forse
coH'ammetterlo fra gli altri alunni, che avviava agli studj classici
e lej^Mli ; poi lo prese in casa e lo adottò come tiglio, e, quasi
per fargli dimenticare le umili origini, gli grecizzò il cognome
ìw Metastasio. Dovendo egli tornare in Calabria, condusse seco il
fanciullo, passando prima per Napoli, dove in un'adunanza di dotti
suoi amici gli fece improvvisare non meno di quaranta ottave sul
tema ^< La uiafjnificenza dei Jitali Principi », ottave che suscita-
156
SECOLO XVIII.
10110 r entusiasmo di tutti. In Calabria il Gravina lo aflìdò al suo
Btcsso maestro Giorgio Caloprcse di Scalea, che fjli insegnò la (ilo-
Hofia cartesiana, la quale fece nel giovane profonda impressione.
Il Metastasio, tornato a Roma, vesti l'abito talare, e continuò ad
attendere agli studj della legge, non soffocando, peraltro, le native
tendenze alla poesia. Morto il Gravina (1718), fu erede della sua
libreria e d'un capitale di circa quindici mila scudi. Era stato,
frattanto, il 15 aprile 1718, ricevuto fra gli Arcadi col nome di
Artino Corano} Menò vita leggera e spendereccia, finché, dissipata
l'eredità, andò (1720) a Napoli,^ dove trovò lavoro nello studio del-
l' avvocato Castagnola, al quale, fiero nemico di poeti e poesie,
dovè promettere di non perder
tempo a far versi: promessa
che poi non mantenne.
Fin dal suo soggiorno in Ca-
labria avea conosciuta la prin-
cipessa Anna Pinelli di Sangro,
per le nozze della quale col
principe Don Antonio Belmon-
te Pignatelli compose una se-
renata, ossia VEndimione. Ora,
forse per i buoni ufficj di qual-
cuno di questa famiglia, scris-
se (1722), incaricatone da An-
tonio Borghese, viceré di Na-
poli, gli Oì^ti Esperidi, per il
natalizio dell'imperatrice Eli-
sabetta Cristina, moglie di
Carlo VI, de' quali fu poi sco-
perto autore dalla celebre Marianna Benti-Bulgarelli, detta la
Romanina, che vi aveva sostenuta la parte di Venere. La Bulga-
relli s'innamorò del giovane poeta, lo volle con sé, lo fece istruire
nella musica dal Porpora, e lo indusse a scrivere il suo primo
vero melodramma, La Bidone (1723), rappresentata l'anno dopo
a Napoli : insieme andarono a Venezia, poi a Roma. Cresciuto in
fama, e molto probabilmente per proprio desiderio (giacché per
poco in Roma non era coinvolto in un processo scandaloso e ro-
manzesco),^ non che per raccomandazione della contessa d'Althan,
vedova del favorito dell' Imperatore, certamente poi per sugge-
rimento di Apostolo Zeno, che desiderava per la tarda età di
ritirarsi, il 31 agosto 1729 gli fu fatto invito di sostituir quest' ul-
timo alla corte di Vienna come poeta cesareo. Vi fu da prima
^ G. CuGNONi, P. M. e V Arcadia, Roma, Forzani, 1882.
2 F. Nunziante, Metastasio a Napoli, in Nuova Antologia, 3* serie,
Lviii-ix (1895).
** A. MoRONi, Un mistero nella vita di P. M. a Roma, in Antona-Tra-
VERSi, Lettere disperse e ined. di P, M., Roaia, Molino, 1886, pag. 405.
PIETRO META8TASI0. 157
qualche dibattito sullo stipendio, poi accettò. Giunse a quella
corte il 17 aprile del 17;iO, vi stette sotto Carlo VI e Maria Te-
resa,* e vi ebbe belle provviijioni e regalie, non però forse tutte
([nelle soddisfazioni che s'attendeva, e per l'etichetta della corte,
r. perchè, ammirato come poeta, comprendeva di non avere e di
non poter avere nella corte stessa altra importanza. La lloma-
nina, che egli, e per il ano carattere piuttosto mutabile, e per lo
nuove relazioni che avea strette colla sua protettrice Marianna Pi-
{^natelli vedova d'Althan, che dicesi anche sposasse segretamente,
aveva a poco a poco dimenticata, morendo a Roma nel 1731, gli
lasciò trenta mila scudi, ma egli cede l'eredità al superstite ma-
rito. Fu in stretta amicizia col celebre cantante Farinello, il ca-
valier don Carlo Hroschi, che trasse dal genio del poeta le ultime
opere, e che, divenuto favorito alla corte di Filippo V e di Fer-
dinando VI di Spagna, diede, quasi per riflesso, al suo amico in
Vienna un istante di influenza maggiore di quella che avesse
mai avuta. Ebbe anche relazioni con altri cantanti, dei quali fu
giudice severo e un po' iroso, e cui soleva istruire egli stesso alle
prove, e fu amico di insigni uomini, tra' (inali il Muratori.- Visse
famoso e ammirato; ma negli ultimi anni, sia per la sua condi-
zione a corte, sia per la mancanza, specie dopo la morte della
lìomanina, di ciò che potesse in qualsiasi modo scuoterlo ed ecci-
tarlo, sia per le liti e le recriminazioni che dovea soffrire da suo
fratello maggiore Leopoldo rimasto a Roma, sia per l' ipocondria
che stante l'età e le cause accennate lo tormentava, o perchè il
pensiero tornava sempre a quel passato in cui era vissuto glorioso,
la sua gran vena s'inaridì. Morì in Vienna il 12 aprile 1782; lasciò
il cospicuo patrimonio alla famiglia Martinez, in casa della quale
era stato molti anni in grandissima intrinsechezza. Gli furon fatte
straordinarie onoranze, e se ne scrissero copiose, ma però inesatte
biografie. Fu socio di moltissime accademie, ed ebbe, come pochi,
dimostrazioni di stima ed affetto, e universale indiscussa rinomanza.
Mentr'egli visse e poetò, tutta Europa, i)uò dirsi, pendeva dal
suo labbro armonioso e attendeva ansiosamente qualche suo nuovo
melodramma, che, molcendo i cuori, parlasse al cuore. L'Italia
ebbe per lui un fugace momento di primato letterario, e, sebbene
gli sia stato, non a torto, rimproverato di aver impoverito il lin-
guaggio e ristretto il vocabolario, è merito suo e de' suoi drammi
l'aver diffuso la conoscenza del nostro idioma presso le altre na-
zioni; e coir idioma anche la notizia delle lettere nostre. E se è
vero che non poco, nella condotta de' suoi drammi, prendesse dai
sommi tragici di Francia, è pur anche da notare che i tragici fran-
cesi del sec. XVIII molto imitarono da lui.'
' Landau, Die italien. Litcratnr nm iinterreischen Uofc, Wieu, 1879 ;
«rea/, iutì., Aquila, (Jiossi, 1880, cap. V, § 2.
* C. Frati, /*. M. e L. A. Muratori, Bolngtm, Fava e Garagnani, 1893.
• Vedi Ch. Dejob, Étudet tur la tragèdie, Paris, Colin, pagg. \AS-ìò2.
158 SECOLO XVriT.
Fra lo lodi dategli dai contemporanei, rammenteremo ciò cne
di lui scrisse J.-J. Rousseau : M. ani le seul poiite dn camr, le seni
(jénie fait pour émouvoir par le charme de Vharmonie poéiique
et musicale. E il Voltaire nella Disserlation sur la Tragedie an-
cienne et moderne premessa alla Seviiramis e dedicata al Card.
Quirini, dopo di averlo lodato per 1' osservanza delle tre unità, ag-
giunge: ajoutez qne ces j^ièces soni j^leines de celle poesie d'expres-
sion, et de celle éléyance continue, qui embellissent le nattirel sans
jamais le charger, talent que, depuis les Grecs, le seul Macine a
possedè parmi nous, et le seul Addison chez les Anglais. E in Italia,
per non citare i molti panegiristi, il Baretti lo chiamava nella
Frusta «fra i nostri poeti l'unico originale senza copia, e il solo
d'essi che meriti ad literam il raro appellativo d'inimitabile. »
Sola dissidente, in mezzo a tanto coro di elogj, fu 1' anima sde-
gnosa dell'Alfieri, al quale egli parve poeta servile, e che, in uno
degli eccessi a cui volentieri lasciavasi andare, prese il partito di
chiamar metastasiano tutto ciò che gli fosse sembrato cattivo. La
sua fama durò viva sino a tutto il secolo XVIII ed oltre; poi, can-
giati i tempi e i costumi e dissipato il fàscino di quella allettatrice
soavità e mollezza di suoni, se ne portò da fautori ed avversarj
nien passionato giudizio; ma lo Stendhal si avvicina al vero
scrivendo di lui: Il a été le poete de la musique. Son genie tendre
Va porte à fuir tout ce qui pouvait donner la moindre peine, méme
éloignée, à son spectateur. Il a reculé de ses yeux ce qu'ont de trop
poignant les peines du sentiment ; jamais de dénoùment malheu-
reux; jamais les tristes réalités de la vie; jamais ces froids soup-
Qons qui viennent empoisonner les passions les plus tendres. Il n'a
pris des passions que ce quHl en fallait pour intéresser, rien d'acre
et de farouche ; il ennohlit la volujyté. — C'est un charmant poète,
dice il Dejob, mais qui s^amuse de ses émotions mémes, et se garde
de les prolonger.... Il ne conqoit le thédtre.... que comme une suite
de comhiìiaisoìis surprenantes, qui délassent de la vie réelle. La
nation italienne, qui a souvent incline à chercher dans la litéra-
ture un piquant contraste avec la vie réelle, applaudissait.
Si posson notare nella produzione metastasiana varie maniere.
Dopo il Giustino, tragedia scritta a quattordici anni, compose la
Galatea, VEndimione, i ricordati Orti Esjperidi (1722), V Angelica,
che sono serenate, sorta di cantate drammatiche, destinate a ce-
lebrare un matrimonio, o una nascita, e ad essere fregio poetico
di un grande trattenimento; la Bidone, rappresentata nel 1724 a Na-
poli, il Siroe (1725), il Catone (1727) ed altre azioni draramatiche
fino aWArtaserse (1730). DaìV Adriano (1731) fanno i più decorrere
la sua seconda maniera, alla quale appartengono i migliori melo-
drammi : Demetrio, Issipile (1732), il Demofoonte, la Clemenza di
Tito (1734), fino ^WAttilio^Regolo (1740-1750), che è tenuto da al-
cuni pel suo capolavoro. Negli anni seguenti scrisse poco e medio-
cremente (la Nitteti, il Trionfo di Clelia, il Buggero). La prima
PIETRO METASTA8I0. 159
maniera del melodramma metastasiano, come dice il lleina pre-
ludendo ad una scelta in due volumi dei suoi melodrammi nel-
l'edizione milanese dei Classici (1820), si nota «per lo stile non
bastevolmente semplice e purgato, per la bizzarria ed incostanza
de' caratteri, l'andamento intralciato della tavola, la del)olezza
del dialogo e la poca economia del recitativo.» Nella seconda in-
vece egli «diede proprietà somma alla locuzione, i)recisione e sciol-
tezza maggiore al dialogo, sobrietà alle narrazioni, si)ontaneità,
delicatezza, vigore ed aflFetto alle arie. » Il melodramma metasta-
siano può pertanto definirsi una nuova forma della tragedia, ap-
projìriata ai tempi mutati e ai molli costumi del sec. XVIII; ma
se il linguaggio ne è un po' troppo lirico, e spesso sdolcinato, come
del resto si conveniva a quegli eroi e a quegli alTetti, nei quali,
dice il Balbo' è «ammollita la stessa virtù,» robusta è invece
r ossatura, a cosi dire, del componimento e sicuro il possesso dei
mezzi, come il raggiungimento degli effetti drammatici. Tra le
sue opere drammatiche se ne trovano anche delle sacre, od oi'a-
torj. Fu pure facilissimo lirico e, oltre le ariette moltissime in-
tercalate ne' drammi, scrisse liriche, specialmente canzonette, che
piac([uero e furono molto divulgate, sonetll, idillj, elegie, epitalamj :
alcune sue cantate vennero musicate dal Porpora, ec. Il Carducci
lo chiama, insieme col Rolli, uno de' corifei della canzonetta.- Tra-
dusse e annotò la Poetica d'Orazio, compose, premettendovi alcune
Considerazioni, un Estratto dell'arte jìoetica d^ Aristotele e Osser-
vazioni sul teatro greco, pregevoli per acume critico.^ Ci restano
anche molte sue Lettere, se non sempre elette per la forma, inte-
ressantissime per studiare la sua vita e le sue opere. Alle già
divulgate, specialmente dall' ab. D'Ayala nelle Opere 2>ostuvie
(Vienna, Alberti, 1795, 3 voi.), altre se ne aggiunsero dipoi, e può
vedersene la bibliografìa nella Prefazione di G. Carducci, alle
Lettere disperse e inedite di P. M. (Bologna, Zanichelli, 1883), ri-
masta al primo volume. Altre vennero pubblicate da C. Antona-
Traveusi (ediz. cit. a pag. 150 7i.), con Appendice di giudizj e scritti
assai notevoli di varj scrittori sul Metastasio.
Il Metastasio si può considerare come il miglior prodotto d'Ar-
cadia, alla cui seconda maniera si suol ricondurre. Ebbe attitu-
dini opposte a quelle del Gravina, che forse s'attendeva dal suo
alunno qualche cosa di diverso, se non di migliore, da quello
eh' ci produsse; e mostrò le virtù dell'arte sua nel rinnovamento
del melodramma che, dopo il Rinuccini, era andato corrompendosi
nella sostanza, e diventando sfarzoso e spettacoloso. Nò lo Zeno,
che pure iniziò la riforma, aveva saputo accordare, come fece il
* Pennieri sulla Storia d'' Italia, Firenze, Le Monnicr, 1858, png. 510.
- Velli noi MoRANUi, AntoJ. d. ciit. ìctt. mod., pag. ólfi e segg., lo scritto
del Cardi cci, / corifei della Canzonetta nel Secnìo XV IH.
^ T*. MORANDI, Il M. critico r pronatore, in Antoxa-Travf.rSI, op. cit.,
pag. 523.
100 SECOLO xviir.
suo successore, così bellamente la musica e la poesia, né ebbe
poi ([uoUa varietà d'accenti, (|uel tono d'eleganza drammatica,
quell'ovidiana facilità di verseggiare;, che furono doti precipue del
Metastasio.
[La migliore edizione delle o|)ere complete del Metastnsio <;
quella di Parigi, Ilerissant, 1780-82, voi. 12, con dissertazione di
li. CALSABiar, e dopo questo la Veneziana, Zatta, 1782-84, voi. 7 :
l)Uone anche quelle di Firenze, tip. Granducale, 1819 e 18.S0. Varie
furono le edizioni parziali, come varie le traduzioni in più lingue.
Vedi sul M., J. vox Ketzer, Mefasiasio, 8kizzen, Wien, 1782;
G. A. Taruffi, Elofjio storico del M., Koma, 178G; M. A. Aluici,
Storia dell' ab. P. M., Assisi, 178.3; G. C. CORDARA, Discorso in
morte del M., Roma, 1783; Sav. Mattei, Memorie per servire
alla vita del M., Colle, 1785 ; F. FRANCESCHI, Apologia delle opere
drammatiche di P. M., Lucca, 1786; J. A. HiLLER, Ueher M. n.
seine Werke, Leipzig, 1786 ; Cll. BURNEY, Mem. of the life and,
writings of the ah. P.M., London, 1789; Aneddoti segreti della vita
dell' ab. P.M., Roma, Fuccinelli, 1801; De Stendhal, Vies de
Haydn, de Mozart et de Metasfase, Paris, Delaunay. 1817: nouv.
édit, Paris, Lévy, 1883 ; Vernon Lee, Il settecento in Italia, Mi-
lano, Dumoulard, 1881, voi. I, p. 26 e segg.; Fr. De Sanctis, P. M.,
in iVMou.^n^oL, agosto 1871; A. Mussafia. P.Met., Wien, Gerokl,
1882; G. Carducci, P. M., nella Dom. ìetter., 16 aprile 1882, e
Metastasiana, nella Cronaca Bizantina, 15 giugno 1883; L. Fal-
coni, P. M. alla corte di Carlo VI e sua rinomanza nei sec. XVIII
e XIX, Vienna, Frick, 1883; E. Masi, P. M., nel Whvo Parrucche
e Sanctdotii nel sec. XVIII, Milano, Treves, 1886, p. 7 e segg.;
O. TOMMASINI, P. M. e lo svolgimento del melodramma italiano,
negli Scritti di storia e critica, Roma, Loescher, 1891, p. 182 e segg.;
G. Mazzoni. Dal M. a V. Alfieri, in La Vita ital. del settecento,
p. 173, Milano, TreveS; 1896.]
La clemenza di Tito.
Diamo un sunto e rechiamo lunghi brarà di questo dramma, bel-
lissimo fra quanti ne scrisse il Metastasio, e del quale alcune parti
sembravano al Voltaire paragonabili e superiori forse a quanto la
Grecia aveva di più bello, anzi degni di Corneille quando non è de-
clamatore e di Racine quando non è sfibrato.
Atto primo. Vitellia, discendente dall' imperatore Vitellio, cui
il padre di Tito tolse il regno e la vita, e che ama in segreto
Tito, ma teme le preferisca la regina Berenice, incita Sesto, che
è preso di fervido amore per lei, contro il suo benefattore ed amico,
sicché egli trovasi combattuto da due affetti:
Cirio ti spieghi il mio stato almen C3ncedi.
Tu vendetta mi chiedi :
PIETRO METASTASIO. ICl
Tito vuol fedelU. Tu di tua mano
Con l'oH'erta mi sproni: ei mi raflrena
Co' ben eli zj suoi. Per te l'amore,
Per lui parla il dover. Se a te ritorno,
Sempre ti trovo in volto
Qualche nuova beltà ; se torno a lui,
Sempre gli scopro in seno
Qualche nuova virtù. Vorrei servirti ;
Tradirlo non vorrei. Viver non posso
Se ti perdo, mia vita ; se t' acquisto,
Vengo in odio a me stesso.
Ella gli ordina di intendersi con Lcntulo, suscitare in Campi-
doglio un tunuilto e uccidere Tito prima del finir del giorno. So-
pravviene Annio, ed annunzia che Tito ha allontanato Berenice ;
e Vitellia, in cui risorge la speranza, ordina a Sesto di sospendere
il colpo. Annio chiede a Sesto la mano della sorella sua Servilia.
Sesto rimasto solo riflette sul suo destino (se. 4").
Sesto. Numi, assistenza. A poco a poco io perdo
L' arbitrio di me stesso. Altro non odo
Che il mio funesto amor. Vitellia iia in fronte
Un astro che governa il mio destino.
La superba lo sa, ne abusa ; ed io
Nò pure oso lagnarmi. Oh sovrumano
Poter della beltà ! Voi che dal Cielo
Tal dono aveste, ah non prendete esempio
Dalla tiranna mia! Regnate, è giusto ;
Ma non così severo,
Ma non sia cosi duro il vostro impero.
Siamo innanzi al tempio di Giove Statore e il coro canta le
lodi di Tito, cui il Senato ha decretato un tempio come a padre
della patria. Tito ritìnta queste onoranze (scO"*).
l'ito. Romani, unico oggetto
È dei voti di Tito il vostro amore ;
Ma il vostro amor non passi
Tanto i contini suoi.
Che debbano arrossirne e Tito e voi.
Più tenero, più caro
Nome che quel di padre
Per me non v' è ; ma meritarlo io voglio,
Ottenerlo non curo. I sommi Dei,
Quanto imitar mi piace,
Abborrisco emular. Li perde amici
Chi li vanta compagni ; e non si trova
Follia la più fatale,
Che potersi scordar d' esser mortale.
Quegli offerti tesori
IV. Il
1G2 SECOLO XVIII.
Non ricuso però; cambiarne solo
L' uso pretendo. Udite. Oltre V usato
Terribile il Vesevo ardenti fiumi
Dalle fauci eruttò ; scosse le rupi ;
Riempiè di ruine
I campi intorno e le città vicine.
Le desolate genti
Fuggendo van : ma la miseria opprime
Quei che al fuoco avanzar. Serva quell'oro
Di tanti afflitti a riparar lo scempio.
Questo, Romani, e fabbricarmi il tempio.
Mentre Annio e Sesto stanno per chiedergli l'assenso all'unione
di Servilia col primo di essi, Tito, annunziando di aver rinunziato
per sempre a Berenice, fa sapere eh' egli ha eletto Servilia ap-
punto per sua sposa, ed incarica Annio stesso di recarle tale no-
vella. Smanie de' due amanti.
In un delizioso ritiro del Palatino, Publio, prefetto del preto-
rio, reca a Tito un foglio su cui sono scritti 1 nomi di coloro, che
osarono oltraggiar la memoria dei Cesari trapassati. Tito ricusa
di riceverlo (se. 8'').
Tito. Barbara inchiesta
Che agli estinti non giova, e somministra
Mille strade alla frode
D'insidiar gl'innocenti. Io da quest'ora
Ne abolisco il costume ; e perchè sia
In avvenir la frode altrui delusa,
Nelle pene de' rei cada chi accusa.
Publio. Giustizia è pur....
Tito. Se la giustizia usasse
Di tutto il suo rigor, sarebbe presto
Un deserto la terra. Ove si trova
Chi una colpa non abbia o grande, o lieve?
Noi stessi esaminiam. Credimi, è raro
Un giudice innocente
Dell' error che punisce.
Publio. Hanno i castighi....
Tito. Hanno, se son frequenti,
Minore autorità. Si fan le pene
Familiari a' malvagi. Il reo s' avvede
D' aver molti compagni ; ed è periglio
II pubblicar quanto sian pochi i buoni.
Publio. Ma v' è, signor, chi lacerare ardisce
Anche il tuo nome.
Tito. E che perciò? Se il mosse
Leggerezza, noi curo ;
Se follia, lo compiango ;
Se ragion, gli son grato ; e se in lui sono
Impeti di malizia, io gli perdono.
PIETRO METASTASIO. 163
Sopravviene Servilin, che manifesta a Tito l'amore suo per
Annio (se. 9*).
Tito. Grazie, o Numi del elei. Pure una volta
Senza larve sul viso
Mirai la verità. Pur si ritrova
Chi s' avventuri a dispiacer col vero.
Servilia, oh qual contento
Oggi provar mi lai ! Quanta mi porgi
Ragion di meraviglia! Annio pospone
Alla grandezza tua la propria pace !
Tu ricusi un impero
Per essergli fedele ! Kd io dovrei
Turbar tìanime sì belle ^ Ah ! non produce
Sentimenti sì rei di Tito il core.
Figlia (che padre in vece
Di consorte m'avrai), sgombra dall'alma
Ogni timore. Annio è tuo sposo. Io voglio #
Stringer nodo sì degno. Il Ciel cospiri
Meco a farlo felice ; e n* abbia poi
Cittadini la patria eguali a voi.
Servilia. Oh Tito ! oh Augusto ! oh vera
Delizia de' mortali ! io non saprei
Come il grato mio cor....
Tito. Se grata appieno
Esser mi vuoi, Servilia, agli altri inspira
Il tuo candor. Di pubblicar procura
Che grato a me si rende,
Più del falso che piace, il ver che offende.
Vitellia, che crede all' unione di Servilia con Tito, eccita nuo-
vamente Sesto che resta sempre perplesso (se. 11»).
Sesto. Se una ragion potesse
Almen giustificarmi....
Vitellia. Una ragione !
Mille ne avrai, qualunque sia l'affetto
Da cui prenda il tuo cor regola e moto.
È la gloria il tuo voto? Io ti propongo
La patria a liberar. Frangi i suoi ceppi ;
La tua memoria onora ;
Abbia il suo Bruto il secol nostro ancora.
Ti senti d' un' illustre
Ambizion capace ? Eccoti aperta
Una strada all'impero. I miei congiunti,
Gli amici miei, le mie ragioni al soglio
Tutte impegno per te. Può la mia mano
Renderti fortunato? Eccola. Corri,
Mi vendica, e son tua. Ritorna asperso
Di quel perfido sangue, e tu sarai
1G4 SECOLO XVITT.
La delizia, T amore,
La tenerezza mia. Non basta? Ascolta,
E dubita se puoi. Sappi clie amai
Tito finor: che del mio cor l'acquisto
Ei t'impedì; che, se rimane in vita,
Si può pcntir ; eh' io ritornar potrei,
Non mi fido di me, forse ad amarlo.
Or va', se non ti muove
Desio di gloria, ambizione, amore ;
Se tolleri un rivale
Che usurpò, che contrasta.
Che involar ti potrà gli affetti miei,
Degli uomini il più vii dirò che sei.
Sesto. Quante vie d* assalirmi !
Basta, basta, non più. Già m'inspirasti,
Vitellia, il tuo furore. Arder vedrai
Fra poco il Campidoglio; e questo acciaro
Nel sen di Tito.... (Ah sommi Dei, qual gelo
Mi ricerca le vene !)
Vitellia. Ed or che pensi?
Sesto. Ah Vitellia !
Vitellia. Il previdi ;
Tu pentito già sei....
Sesto. Non son pentito,
Ma....
Vitellia. Non stancarmi più. Conosco, ingrato,
Che amor non hai per me. Folle eh' io fui !
Già ti credea ; già mi piacevi, e quasi
Cominciava ad amarti. Agli occhi miei
Involati per sempre,
E scordati di me.
Partito Sesto, sopraggiunge Publio ad annunziare che Tito ha
scelto Vitellia per sposa: essa lo prega di raggiunger Sesto e ri-
condurglielo innanzi (se. 13*).
Vitellia. Che angustia è questa! Ah! caro Tito, io fui
Teco ingiusta, il confesso. Ah! se frattanto
Sesto il cenno eseguisse, il caso mio
Sarebbe il più crudel.... No, non si faccia
Sì funesto presagio. E se mai Tito
Si tornasse a pentir!... Perchè pentirsi?
Perchè l'ho da temer? Quanti pensieri
Mi si affollano in mente ! Afflitta e lieta,
Godo, torno a temer, gelo, m' accendo :
Me stessa in questo stato io non intendo.
Atto secondo. Sesto ha trattato con Lentulo, ed è sempre più
combattuto dai rimorsi del tradimento, a cui si è lasciato trascinare
per amore di Vitellia. Il tumulto intanto è cominciato, ed egli si
I
PIETRO METASTASIO. 165
separa precipitosamente da Annio. Vitellia e in cerca di Sesto,
che le giunge innanzi dandole notizia di aver veduto trafitto
Tito, il cui sangue, avendogli egli tratto il ferro infittogli nelle
terga, gli ha imbrattato il manto (se. C").
Sesto, Ali! pnncipes5:a,
Che fia di me? Come avrò mai più pace?
Quanto, alii quanto mi costa
Il desio di piacerti I
Vitellia. Anima rea,
Piacermi! Orror mi fai. Dove si trova
Mostro peggior di te? Quando s'intese
Colpo più scellerato? Hai tolto al mondo
Quanto avea di più caro; hai tolto a Roma
Quanto avea di più grande. E chi ti fece
Arbitro do' suoi giorni?
Di', qual colpa, inumano,
Punisti in lui? L'averti amato? È vero,
Questo è l'error di Tito,
Ma punir noi dovea chi l'ha punito.
Sesto. Onnipotenti Dei! son io? Mi parla
Così Vitellia? E tu non fosti....
Vitellia. Ah! taci,
Barbaro, e del tuo fallo
Non volermi accusar. Dove apprendesti
A secondar le furie
D' un'amante sdegnata?
Qual anima insensata
Un delirio d'amor nel mio trasporto
Compreso non avrebbe? Ah! tu nascesti
Per mia sventura. Odio non v'è che ollenda
Al par dell'amor tuo. Nel mondo intero
Sarei la più felice,
Empio, se tu non eri. Oggi di Tito
La destra stringerei ; leggi alla terra
Darei dal Campidoglio; ancor vantarmi
Innocente potrei. Per tua cagione
Son rea, perdo l'impero.
Non spero più conforto;
E Tito, ah scellerato! e Tito è morto.
Vitellia parte fuori di sé: resta Sesto in preda al dolore.
Sesto. Grazie, o Numi crudeli. Or non mi resta
Più che temer. Della miseria umana
Questo è l'ultimo segno. Ho già perduto
Quanto perder potevo. Ho già tradito
L'amicizia, l'amor, Vitellia e Tito.
Uccidetemi almeno,
Smanie, che m'agitate,
Furie che lacerate
IGG sp:colo XVIII.
Questo perfido cor. Se lente siete.
A compir la vendetta,
Io stesso, io la farò.
Annio viene niMiidato in .cerca di Sesto da Tito, che non è
stato ncciso. Sesto confida all' amico di' egli fu autore del tumulto;
l'amico lo esorta a fug{?irc e scambia col proprio il manto san-
guinoso dell'altro. La scena è in una galleria del palazzo impe-
riale. Servilia narra a Tito le vicende del tumulto, in che rimase
ucciso Lentulo, il quale aveva indossato le vesti imperiali, sicché
fu trafitto da un congiurato che lo prese per Tito (se. 8";.
Tito, Or di', Servilia,
Che ti sembra un impero? Al bene altrui
Chi può sagrificarsi
Più di quello ch'io feci? E pur non giunsi
A farmi amar; pur v' è chi m'odia e tenta
Questo sudato alloro
Svellermi dalla chioma,
E ritrova seguaci; e dove? in Roma.
Tito, l'odio di Roma! Eterni Dei!
Io, che spesi per lei
Tutti i miei dì, che per la sua grandezza
Sudor, sangue versai,
E or sul Nilo, or su l'Istro arsì e gelai!
Io, che ad altro, se veglio,
Fuor che alla gloria sua pensar non oso;
Che in mezzo al mio riposo
Non sogno che il suo ben; che, a me crudele.
Per compiacere a lei
Sveno gli effetti miei, m'opprimo in seno
L' unica del mio cor fiamma adorata !
Oh patria! oh sconoscenza! oh Roma ingrata!
Entrano Sesto, Vitellia e Annio, che ha indosso il manto di Sesto,
sul quale è il segno dei congiurati: vario contrasto d'afifetto in
Servilia e Vitellia, che temono di perdere l'una lo sposo perchè
traditore, l'altra lo sposo insieme e il trono come traditrice; in
Sesto, che non osa parlare a cui duole sacrificar Annio; in Annio
che è combattuto fra l'affetto all'amico, l'amore alla sposa, il ti-
mor dell'infamia. Restano soli Sesto e Vitellia, la quale teme che
egli scopra il segreto (se. 14»).
Sesto. In questo seno
Sepolto resterà. Nessuno il seppe:
Tacendolo morrò.
Vitellia. Mi fiderei,
Se minor tenerezza
Per Tito in te vedessi. 11 suo rigore
Non temo già; la sua clemenza io temo:
i
PIETRO METASTASIO.
167
Questa ti vincerebbe. Ah! per ({ue' primi
Momenti in cui ti piac(iui; .-ilil per le care
Dolci speranze tue, rug<,n, assiema
Il mio timido cor. Tanto Tacesti,
L'opra compisci. Il più gran dono è questo
Che far mi puoi.
Ma Lontulo non è morto ed ha svelato In retta di Sesto, e Pu-
blio viene d'ordine di Tito ad arrestarlo. Egli si separa disperato
da Vitcllia (se. 15*).
Sesto. So mai senti spirarti sul volto
Lieve fiato che lento s'aggiri,
Di', son questi gli estremi sospiri
Del mio lido che muore per me.
Al mio spirto dal seno disciolto
La memoria di tanti martiri
Sarà dolce con questa mercè.
V i teli i a. Mìsern, che farò? Queir infelice.
Oh Dio! muore per me. Tito fra poco
SapriX il mio fallo, e lo sapran con lui
Tutti per mio rossor. Non ho coraggio
Nò a parlar, né a tacere.
Né a fuggir, né a restar. Non spero aiuto.
Non ritrovo consiglio. Altro non veggo
Che imminenti ruine; altro non sento
Che moti di rimorso e di spavento.
Alto terzo. Tito discorre con Publio, e teme un'insidia nella
denunzia di Lentulo, ma Anuio gli toglie ogni dubbio (so. 2*).
Tito. No, così scellerato
Il mio Sesto non credo. Io l' ho veduto
Non sol fido ed amico,
Ma tenero per me. Tanto cambiarsi
Un'alma non potrebbe. Annio, che rechi?
L'innocenza di Sesto,
Come la tua, di', si svelò? Che dice?
Consolami.
Annio. Ah signor! pietà per lui
Io vengo ad implorar.
Tito. Pietà! Ma dunque
Sicuramente è reo?
Antiio. Quel manto, ond'io
Parvi infedele, egli mi die. Da lui
Sai che seppesi il cambio. A Sesto in faccia
Esser da lui sedotto
Lentulo afferma, e l'accusato tace.
Che sperar si può mai?
Tito. Speriamo, amico,
Speriamo ancora. Agi' infelici è spesso
168 SECOLO XVIII.
Colpa la sorte; e quel che vero appare,
Sempre vero non è. Tu ne lioi le prove.
Con la divisa infame
Mi vieni innanzi; o^mun t'accusa; io chiedo
Degl'indizi ragion; tu non rispondi,
Palpiti, ti confondi.... A tutti vera
Non parca la tua colpa? E pur non era.
Chi sa? di Sesto a danno
Può il caso unir le circostanze istesse,
somiglianti a quelle.
Annio. Il Ciel volesse!
Ma se poi fosse reo?
Tito. Ma se poi fosse reo, dopo si grandi
Prove dell'amor mio; se poi di tanta
Enorme ingratitudine è capace.
Saprò scordarmi appieno
Anch'io.... Ma non sarà: lo spero almeno.
Publio arreca a Tito la sentenza del Senato, che condanna
Sesto alle fiere. Tito riraan solo (se. 4*).
Tito. Che orrori che tradimento!
Che nera infedeltà ! Fingersi amico ;
Essermi sempre al fianco; ogni momento
Esiger dal mio core
Qualche prova d'amore, e starmi intanto
Preparando la morte! Ed io sospendo
Ancor la pena? E la sentenza ancora
Non segno.... Ah sì, lo scellerato mora.
Mora.... Ma senza udirlo
Mando Sesto a morir? Sì, già l'intese
Abbastanza il Senato. E s'egli avesse
Qualche arcano a svelarmi? (Olà.) S'ascolti,
E poi vada al supplizio. (A me si guidi
Sesto.) È pur di chi regna
Infelice il destino! A noi si niega
Ciò che a' più bassi è dato. In mezzo al bosco
Quel villanel mendico, a cui circonda
Ruvida lana il rozzo fianco, a cui
È mal fido riparo
Dall'ingiurie del ciel tugurio informe.
Placido i sonni dorme ;
Passa tranquillo i dì: molto non brama:
Sa chi l'odia e chi l'ama; unito o solo
Torna sicuro alla foresta, al monte,
E vede il core a ciascheduno in fronte.
Noi fra tante grandezze
Sempre incerti viviam ; che in faccia a noi
La speranza o il timore
Su la fronte d'ognun trasforma il core.
PIETRO METASTASIO.
169
Entra Sesto fra i littori (se. 6»).
Sesto. (Numi! È quello ch'io miro
Di Tito il volto? Ali la dolcezza usata
Più non ritrovo in lui! Come divenne
Terribile per me!)
Tito. (Stelle! Kd ò questo
Il sembiante di Sesto? Il suo delitto
Come lo trasformò! Porta sul volto
La vergogna, il rimorso e lo spavento.)
l^ublio. (Mille alletti diversi ecco a cimento.)
Tito. Avvicinati.
Sesto. (Oh voce
Che mi piomba sul cor!)
Tito. Non odi?
Sesto. (Oh Dio!
Mi trema il piò ; sento bagnarmi il volto
Da gelido sudore :
L'angoscia del morir non è maggiore.)
Tito. (Palpita l'infedel.)
Publio, (Dubbio mi sembra,
Se il pensar che ha fallito
Più dolga a Sesto, o se il punirlo a Tito.)
Tito. (L pur mi fa pietà.) Publio, custodi,
Lasciatemi con lui.
Sesto. (No, di quel volto
Non ho costanza a sostener l'impero.)
Tito. Ah Sesto, è dunque vero?
Dunque vuoi la mia morte? E in che t'olTese
Il tuo prence, il tuo padre,
Il tuo benefattor? Se Tito Augusto
Hai potuto obbliar, di Tito amico
Come non ti sovvenne? Il premio è questo
Della tenera cura
Ch'ebbe sempre di te? Di chi fidarmi
In avvenir potrò, se giunse, oh Dei!
Anche Sesto a tradirmi? E lo potesti?
E il cor te lo sofferse?
Sesto. Ah Tito! ah mio
Clementissimo prence!
Non più, non più. Se tu veder potessi
Questo misero cor, spergiuro, ingrato,
Pur ti farei pietà. Tutte ho su gli occhi
Tutte le colpe mie; tutti rammento
I benefizj tuoi : soffrir non posso
Né r idea di me stesso.
Né la presenza tua. Quel sacro volto,
La voce tua, la tua clemenza istessa
Diventò mio supplizio. Affretta almeno,
Affretta il mio morir. Toglimi presto
170 SECOLO XVIII.
Questa vita infednl; lascia ch'io versi,
Se pietoso esser vuoi,
Questo perfido sangue a' piedi tuoi.
Tito, Sorgi, infelice, (Il contenersi è pena
k quel tenero pianto.) Or vedi a quale
Lagrimevole stato
Un delitto riduce, una sfrenata
Avidità d'impero! E che sperasti
Di trovar mai nel trono? Il sommo forse
D'ogni contento? Ah sconsigliato! osserva
Quai frutti io ne raccolgo;
E bramalo, se puoi.
Sesto. No, questa brama
Non fu che mi sedusse.
Tito. Dunque che fu?
Sesto, La debolezza mia,
La mia fatalità.
Tito. Più chiaro almeno
Spiegati.
Sesto. Oh Dio! non posso.
Tito, Odimi, Sesto;
Siam soli ; il tuo sovrano
Non è presente. Apri il tuo core a Tito,
Confidati all'amico; io ti prometto
Che Augusto noi saprà. Del suo delitto
Di' la prima cagion. Cerchiamo insieme
Una via di scusarti. Io ne sarei
Forse di te più lieto.
Sesto. Ah! la mia colpa
Non ha difesa.
Tito. In contraccambio almeno
D'amicizia lo chiedo. Io non celai
Alla tua fede i più gelosi arcani;
Merito ben che Sesto
Mi fidi un suo segreto.
Sesto. (Ecco una nuova
Specie di pena! dispiacere a Tito,
Vitellia accusar.)
Tito. Dubiti ancora?
Ma, Sesto, mi ferisci
Nel più vivo del cor. Vedi che troppo
Tu l'amicizia oltraggi
Con questo diffidar. Pensaci. Appaga
Il mio giusto desio.
Sesto. (Ma qual astro splendeva al nascer mio!)
Tito. E taci? e non rispondi? Ah già che puoi
Tanto abusar di mia pietà....
Sesto, Signore....
Sappi dunque.... (Che fo?)
Tito, Siegui.
J
PIETRO METASTASIO.
Sesto. (Ma (niaii<l >
Finirò (li penar?)
Tito. Parla una volta:
Che mi volevi dir?
Sesto. Cirio son l'oggett >
Dell'ira de<;\ì Dei; che la mia sorte
Non ho più forza a tollerar; ch'io stesso
Trailitor mi confesso, empio mi chiamo;
CAì io merito la morte e eh' io la bramo.
Tito. Sconoscente! e l'avrai: Custodi, il reo
Toglietemi dinanzi.
Sesto. Il bacio estremo
Su quella invitta man....
Tito. Parti.
Sesto, Fia questo
L' ultimo don. l*er questo solo istante
Ricordati, signor, l'amor primiero.
Tito. Parti ; non è più tempo. .
Sesto. È vero, è vero.
Vo disperato a morte ;
Né perdo già costanza
A vista del morir.
Funesta la mia sorte
La sola rimembranza
Ch'io ti potei tradir, (parte)
Tito. E dove mai s' intese
Più contumace infedeltà! Poteva
Il più tenero padre un tìglio reo
Trattar con più dolcezza? Anche innocente
D'ogni altro error, saria di vita indegno
Per questo sol. Deggio alla mia negletta
Disprezzata clemenza una vendetta.
Vendetta! Ah Tito! e tu sarai capace
D' un s'i basso desio, che rende eguale
L'offeso all'offensor? Merita in vero
Gran lode una vendetta, ove non costi
Più che il volerla. Il tórre altrui la vita
È facoltà comune
Al più vii della terra; il darla è solo
De' Numi e de' regnanti. Eh! viva.... Invano
Parlan dunque le leggi? Io, lor custode,
Le eseguisco così? Di Sesto amico
Non sa Tito scordarsi? Han pur saputo
Obbliar d'esser padri e Manlio e Hruto.
Sieguansi i grandi esempj. Ogni altro affetto
D'amicizia e pietà taccia per ora.
Sesto è reo; Sesto mora.... Eccoci alfine
Su le vie del rigore: eccoci aspersi
Di cittadino sangue; e s'incomincia
Dal sangue d'un amico. Or che diranno
171
IL.
172 SECOLO XVIII.
I posteri di noi? Diran che in Tito
Si stancò la clemenza,
Come in Siila e in Augusto
La crudeltà. Forse diran che troppo
Rigido io fui; clferan difese al reo
I natali e l'età; che un primo errore
Punir non si dovea; che un ramo infermo
Subito non recide
Saggio cultor, se a risanarlo invano
Molto pria non sudò; che Tito alfine
Era r offeso; e che le proprie offese,
Senza ingiuria del giusto,
Ben poteva obbliar.... Ma dunque io faccio
Si gran forza al mio cor? Né almen sicuro
Sarò ch'altri m'approvi? Ahi non si lasci
II solito cammin. Viva l'amico,
Benché infedele ; e se accusarmi il mondo
Vuol pur di qualche errore,
M'accusi di pietà, non di rigore.
Publio.
Publio. Cesare.
Tito. Andiamo
Al popolo che attende.
Publio. E Sesto?
Tito. E Sesto
Venga all'arena ancor.
Publio. Dunque il suo fato....
Tito. Sì, Publio, é già deciso.
Publio. (0 sventurato!)
Tutto è stabilito per la morte di Sesto: Vitellia intanto è tor-
mentata dai più atroci rimorsi, e vuol gettarsi ai piedi di Tito e
scoprir tutto. La scena rappresenta l'atrio dell'anfiteatro, ove i
rei saranno dati alle fiere: il coro ringrazia gli Dei di aver sal-
vato Tito. Invano Servilia implora la vita del fratello, che Tito le
risponde il suo destino esser deciso: ma Vitellia gli scopre il
vero, dicendo come è stata trascinata al delitto, e perchè vi ha
preso parte Sesto (se. 13*).
Tito. E quanti mai,
Quanti siete a tradirmi?
Ma che giorno è mai questo! Al punto istesso
Che assolvo un reo, ne scopro un altro! E quando
Troverò, giusti Numi,
Un'anima fedel? Congiuran gli astri,
Cred'io, per obbligarmi a mio dispetto
A diventar crudel. No, non avranno
Questo trionfo. A sostener la gara
Già s'impegnò la mia virtù. Vediamo
PIETRO METASTASIO. 173
Se più costante sia
L'altrui perfidia o la clemenza mia.
Olà, Sesto si sciolga; abbian di nuovo
Lentulo e i suoi seguaci
E vita e libertà. Sia noto a Roma
Ch'io son ristesso, e ch'io
Tutto so, tutti assolvo e tutto oblio.
VitoHia sposa Sesto perdonato, Servilia Aniiio. Il coro ripete
le Iodi dell' imperatore.
Coro. Che del Ciel, che degli Dei
Tu il pensier, l'amor tu sei,
Grand' eroe, nel giro angusto
Si mostrò di questo dì.
Ma cagion di meraviglia
Non è già, felice Augusto,
Che gli Dei chi lor somiglia
Custodiscano così.
Amor di patria di Temistocle.
Serse. Il segno a me del militare impero
Fa' che si rechi.
Lisimaco. (A qual funesto impiego,
Amico, il Ciel mi destinò! Con quanto
Rossor....)
Temisi. (Di che arrossisci? Io non confondo
L'amico e il cittadin. La patria è un Nume,
A cui sacrificar tutto è permesso ;
Anch'io nel caso tuo farei ristesse.)
Serse. Temistocle, t' appressa. In un raccolta
Ecco de' miei guerrieri
La più gran parte e la miglior; non manca
A tante squadre ormai
Che un degno condottieri tu lo sarai.
Prendi: con questo scettro arbitro e duce
Di lor ti eleggo. In vece, mia punisci,
Premia, pugna, trionfa. È a te fidato
L'onor di Serse e della Persia il fato.
Lisim. (Dunque il re mi deluse,
Aspasia lo placò.)
Temisi. Del grado illustre,
Monarca eccelso, a cui mi veggo eletto,
In tua virtù sicuro.
Il peso accetto e fedeltà ti giuro.
Faccian gli Dei che meco
A militar per te venga Fortuna;
se sventura alcuna
Minacciasser le stelle, unico oggetto
1.
174 SECOLO XVIII.
Temistocle ne sia. Vincan le squadre,
Perisca il condottiero; a te ritorni
Di lauri poi, non di cipressi cinto
Fra Tarmi vincitrici il duce estinto.
Lisim. In questa guisa, o Serse,
Temistocle consegni?
Serse. Io sol giurai
Di rimandarlo in Grecia. Odi se adempio
Le mie promesse. Invitto duce, io voglio
Punito alfln queir insolente orgoglio.
Va': l'impresa d'Egitto
Basta ogni altro a compir: va' del mio sdegno
Portatore alla Grecia. Ardi, ruina,
Distruggi, abbatti e fa' che senta il peso
Delle nostre catene
Tebe, Sparta, Corinto, Argo ed Atene.
Temisi. (Or son perduto.)
Lisim. E ad ascoltar m'inviti....
Seì^se. Non più : vanne, e riporta ]
Sì gran novella a' tuoi. Di'lor qual torna ;
L'esule in Grecia, e quai compagni ei guida.
Lisim. (0 patria sventurata ! oh Aspasia infida!)
Temisi. (Io traditor?)
Seì^se. Duce, che pensi?
Temisi. Ah! cambia
Cenno, mio re. V è tanto mondo ancora
Da soggiogar.
Serse. Se della Grecia avversa
Pria l'ardir non confondo,
Nulla mi cai d'aver soggetto il mondo.
Temisi. Rifletti....
Serse. È stabilita
Di già l'impresa; e chi si oppon, m'irrita.
Temisi. Dunque eleggi altro duce.
Serse. Perchè?
Temisi. Dell'armi Perse
10 depongo l' impero al pie di Serse.
Serse. Come!
Temisi. E vuoi ch'io divenga
11 distruttor delle paterne mura?
No, tanto non potrà la mia sventura.
Sebasie. (Che ardir!)
Serse. Non è più Atene, è questa reggia
La patria tua: quella t'insidia, e questa
T' accoglie, ti difende e ti sostiene.
Temisi. Mi difenda chi vuol, nacqui in Atene.
È istinto di natura
L'amor del patrio nido. Amano anch'esse
Le spelonche natie le fiere istesse.
Serse. (Ah! d'ira avvampo.) Ah! dunque Atene ancora
PIETRO METASTASIO. 175
Ti star nel cor! IMa che tanto ami in lei?
Temisi. Tutto, signor; le ceneri degli avi,
Le sacre leggi, i tutelari Numi.
La favella, i costumi.
Il sudor che mi costa.
Lo splendor che no trassi.
L'aria, i tronchi, il terren, le mura, i sassi.
Serse. Ingrato! E in l'accia mia
Vanti con tanto fasto
Un amor che m'oltraggia?
Temisi. Io son....
Seì'se, Tu sei
Dunque ancor mio nemico. Invan tentai
Co'benofizj miei....
Temisi. Questi mi stanno,
E a caratteri eterni.
Tutti impressi nel cor. Serse m'additi
Altri nemici sui ;
Ecco il mio sangue, il verserò per lui.
Ma della patria a' danni
Se pretendi obbligar gli sdegni miei,
Serse, t' inganni : io morirò per lei.
Serse. Non più; pensa e risolvi. Esser non lice
Di Serse amico e difensor d'Atene;
Scegli qual vuoi.
Temisi. Sai la mia scelta.
Serse. Avverti ;
Del tuo destin decide
Questo momento.
Temisi. 11 so pur troppo.
Serse. Irriti
Chi può farti infelice.
Temisi. Ma non ribelle.
Serse, Il viver tuo mi devi.
Temisi. Non Toner mio.
Serse. T'odia la Grecia.
Temisi. Io l'amo.
Serse. (Che insulto, oh Dei!) Questa mercede ottiene
Dunque Serse da te?
Temisi. Nacqui in Atene.
Serse. (Più frenarmi non posso.) Ah ! queir ingrato
Toglietemi dinanzi ;
Serbatelo al castigo. E pur vedremo
Forse tremar questo coraggio invitto.
Temisi. Non è timor dove non è delitto.
Serberò fra' ceppi ancora
Questa fronte ognor serena:
È la colpa, e non la pena.
Che può farmi impallidir.
Reo son io ; convien eh* io mora.
17G SECOLO xviir.
Se la fede error s'appella;
Ma per colpa cosi bella
Son superbo eli morir.
(Dal Temihtode, atto II, scena VII o VIII.j
La virtù di Regolo.
Amile. Di Cartago il Senato,
Bramoso di depor V armi temute,
Al Senato di Roma invia salute ;
E se Roma desia
Anche pace da lui, pace gì' invia.
Manlio. Siedi ed esponi. E tu V antica sede,
Regolo^ vieni ad occupar.
Regolo. iMa questi
Chi sono?
Manlio. I padri.
Regolo. E tu chi sei?
Manlio. Conosci
Il console si poco?
Regolo. E fra il console e i padri un servo ha lo3o?
Manlio» No ; ma Roma si scorda
Il rigor di sue leggi
Per te, cui dee cento conquiste e cento.
Regolo. Se Roma se ne scorda, io gliel rammento.
Manlio. (Più rigida virtù chi vide mai ?)
Publio. Né Publio sederà.
Regolo. Publio, che fai?
Publio. Compisco il mio dover : sorger degg' io
Dove il padre non siede.
Regolo. Ah tanto in Roma
Son cambiati 1 costumi! Il rammentarsi
Fra le pubbliche cure
D' un privato dover, pria che tragitto
In Africa io facessi, era delitto.
Publio. Ma....
Regolo. Siedi, Publio; e ad occupar quel loco
Più degnamente attendi.
Publio. Il mio rispetto
Innanzi al padre è naturale istinto.
Regolo. Il tuo padre mori quando fu vinto.
Manlio. Parla, Amilcare, ormai.
Amile. Cartago elesse
Regolo a farvi noto il suo desio.
Ciò eh' ei dirà, dice Cartago ed io.
Manlio. Dunque Regolo parli.
Amile, Or ti rammenta
Che, se nulla otterrai,
Giurasti....
Regolo. Io compirò quanto giurai.
PIETRO METASTASIO.
177
Amile.
Publio.
Maìtlio,
Regolo.
Manlio,
Regolo,
Amile.
Regolo.
Publio.
Regolo,
Manlio. (Ui lui si tratta: oh conio
Parlar saprà !)
IHiblio. (Numi di lionia, ali voi
Inspirate eloiiuenza a'ialjbri suoi!)
Regolo. La nemica Cartaio,
A patto che sia suo quant'or possiede,
Pace, o padri coscritti, a voi richiede.
Se pace non si vuol, brama che almeno
De' vostri e suoi prigioni
Termini un cambio il doloroso esiglio.
Ricusar T una e l'altro è il mio consiglio.
(Come !)
(Ahimè!)
(Son di sasso.)
Io della pace
I danni a dimostrar non mi affatico;
Se tanto la desia, tome il nemico.
Ma il cambio?
Il cambio asconde
Frode per voi più perigliosa assai.
Regolo?
Io compirò quanto giurai.
(Numi! il padre si perde.)
Il cambio ofTerto
Mille danni ravvolge;
Ma l'esempio è il peggior. L'onor di Roma,
II valor, la costanza,
La virtù militar, padri, è finita,
Se ha speni« il vii di libertà, di vita.
Qual prò che torni a Roma
Chi a Roma porterà Torme sul tergo
Della sferza servii!* chi Tarmi ancora
Di sangue ostil digiune
Vivo depose, e per timor di morte
Del vincitor lo scherno
SoITrir si elesse? oh vituperio eterno!
Manlio. ^\^ pur dannoso il cambio:
A compensarne i danni
Basta Regolo sol.
Regolo. Manlio, t'inganni:
Regolo è pur mortai. Sento ancor io
L'ingiurie dell' etade. Utile a Roma
Già poco esser potrei ; molto a Cartago
Ben lo saria la gioventù feroce,
Che per me rendereste. Ah! si gran fidilo
Da voi non si commetta. Ebbe il migliore
De' miei giorni la patria, abbia il nemico
L' inutil resto. Il vii trionfo ottenga
Di vedermi spirar; ma vegga insieme
Che ne trionfa invano,
IV.
12
178 SECOLO XVIII.
Che di Regoli abbonda il suol romano.
Manlio. (Oh inudita costanza!)
Publio, (Oh coraggio funesto!)
Amile. (Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
Manlio. V util non già dell'opre nostre oggetto,
Ma l'onesto esser dee; né onesto a Roma
L'esser ingrata a un cittadin saria.
Regolo. Vuol Roma essermi grata? ecco la via.
Questi barbari, o padri,
M' han creduto sì vii, che per timore
10 venissi a tradirvi. Ah! questo oltraggio
D'ogni strazio sofferto è più inumano.
Vendicatemi, o padri; io fui Romano.
Armatevi, correte
A sveller da' lor tempj
L'aquile prigioniere. In fin che oppressa
L' emula sia, non deponete il brando.
Fate eh' io là tornando
Legga il terror dell' ire vostre in fronte
A' carnefici miei ; che lieto io mora
Neir osservar fra' miei respiri estremi
Come al nome di Roma Africa tremi.
Amile. (La meraviglia agghiaccia
Gli sdegni miei.)
Publio. (Nessun risponde? Dio!
Mi trema il cor.)
Manlio. Domanda
Più maturo consiglio
Dubbio sì grande. A respirar dal nostro
Giusto stupor spazio bisogna. In breve
11 voler del Senato
Tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo
L'assistenza de' Numi
Pria di tutto a implorar.
Regolo. V è dubbio ancora ?
Manlio. Sì, Regolo: io non veggo
Se periglio maggiore
È il non piegar del tuo consiglio al peso,
O se maggior periglio
È il perder chi sa dar si gran consiglio.
Publio. Ah! di te stesso,
Signore, abbi pietà!
Regolo. Publio, tu stimi
Dunque un furore il mio? Credi ch'io solo
Fra ciò che vive, odii me stesso? Oh quanto
T'inganni! Al par d'ogni altro
Bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo
Trovo sol nella colpa, e quello io trovo
Nella sola virtù. Colpa sarebbe
À
PIETRO METASTASIO.
179
Della patria col danno
Ricuperar la libertà smarrita;
Onci' è mio mal la libertà, la vita:
Virtù col proprio san<,nie
È della patria assicurar la sorte;
Ond' è mio ben la servitù, la morte.
Publio. Pur la patria non è....
Regolo. i>a patria ò un tutto,
Di cui Siam parti. Al cittadino è l'alio
Considerar se stesso
Separato da lei. L' utile o il danno
Cir ei conoscer dee solo, è ciò che giova,
nuoce alla sua patria, a cui di tutto
È debitor. Quando i sudori e il sangue
Sparge per lei, nulla del proprio ei dona:
Rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse,
L'educò, lo nudrì. Con le sue leggi
Dagl'insulti domestici il difende,
Dagli esterni con l'armi. Ella gli presta
Nome, grado ed onor; ne premia il merto;
Ne vendica le olTcse ; e madre amante
A fabbricar s'alVanna
La sua felicità, per quanto lice
Al destin de' mortali esser felice.
Han tanti doni, ò vero,
Il peso lor. Chi ne ricusa il peso,
Rinunci al benefizio; a far si vada
D' inospite foreste
Mendico abitatore: e là, di poche
Misere ghiande e d'un covil contento,
Viva libero e solo a suo talento.
Publio. Adoro i detti tuoi. L'alma convinci,
Ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti
La natura repugna. Alttn son tiglio,
Non lo posso obbliar.
Regolo. Scusa infelice
Per chi nacque romano. Erano padri
Bruto, Manlio, Virginio....
Publio. È ver; ma questa
Troppo eroica costanza
Sol fra' padri restò. Figlio non vanta
Roma linor, che a procurar giungesse
Del genitor lo scempio.
Regolo. Dunque aspira all' onor del primo esempio.
Va'.
Publio. Deh!...
Regolo. Non più. Della mia sorte attendo
La notizia da te.
Publio. Troppo pretendi,
Troppo, signor.
180 SECOLO XVIIT.
Regolo. Mi vuoi straniero o padre?
Se stranier, non posporre
1/ util (li Roma al mio: se padre, il cenno
Rispetta e parti.
Publio. Ali se mirar potessi
I moti del cor mio, rigido mena
Forse con me saresti.
Regolo. Or dal tuo core
Prove io vo' di costanza, e non d'amore.
{DùXV Au'ilio Regolo, atto I, scena VII; II, scena I.)
La libertà.
A Nice.
Grazie agi' inganni tuoi,
Alfin respiro, o Nice;
Alfin d'un infelice
Ebber gli Dei pietà;
Sento da' lacci suoi
Sento che l'alma è sciolta;
Non sogno questa volta,
Non sogno libertà.
]\Iancò r antico ardore,
E son tranquillo a segno
Che in me non trova sdegno
Per mascherarsi Amor.
Non cangio più colore,
Quando il tuo nome ascolto :
Quando ti miro in volto,
Più non mi batte il cor.
Sogno, ma te non miro
Sempre ne' sogni miei:
Mi desto, e tu non sei
Il primo mio pensier.
Lungi da te m'aggiro
Senza bramarti mai:
Son teco e non mi fai
Né pena né piacer.
Di tua beltà ragiono.
Né intenerir mi sento;
I torti miei rammento,
E non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
Quando mi vieni appresso:
Col mio rivale istesso
Posso di te parlar.
Volgimi il guardo altero,
Parlami in volto umano;
PIETRO METASTASIO. 181
Il tuo disprezzo è vano,
È vano il tuo favor;
Clio più r usato impero
Quei labbri in me non hanno;
Quegli occhi più non sanno
La via di questo cor.
Quel che or m'alletta o spiane,
Se lieto mesto or sono,
Gi;\ non è più tuo dono,
Già colpa tua non è;
Ghe senza te mi piace
La selva il colle il prato:
Ogni soggiorno ingrato
M'annoia ancor con te.
Odi s'io son sincero:
Ancor mi sembri bella,
Ma non mi sembri (inolia
Che paragon non ha;
K (non t'ofl'enda il vero)
Nel tuo leggiadro aspetto
Or vedo alcun diletto
Che mi parca beltà.
Quando lo strai spezzai
(Confesso il mio rossore),
Spezzar m'intese il coro.
Mi parve di morir.
Ma, per uscir di guai,
Per non vedersi oppresso.
Per racquistar se stesso.
Tutto si può sollrir.
Kel visco, in cui s'avvenne
Queir augcllin talora,
Lascia le penne ancora.
Ma torna in libertà;
Poi le perdute penne
In pochi di rinnova;
Cauto divion per prova
Nò più tradir si fa.
So che non credi estinto
In me l'incendio antico,
Perchè sì spesso il dico.
Perchè tacer non so :
Quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi spru:i;i,
Per cui ciascun ragiona
De" rischi che passò.
Dopo il crudel cimento
Narra i passati sdegni,
Di suo ferite i segni
Mosti'a il guerricr cosi.
182 SECOLO XVIII.
Mostra cosi contento
Schiavo che uscì di pena
La barbara catena
Che strascinava un di.
Parlo, ma sol jjarlando
Me soddisfar procuro;
Parlo, ma nulla io curo
Che tu mi presti fé;
Parlo, ma non dimando
Se approvi i detti miei
Né se tranquilla sei
Nel ragionar di me.
Io lascio un incostante:
Tu perdi un cor sincero:
Non so di noi primiero
Chi s'abbia a consolar.
So che un si fido amante
Non troverà più Nice;
Che un'altra ingannatrice
È facile a trovar.
Le Unità di luogo e di tempo. — Alcuni illustri moderni
critici, ma non illustri poeti, confondono le copie con le
imitazioni, ed il vero col verisimile; e supponendo perciò
falsamente che debbano, come nelle copie, conservarsi esat-
tamente nelle imitazioni ancora tutte le circostanze del
vero, hanno autorevolmente deciso: che il tempo» che può
figuì^arsi scorso in tutto il tratto d'una favola, non debba
punto eccedere lo. misura di quello che se ne impiega nella
rappresentazione ; canone che fra tutti gì' innumerabili
eventi umani non lascerebbe a' poveri poeti altri soggetti
da scegliere, se non se quelli rarissimi, de' quali tutti gli
avvenimenti produttori della catastrofe potessero soffrirsi
ristretti nelle angustie di tre o quattr'ore di tempo ; canone
che da Eschilo sino a Cornelio non ha sognato mai di proporsi
verun insigne drammatico; e canone finalmente dallo stesso
infallibile loro Aristotile, che assegna al tempo da sup-
porsi in una azione tutto un periodo di sole, limpidamente
riprovato.
Per esser convinto che mai non han sognato i greci
d'esser soggetti nelle loro imitazioni drammatiche a cotesta
novellamente immaginata, impraticabile misura di tempo,
basta aprirli quasi a caso dovunque si voglia, e nelle Eu-
menidi di Eschilo, x\q\V Agamennone dello stesso e nelle
Trachinie di Sofocle, nell' Andromaca d' Euripide e nel-
VEdipo Colonèo di Sofocle e xìqW Ippolito d'Euripide; e
con tanta frequenza altrove non meno nel comico, che nel
tragico greco e latino teatro, che il volerli qui tutti ram-
mentare sarebbe cura inutile, pedantesca e noiosa
Sicché, secondo la pratica de' greci drammatici, il tempo
PIETRO METASTASIO. 183
(Iella rappresentazione non è misura di quello che li poeta
può supporre impiegato nel corso della sua favola.
Non lo ò molto meno secondo il parer d'Aristotile.
Poiché questo tìlosofo con chiarezza, non frequentemente
usata da lui, lucidamente asserisce, che la tragedia pro^
cura AL POSSIBILE di contenersi in un solo (jiro di sole,
o di poco trascorrerlo. Non si sono mai impiegate venti-
fiuattr'oro nella rappresentazione d'una sola tragedia, se
non se sui teatri della Cina; dunque, secondo l' asserzione
del gran maestro di color che sanno, quello della rappre-
sentazione non è regola del tempo che si può supporre in
un dramma. K degna di compassione, e ([ualche volta di
riso, la tormentosa, ma inutile tortura che danno i critici
al loro ingegno per torcere ed oscurare cotesto limpidis-
simo passaggio d'Aristotile, parendo loro che distrugga il
verisimile che dee trovarsi in ogni imitazione. Non posson
essi, o non vogliono intendere, che son cose molto diverse
il verisimile ed il vero: che quello si chiama il verisimile
e non il vero appunto perché gli manca qualche circo-
stanza di questo: che, se nessuna gliene mancasse, diver-
rebbe il vero medesimo : Q <i\\(i il poeta imitatore, obbligato
a far cose verisimili, ma non a riprodurre l'istesso vero,
non ha minore arbitrio di trascurarne qualche circostanza,
di quello che ne ha lo statuario, eccellentissimo imitatore,
ancorché sempre il vero trascuri, rispetto al colorito ed
alla lucida trasparenza degli occhi.
('otesta COSI rigida dunque unità di tempo ridotta a
quello della rappresentazione, e tanto modernamente rac-
comandata, non é richiesta né dalla pratica degli scrittori
più illustri, nò dall'autorità de' maestri più venerati, né
dalla natura del verisimile. Pure, avendo assegnato Ari-
stotile alcuno, benché più largo, circuito al tempo della
tragedia, io credo che il savio tìlosofo abbia considerato
che, se non é obbligato il poeta della legge del verisi-
mile a stringersi in angustie impraticabili, é consigliato
dalla prudenza a non abusar della facoltà d'immaginare,
che può promettersi negli spettatori. Cotesta facoltà si
stanca, si scema e si disperde nell'intinito; e tutto sembra
necessariamente intìnito, quello di cui non si vede alcun
termine. L'assioma é dello stesso Aristotile nel venticin-
quesimo de' suoi problemi alla sezione quinta: dunque è
necessario che paia in qualche maniera infinito tutto ciò
che 7ion apparisce determinato.
Il termine di un giro di sole, che assegna Aristotile al
corso d'una tragedia, mi ha dimostrato l'esperienza che
accorda abbastanza il comodo della fantasia degli spettatori
e de' poeti. E su questa norma, sostenuta dall'autorità e
dalla ragione, ho creduto sempre il poter regolar, senza
giusto rimprovero, tutti i miei drammatici lavori. Ma per
evitar le contese che invincibilmente abborrisco, ho sempre
184 SECOLO XVIII.
per altro con somma cura procurato che quella porzione
del tempo da me no' miei drammi supposto, la quale tra-
scendesse per avventura quello delia rappresentazione, po-
tesse dallo spettatore figurarsi passata in quegl' intervalli,
ne' quali fra l'uno e l'altro gruppo di scene annodate in-
sieme, il teatro rimane allatto vuoto d'attori, e presenta ai
riguardanti 1' appar-enza di un nuovo sito. Ciascun di cotesti
gruppi è un'azione separata, ma subalterna, che conduce
alla principale. Or siccome un pittore che volesse rappre-
sentar la morte di Didone con le antecedenti circostanze
che la cagionano, non essendogli permesso dalla natura del-
l'arte sua il poterle esprimere in un quadro solo, sarebbe
ben degno di lode se le esprimesse in diversi, presentando
successivamente in uno, per cagion d'esempio, l'arrivo
d'Enea in Cartagine, in un altro la cena, nel terzo la caccia,
nel quarto gl'inutili sforzi della regina per non essere ab-
bandonata, e finalmente nell'ultimo la disperata sua morte;
perchè sarebbe mai degno di biasimo un poeta che presen-
tasse a' suoi spettatori successivamente in diversi gruppi,
come in diversi quadri, le diverse azioni, senza le quali non
sarebbe verisimile la principale? Ogni nuovo quadro, essendo
circoscritto e distinto, senza violare qualunque più sofistica
regola, può supporre altro tempo ed altro luogo. Non si sup-
poneva fra gli antichi, quando sul palco medesimo dopo un
tragico si rappresentava immediatamente un dramma sati-
rico? E non si suppone a" dì nostri, quando dopo una severa
tragedia, immediatamente si rappresenta una farsa giocosa ?
Ma il molto più che ardito d'Aubignac ha ben contraria
sentenza: e con quel magistrale impero, di cui si è egli di
propria autorità arrogato il possesso, ci oppone come ar-
gine insuperabile il terzo suo canone della immutabilità del
luogo ; e sdegnosamente dimanda a' poveri poeti dramma-
tici, da chi mai sieno essi stati investiti della magica fa-
coltà che bisogna per trasformare in gabinetto o giardino,
nel corso d' un istesso dramma, quella istessa porzione
del parco che al primo aprirsi della tenda era portico o
piazza ?
Quando ancora esistesse l'immaginario bisogno di cotesta
magica, trasformatrice facoltà, risponderebbero prontamente
i poeti, che ne sono essi stati investiti dalla natura del com-
ponimento, dalla concorde pratica di ventitré secoli in circa;
e che cotesta magica facoltà, della quale essi fanno uso nel
corso d'un dramma, è quella istessa istessissima, della quale
si valgono da bel principio, senza che né pure il loro rigido
riformatore medesimo se ne risenta, quando su l'incomin-
ciar d' una rappresentazione drammatica, han trasformato
le tavole d'un teatro di Parigi o di Londra in un portico
o in una piazza o di Tebe o d'Atene.
Ma le tavole che formano ne' teatri un palco di trenta
quaranta piedi di latitùdine, non si trasformano immuta-
PIETRO METASTASIO. 185
biliiHiiic iiir api irsi della scena nella piazza di Tebe o nel
tempio di Uello, come decisivamente d'Aubignac asserisce ;
esse l'imanj^ono senipre quelle tavole modosime che furono
destinate dal le'^najuolo a sostenervi diversi quadri, che vuole
esporvi sopra, l'un dopo l'altro, il poeta; e cotesti quadri
diversi non solo non guastano, ma rendono assai più intera
e compiuta l'azione, che sarebbe tronca altrimenti e man-
chevole de' più necessarj suoi membri: e, meiliante cotesta
diversità, decisa dai sopra spiegati intervalli, evita ogni su-
perstizioso inciampo di tempo, di luogo,ed acquistalo scrittore
il comodo, che non avrebbe, di metterne in vista le più belle, le
più interessanti e le più dilettevoli circostanze ; le quali sono
l'unico, il vero e l'importante oggetto della curiosità degli
spettatori, e non già la premura gratuitamente supposta,
che sia sempre superstiziosamente conservata la ridicola
immutabilità della prima magica trasformazione delle tavole
d' un teatro. La divisione istessa de' greci drammi in cin-
(lue parti, dette Actns, a noi, se non da' primi autori, da
ben anticlii grammatici certamente trasmessa, prova col
nome medesimo ad esse parti assegnato, che sempre l'azione
d'un dramma si è considerata composta di varie altre azioni
subalterne, fra di loro distinte, alle quali, unicamente pei*
non confonderle con la principale, si è dato il nome di Actus
e non di Actiones, benché non abbian queste due voci si-
gniticazione diversa. Confesso per altro ingenuamente an-
ch' io, che cotesto divisioni si trovan fatte per lo più con
cosi poca intelligenza, che giungono talvolta a dividere l'in-
divisibile, e dimostrano convincentemente che gli inventori
delle medesime eran grammatici e non poeti. Ma la loro
inesperienza teatrale non distrugge la prova, che ci som-
ministrano della pubblica antica opinione, intorno alle varie
e distinte azioni che possono essere in una sola comprese ;
e che presentate dal poeta agli spettatori in diversi (juadri,
analoghi bens'i l'uno all'altro, ma tìsicamente l'un dall'altro,
per gl'intervalli, distinti, non possono esser obbligati nò pur
dal solìstico rigorismo a .conservar tutti sempre il tempo
istesso e ristesse luogo. È circostanza ben degna d'osser-
vazione, che appunto in questa terza unità locale che tanto
d'Aubignac inculca, e che più rigorosamente d'ogni altra i
moderni legislatori prescrivono, si trovano essi abbandonati
allatto dall'autorità di Aristotile. Non ne ha questo filosofo
nò in tutta la sua Poetica nò altrove, assolutamente mai
fatta la minima menzione ; anzi non ne ha pur mai osservata,
non che condannata, la mancanza ne' drammatici de' tempi
suoi, i quali visibilmente le trascurano, sino a trasportar la
scena da una in un'altra città. Se dunciue cotesta metafisica
immutabilità di luogo nelle imitazioni teatrali non è pre-
scritta dall' autorità degli antichi maestri, non introdotta
dalla pratica de'greci drammatici, non secondata dal consenso
d'alcuno de' più celebri poeti, che fanno il maggiore orna-
18G SECOLO XVIII.
mento del moderno teatro, non richiesta da veruno spetta-
tore, che non sia sedotto dai moderni sofismi ; se restringe
intollerabilmcjite il numero de' fatti rappresentabili ; se ob-
bliga gli attori a situazioni indecenti ed inverisimili ; se, por
l'indispensabile necessità d'informar gli spettatori di r4uelIo
che non può loro con l'azione dimostrarsi, trasforma il dram-
matico in poema narrativo, e se dalla natura dell' imita-
zione e del verisi'inile non è in conto alcuno richiesto; che
voglion dir mai tutte cotesto grida autorevoli, che con tanto
fervore incessantemente T inculcano? E che le lepide, ma-
gistrali irrisioni, con le quali le nostre povere mutazioni di
scena son dall' eletta schiera de' rigoristi con tanta supe-
riorità disprezzate, benché con diletto vedute? Prestano pur
queste un comodo ed opportuno soccorso alla fantasia dello
spettatore ; rendono pur queste molto più verisimili e le
subalterne azioni e le principali, presentandole ne' luoghi,
dove debbono naturalmente succedere ; arricchiscono pur
queste la decorazione teatrale de' più rari incantesimi della
squadra e del pennello, e formano esse finalmente un utile,
vago, ingegnoso, e da tutti universalmente applaudito e som-
mamente desiderato spettacolo. Non sono, è vero, tant* oltre
giunti gli antichi, rispetto a' cambiamenti delle scene, quanto
a noi è riuscito di giungere; forse perchè l'enorme vastità
de' loro immensi e scoperti teatri non poteva naturalmente
secondar l'industria degli architetti, sino al segno che può
ora secondarla la limitata misura de' nostri, tanto più an-
gusti e coperti, e non illuminati dalla chiara luce del sole,
ma da faci notturne tanto più favorevoli alle illusioni
Ma qualunque sia stata la cagione, per cui non han fatto
gli antichi tutto queir uso che facciam noi delle mutazioni
di scena, è per altro certo e patente che non hanno essi
punto dissimulato il desiderio ed il bisogno d'averle. Ne
fanno ben fede le loro scene ductiles et versiles, da Servio
e da Vitruvio e da mille altri rammentate, e da Virgilio
nel III Lib. delle Geologiche al verso 24 chiaramente ac-
cennate ;
Come, al girar de' varj suoi prospetti,
Fugga una scena :
con le quali potevano almeno cambiare il genere della de-
corazione da tragico, per cagion d'esempio, in comico o in
pastorale ; e forse si valevano talvolta di questi cambia-
menti nel corso ancora d'un dramma medesimo, purché non
dovesse rappresentarsi o camera o sala o altro luogo co-
perto, impossibile ad esprimersi in un immenso ed affatto
scoperto teatro. Favoriscono questa conghiettura le figure,
delle quali è in ogni scena fornito l'elegante manoscritto
delle commedie di Terenzio, che si conserva nella Biblio-
teca Vaticana {x)liit. 51, n. 3868), al quale attribuisce Sponio
oltre mille anni di antichità. Furono queste fedelmente in-
I
PIETRO METASTASIO. 187
tagliate in ramo, o pubblicato con la versione delle com-
medie suddette dall'eruditissimo monsi^Mior Fortiguerra,data
alle stampe dal Mainardi in Urbino, l'anno 171^(3. L'antico
disegnatore ha avuta somma cura d' esprimere diligente-
mente le maschere, gli abiti e le attitudini degl'istrioni; ma
trascura affatto di rappresentare (juello che anticamente
chiamavasi scena, cioè quegli edilicj o pitture, che si ele-
vavano neir ultimo fondo del palco. Egli del palco accenna
quella sola porzione più vicina agli spettatori, su la quale
gli attori recitando passeggiano; e vi accenna talvolta con
diversi segni i diversi luoghi, ne' quali, a seconda delle
diverse azioni subalterne, dee lo spetiator figurarsi che
gli attori si trovino. Neil' Ileaiitontimorumenos (ossia il
pitmlor di se stesso) si vede nella prima scena il palco
innanzi ingombrato di cespugli, di picciolo piante, d'un
giogo e di un fascio di biade : nelle altre seguenti scene
nulla di ciò più si vede ; ma invece di cotesti rustici og-
getti, dove una, dove due porte isolate, composte di tre
soli legni, or chiuse, ora aperte, or guarnite d'una por-
licra, e quando più verso il mezzo e quando più verso i
lati del palco. E tutto ciò non per altro, come è visibile,
immaginato, che per soccorrere la fantasia degli spettatori,
ed avvertirli quando doveano lìgurarsi che fossero i perso-
naggi dentro le camere, e quando sul campo, e quando nella
pubblica strada. Nò ad altro fine eran probabilmente inven-
tale le exostre, gli encttclemi, e le tante altre macchine tea-
trali, da Bulengero esattamente rammentate nel Lib. I,
cap. XVII, del suo libro de T he atro ; ma delle quali per
altro non intraprenderei di fare una intelligibile descrizione,
con buona pace e di lui e di Servio e di Polluce e di Snida
e d'Esichio, che ce ne han trasmessi i nomi, ma non la chiara
notizia. Sicché l'immutabilitù, della scena non è stata ele-
zione fra gli antichi, ma visibile necessità prodotta dalla
enorme vastità de' loro teatri : e saremmo ridicoli se, non
avendo noi la necessità medesima; mercè l'angustia dei
teatri nostri, che facilmente si presta a qualunque cambia-
mento, ci volessimo privare de' vantaggi, ai quali hanno
essi con tanti imperfetti tentativi inutilmente aspirato. E di-
verremmo ancor più ridicoli, se per pompa d'erudizione
eleggessimo di seguirne le autorevoli traccio, adottando
con discapito i miseri loro ripieghi
Sopra tutte cotesto considerazioni è fondato il metodo
da me, rispetto all'unità del luogo, ne' miei componimenti
teatrali costantemente tenuto. Persuaso che il verisimile non
obbliga a tutte le circostanze del vero ; convinto che né
da' greci, nò da' più applauditi drammatici sino a' dì nostri
sia stata osservata la metalìsica unità di luogo, che or da
noi si pretende; non avendola trovata prescritta da alcun
antico maestro ; anzi essendo tacitamente disapprovata da
Aristotile, il quale e col suo intorno ad essa profondis-
188 SECOLO XVIII.
Simo silenzio, e noi non averne condannata la trasgressione
ne' drammatici de' tempi suoi, e con l'essersi mostrato cosi
comodo moralista intorno all'unità del tempo, non può esser
sospetto di rigorismo intorno a quella del luogo; persuaso,
dico, da tante considerazioni, ho creduto di potermi valere
in buona coscienza delle nostre mutazioni di scena. Tanto
più che me ne avea consigliato espressamente l'uso l'immor-
tale mio maestro, quando io scrissi per suo cornando la tra.-
gedia del Giustino, che pur troppo si risente delia puerizia
dello scrittore. Egli è ben vero che, e nelle tragedie e nel
trattato delia Tragedia, da lui in appresso pubblicato, ei mo-
strossi d'opinione diversa; ma, non sapendo io figurarmi
alcun motivo, per cui avess'egli voluto mgarmarmi, nò con-
facendosi punto al suo, da me ben conosciuto carattere, la
leggerezza d' un tal cambiamento ; io son portato a credere
ch'ei dissimulasse in tal guisa i suoi veraci sentimenti, per
non irritarsi contro, anzi per rendersi benevola la feroce
numerosissima turba de'promulgatori di cotesta nuova dot-
trina, che trovavasi appunto allora nella sua più violenta
fermentazione.
Ma tutte coteste ragioni sufficientissime a liberarmi dagli
scrupoli del rigorismo, rispetto all' estensione del luogo, in
cui possa figurarsi succeduta un' azione teatrale con le sue
più necessarie circostanze, non mi han fatto però mai de-
porre la cura di non lasciar fra la nebbia dell'indefinito, né
la mia fantasia nel tessere una favola, né quella degli spet-
tatori neir ascoltarla. Onde, siccome sulle tracce di Aristo-
tele ho assegnato sempre un discreto termine al tempo,
senza restringermi a quello della mera rappresentazione ;
così, su la pratica più comune degli antichi e de' moderni più
applauditi drammatici, ho sempre immaginata una deter-
minata e ragionevole estensione di luogo, capace di conte-
nerne diversi, senza obbligarmi all'immutabilità di quella
special porzione del medesimo, che su trenta o quaranta
piedi di palco ha potuto, solo al primo aprirsi della scena,
essere al popolo presentata. Non ardirei già io di trasportar
mai i miei personaggi, su l'esempio di Aristofane, di terra
in aria o nei profondi regni di Plutone : né su le tracce di
Eschilo, dal tempio di Apollo in Delfo a quello di Minerva
In Atene. Ma credo che il circoscritto spazio d' un campo,
d'una città o d'una reggia prescriva sufficientemente i ne-
cessarj limiti all'idea generale d'un luogo, e che contenga
nel tempo istesso tutti quegli speciali e diversi siti, de' quali
abbisogna il verisimile delle varie azioni subalterne, che in
un dramma medesimo ora esigono il segreto d'un gabinetto,
ora la pubblicità d' una piazza, ora gli orrori d' un carcere,
or la festiva magnificenza d' una sala reale. Né parmi che
possa a buona equità chiamarsi moltiplicazione di luogo il
mostrarne separatamente le parti che lo compongono, quando
l'angustia d'un palco ed il comodo degli ascoltanti medesimi
PIETRO METASTASIO. 189
non permette di presentarlo intero; e se pur come tale me-
ritasse la taccia d'inverisimile, sarebbe sempre da eleggersi
nn inverisimile solo, che ne risparmia moltissimi. Se v' ò
poi linalmente alcuno, che dopo tante dimostrazioni si ostini
ancora a sostenere cotesta metalisica immutabilitiX; clie as-
serisca ancora, a dispetto dell'evidenza, che siano stati tutti,
su (luesto punto, i tragici greci scrupolosissimi rigoristi, o
(die sia l'autorevole esempio di (juesti inviolabil leggo per
noi ; usi almeno ancor meco quella indulgenza medesima elio
pratica con esso loro. Permetta anche a me che io possa
presentar soli nelle pubbliche piazze (perpetua scena del-
l' antico teatro) i re, le regine e le vergini reali ; che io
possa nella pubblica piazza far giacere in letto le regine
ed i principi infermi; che possa far anch'io clie i miei per-
sonaggi scelgano eternamente la pubblica piazza per ordir
le più atroci e le più pericolose congiure, e per far le più
confidenti, le più segrete e talvolta le più vergognose con-
fessioni ; e non avran bisogno allora i miei drammi di alcun
cambiamento di scena, e mi troverò, senza averlo preteso,
religiosissimo rigorista ancor io. — (UixW Estratto ilelL'Artc
Poetica d'Aristotile, cap. V in line.)
Della poesia all'improvviso, lettera al conte Alcjarotti. —
Mi è stata carissima, come tutto ciò che mi viene da voi,
l'ultima vostra lettera del 26 dello scorso giugno, cosi per la
vostra perseveranza nella rinnovata corrispondenza, come
pel favorevole e conforme giudizio da voi e dal signor Vol-
taire pronunciato sul mio travestimento del Sorcio d'Orazio.
Nò me ne ha punto diminuito il piacere il tenero e cri-
stiano compatimento del mio traduttor francese, sulla parte
che mi tocca del morbo epidemico della nostra nazione con-
taminata dalla scabbia de* concetti. (Jrazie al cielo, ch'egli
ignora i sintomi della mia infermità! S'egli sapesse che io
non m'avveggo d'averla, dispererebbe afl'atto di mia salute.
Il falso rende reprensibili i concetti, e io non mi son mai
pi'oposto che il vero: può darsi che io me ne sia alcuna
volta innavvedutamente dilungato, ma non può essermi utile
una correzione in genere, che non mi addita le lucciole prese
per lanterne. Purché la verità sia il quadro, non v'è poeta
né greco, né latino, né d'altra qualsivoglia nazione, che non
si rechi addebito, non che a pregio, l'adornarlo d'una bella
cornice. È vero che, siccome altre volte i Goti contamina-
rono la nostra architettura, cosi, dopo la metà del secolo XVI f,
la nazione che dominava in Italia introdusse nella nostra
l'arditezza della sua poesia; arditezza che non era ripu-
gnante alla natura del suo clima, feconda in tempi più re-
moti de' Seneca, de' Lucani e de' Marziali, e accresciuta poi
a dismisura dal genio fantastico della letteratura araba,
cola dagli Africani trasportata e stabilita. K verissimo, che
s'incominciò allora fi a noi a perder la misura e la propor-
190 SECOLO XVIII.
zione delle figure, e, applicati unicamente a far cornici, ci
dimenticammo di far quadri ; ma questa pianta straniera
non allignò in guisa nel buon terreno d'Italia, che non vi
fosse, anche nel tempo ch'essa fioriva, chi procurasse estir-
parla. Ed è poi palpabile, che da un mezzo secolo in qua,
non v" è barcaiuolo in Venezia, non fricti cineris emplor
in Roma, né uomo così idiota nelT ultima Calabria o nel
centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che
non derida questa peste che si chiama fra noi secentismo.
Onde, quand' io fossi ancor tinto di questa pece, qv od Deus
omen avertat, non so come il mio traduttore fondi la sua
compassione sopra un'infermità che la nostra Italia non
soflre. Ha pur troppo la sventurata di che farsi compian-
gere senza inventarne i motivi. Io non ho letto ancora co-
testa traduzione francese delle opere mie, per una certa re-
prensibile mancanza di curiosità, che si va in me di giorno
in giorno accrescendo, ma in gran parte ancora per deli-
catezza di coscienza. Io mi conosco incontentabile in fatto
di traduzioni, e non ho voluto espormi a divenire ingrato
a chi mi ha reputato degno di così faticosa applicazione.
Quando la mia curiosità si aumenti, e i miei scrupoli dimi-
nuiscano, saprete quanto mi abbia dilettato quella lettura.
Voi vorreste de' versi fatti da me improvvisamente negli
anni della mia fanciullezza; ma come appagarvi? Non vi
niego che un naturai talento, più dell'ordinario adattato
all'armonia e alle misure, si sia palesato in me più per
tempo di quello che soglia comunemente accadere, cioè,
fra'l decimo e undecime anno dell'età mia: che questo strano
fenomeno abbagliò a segno il mio gran maestro Gravina,
che mi reputò e mi scelse come terreno degno della coltura
d' un suo pari: che fino all'anno decimosesto, all'uso di Gor-
gia Leontino, mi esposi a parlare in versi su qualunque sog-
getto così d'improvviso, sa Dio come; e che Rolli, Vanini,
e il cavalier Perfetti, uomini allora già maturi, furono i
miei contradittori più illustri: che vi fu più volte chi in-
traprese di scrivere i nostri versi, mentre da noi improv-
visamente si pronunziavano, ma con poca felicità ; poiché
(oltre d'esser perduta quell'arte, per la quale a' tempi di
Marco Tullio era comune alla mano la velocità della voce),
conveniva molto destramente ingannarci; altrimenti il solo
sospetto d'untale agguato avrebbe affatto inaridita la no-
stra vena, e particolarmente la mia. So che, a dispetto di
tante difficoltà, si sono pure in que' tempi e ritenuti a me-
moria, e forse scritti da qualche curioso, alcuni de' nostri
versi; ma sa Dio dove ora saran sepolti, se pure son tut-
tavia in rerum natura, di che dubito molto. De' miei io
non ho alcuna reminiscenza, a riserva di quattro terzine,
che mi scolpì nella memoria Alessandri Guidi, a forza di
ripeterle per onorarmi. In una numerosa adunanza lettera-
ria che si tenne in casa di lui, propose egli stesso a Rolli, a
PIETRO METASTASIO. 191
Vanirli e a me, per materia delle nostre poetiche improv-
vise ^'are, i tre diversi stati di Roma, pastorale, militare
ed ecclesiastico. Rolli scelse il militare, toccò l'ecclesiastico
a Vanini, e restò a me il pastorale. Dal bel principio Va-
nini si lagnava che per colpa d'Amore non era più atto
a far versi; mi asseriscono che io gli dissi:
Da ragion se consiglio non rifiuti,
Ben di nuovo udirai nella tua mento
Risonar que' pensier ch'ora son muti.
Poco dopo, entrando nella materia:
Vedi quel pastorel elio nulla or paio?
Quel de' futuri Cesari e Scipioni
Foce sarà, come de' fiumi il mare.
Parlando alla mia greggia:
Pasci 1 fiori, or clie lice, e l'erbe molli:
D'altro fecondi in altra età saranno.
Che sol d'erbe e di fiori, i sette colli.
E nello stesso conflitto, ma in diverso proposito:
Sa da so stessa la virtù regnare,
E non innalza e non dopon la scuro
Ad arbitro dell'aura popolare.
Questi lampi, ne' quali hanno la maggior parte del me-
rito il caso, la necessità, la misura e la rima, e ne' quali
si riconosce forse troppo lo studio de' poeti latini non ri-
dotto ancora a perfetto nutrimento, sa Dio fra quante pue-
rilitìi uscivano inviluppati. Buon per me, che il tempo non
mi ha lasciati materiali onde tradir me medesimo; temo
che la passione di compiacervi avrebbe superato quella di
risparmiare il mio credito. Or, per terminare il racconto,
(juesto mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave per-
chè, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi con-
veniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel
giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d'una dama, ora
a soddisfar la curiosità d' un illustre idiota, ora a servir
di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, per-
dendo così miseramente la maggior parte del tempo ne-
cessario agli studj miei; dannoso, perchè la mia debole fin
d'allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente. Era
osservazione costante che, agitato in quella operazione dal
violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo, e
mi s' infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel
tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo
rimanevan di ghiaccio. Queste ragioni fecero risolvere Gra-
vina a valersi di tutta la sua autorità, magistrale, per proi-
birmi rigorosamente di non far mai più versi all'improv-
192 SECOLO xvrii.
viso: divieto, clic, dal decimosesto anno dell'età mia, lio
sempre io poi esattamente rispettato, e a cai credo di es-
ser debitore del poco di ragionevolezza e di connessione
iV idee che si ritrova negli scritti miei. Poiché riflettendo
in etcì più matura al meccanismo di quell'inutile e mara-
viglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la
mente, condannata a così temeraria operazione, dee per ne-
cessità contrarre un abito opposto per diametro alla ra-
gione. Il poeta che scrive a suo bell'agio, elegge il sog-
getto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la
successiva catena delle idee che debbono a quello natu-
ralmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle
rime come d' ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui,
all' incontro, che si espone a poetar d' improvviso, fatto
schiavo di quelle tiranne, conviene che, prima di rifletter
ad altro, impieghi gl'istanti che gli son permessi a schie-
rarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli
lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò
inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pen-
siero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle,
benché per lo più straniere e talvolta contrarie al suo sog-
getto. Onde cerca il primo a suo grand' agio le vesti per
l'uomo, e s'affretta il secondo a cercare tumultariamente
r uomo per le vesti. Egli é ben vero che, se da questa inu-
mana angustia di tempo vien tiranneggiato barbaramente
l'estemporaneo poeta, n'è ancora in contraccambio vali-
damente protetto contro il rigore de'giudici suoi, a' quali,
abbagliati da' lampi presenti, non rimane spazio per esami-
nare la poca analogia, che ha per lo più il prima col poi
in cotesta specie di versi. Ma se da quel dell'orecchio fos-
sero condannati questi a passare all'esame degli occhi, oh!
quante Angeliche si presenterebbero con la corazza d'Or-
lando, e quanti Rinaldi con la cuffia d'Armida! Non crediate
però eh' io disprezzi questa portentosa facoltà che onora
tanto la nostra spezie ; sostengo solo, che da chiunque si sa-
crifichi affatto ad un esercizio tanto contrario alla ragione,
non così facilmente
Carmina fingi
Posse linenda cedro, et levi servanda dipresso.
Benché lontana, mi sollecitala speranza d'abbracciarvi
in queste parti: io l'ho comunicata alla signora contessa
d'Althan, e al signor conte di Canale, che più che pieni di
riconoscenza alla vostra memoria, andranno raddolcendo
meco r aspettazione della vostra venuta, con la lettura del
libro che ci prometteva.
Qui si è sparso che il signor di Voltaire, desideroso di
fare un giro in Italia, ne abbia ottenuto il consenso reale,
e che terrà questo cammino. Ditemi se posso ragionevol-
mente lusingarmene: abbracciatelo intanto per me, e ri-
TOMMASO CRUDELI. 193
cordategli la tenera mia costante e riverente stima. Ma
perdio non siate tentato di pubblicaiini per cicalone, rerbinn
non amplius adtlam. Addio. Vienna, primo agosto 1751.
I
TOMMASO CRUDELI.
Di Poppi in Casentino, ove nacque nel 1703. Si laureò in {linri-
spiiulenza a Pisa, ma attese a dar lozioni d'italiano, spccialnuMito
agli stranieri, clu; numerosi capitavan in Firenze, e a coltivar la
poesia, nella quale acquistò tal riputazione con lievi componi-
menti ma graziosi e argutamente civettuoli, che dal suo celebre
conterraneo Bernardo Tanucci venne invitato a Napoli come poeta
di corte; ufficio eh' ei rilìutò, preferendo una vita modesta in mezzo
a fidi amici. Pel suo libero parlare e perchè accusato di appar-
tenere alla massoneria, allora dilì'usasi in Toscana, fu arrestato, col
consenso del nuovo granduca Francesco di Lorena, nel 1730, e
chiuso nelle carceri dell' Inquisizione. Dopo una lunga procedura,
inasprita dai rigori della prigione, che gli aggravarono il mal
d'asma del quale soffriva, venne liberato, specialmente per le
istanze della legazione inglese, ma coll'obbligo, giurato in chiesa,
di restar confinato a Poppi, donde non si sarebbe potuto muovere
senza il permesso del Sant'Uffìzio di Koma. Nel silenzio del suo
ritiro forzato, e quantunque sempre infermiccio, attese a racco-
gliere i suoi versi, e, ultima vittima toscana della Inquisizione,
morì il 27 marzo 1745,
Gli scritti poetici del Crudeli, ne' quali, come dice il Carducci
nella Prefazione agli Erotici del sec. ATi// (Firenze, Barbèra, 1868,
pag. XX), par ch'egli abl)ia voluto innestare «la galanteria fran-
cese sul tronco del Chiabrera e del Menzini, » consistono in odi,
in canzonette, in apologhi : questi ultimi, al dire dello stesso cri-
tico, «pochi, ma mirabili », sono traduzioni ben riuscite dal La Fon-
taino. La prima stampa è di Napoli (Firenze, 174G); più compiuta
è l'edizione di Parigi (Pisa), Molini, 1805, con aggiunta di due scrit-
ture in prosa.
[Per la biografia, vedi Fr. Becattini, Storia dell' Inquisi-
zione, Milano, Galeazzi, 1797, p. 303-35G; Notizie jjer la vita del
doti. T. Crudeli in append. al volume delle lìivie e Prose, Parigi,
Molini, 1805, e Feud. SniGOLi, T. Crudeli e i primi frammassoni
in Firenze, Milano, Battezzati, 1884.]
La Corte del Re Leone.
Volle un giorno il Leone
Tutta quanta conoscer quella gente,
Di cui il ciel l'avea fatto padrone.
IV. 13
194 SECOLO XVIII.
Non fu selva orrida e oscura,
Che non fussene avvisata.
Circolava una scrittura
Da Sua Lionesca Maestà firmata,
E lo scritto diceva,
Che per un mese intero il Ile teneva
Corte plenaria, e principiar doveasi
Da un bello e gran festino.
Dove un certo perito Bertuccione
Dovea ballar vestito da Arlicchino.
In tal maniera il Principe spiegava
La sua potenza al popolo soggetto.
Ma ecco ornai, che la gran sala è piena ;
Che sala! Oh Dio, che sala!
Ella era anzi un orribile macello,
Sanguinoso e fetente
A tal segno, che l'Orso,
Non potendo soffrir quel tetro avello,
II naso si turò, poco prudente.
Spiacque il rimedio : il Ke forte irritato
Mandò da ser Plutone
Il signor Orso a far il disgustato.
Lo Scimiotto approvò
Questa severità,
E di Sua Maestà
La collera lodò ;
Lodò la regia branca, e della sala
Disse cose di fuoco, e queir odore
Sovra r ambra esaltò, sovra ogni fiore.
Ma questa adulazion troppo scempiata
Fu dal Principe accorto
Ben presto gastigata ;
Già lo sfacciato adulatore è morto.
La Volpe eragli accanto :
Or ben, le disse il Sire,
Dimtòi, che ne di' tu ? parlami ciliare.
Tu vedi, io non voglio essere adulato.
La volpe allor : Sua INIaestà mi scusi ;
Io son molto infreddata, e l'odorato
Ho perso affatto,
Ond'io a giudicar atta non sono
Se questo odore sia cattivo o buono.
Di tal risposta il Re fu sodisfatto.
Voi che in corte vivete.
Apprendete, apprendete ;
Non siate troppo aperti adulatori,
Nemmen troppo sinceri parlatori ;
E se volete alfin passarla netta.
Una scusa o 'l silenzio
Sarà sempre per voi buona ricetta.
TOMMASO CRUDELI. 195
Il Gatto eletto giudice.
Verso oriente il cielo era vermiglio,
E f?ià spuntava il di,
Quando madama
La Donnolotta
Del palazzo d' un giovine Coniglio
Tutta lieta s'impadronì.
Nell'acciuistato suo nuovo sògfriorno
Tutti i suoi Dei Penati trasportò,
(liusto nel tempo che il Coniglio stava
Tra valli amene e rugiadosi prati
A corteggiare il rinascente giorno.
Dopo molto aver cercato
Colle e prato,
Tutto fresco e a suo bell'agio
Sen va verso il suo palagio.
Avea la Donnoletta agile e destra
Messo il muso alla finestra :
Numi ospitali, e che vegg' io là drento ?
Disse tutto scontento
Lo scacciato animai dal patrio tetto :
Olà, madama, che si sbuchi fuore
Senza rissa e rumore.
L'accorta dama dal naso appuntato
Con maniera obbligante
Rispose, elio la terra
È del primo occupante.
Bel soggetto di guerra
Questo sarebbe stato
Tra la Francia e V Impero,
Da far versare il sangue a un mondo intero ;
Ma perchè ognun di loro -era privato,
VA amljodue ben povere persone.
Fu la bella quistione.
Lasciato il guerreggiar, messa in trattato.
Vorrei sapere adesso,
Dicea r usurpatrice,
Qual legge, qual statuto
N' ha per sempre il possesso
A Crianni, a Fietro, a Faol conceduto,
K finalmente a te,
E non più tosto a me.
Quivi (ìiovan-Coniglio
Allegò r uso e la consuetudine :
Questa, rispose, me ne fii padrone,
Questa di padre in figlio,
E di Luca in Simone,
l'I finalmente in me trasmesso l'ha;
lOG SECOLO XVITI.
Onde la legge del primo occupante
Nel nostro caso alcun luogo non lia.
— E ben, e ben, monsù,
Che importa adesso stare a tu per tu ;
Rimettiamla in un terzo, e questo sia
Il dottor Mordi graffi ante. —
Questo era un Gatto di legai semenza,
Che menava una vita
Come un savio eremita,
Un buon uomo tra' gatti, e di coscienza,
Di sguardo malinconico e coperto.
Nero di pelo, agile, membruto.
Giudice a fondo, e nel mestier esperto :
Gian-Coniglio per arbitro l'approva.
Ecco che ognun di lor già si ritrova
Davanti al tribunale
Deir unghiuto animale.
Mordigraffiante dice : Vi consoli
Il ciel, miei figlioli,
Come io vi metterò presto d'accordo.
Accostatevi a me, perch' io son sordo ;
Le gran fatiche e gli anni
Soglion seco portar simili affanni.
S'accostò l'uno e l'altro litigante;
Ma non sì tosto esso gli vide a tiro.
Che, il dottorale artiglio
Da due parti gettando in un istante,
Scannò la Donnoletta ed il Coniglio ;
Indi se gli mangiò,
E in tal maniera la lite aggiustò.
Lettor, tienti la favola a 'tnemoria.
Che se praticherai pe' tribunali.
Ti passerà la favola in istoria.
ALFONSO VARANO.
Discendente dalla famiglia che signoreggiò Camerino, nacque
in Ferrara ai 13 decembre 1705, e, fatti gli studj sotto la guida
dell'ab. Girolamo Tagliazucchi, si dedicò tutto alla poesia. Scrisse
canzoni, sonetti, anche berneschi, egloghe, tragedie (il Demetrio,
il Giovanni di Giscala, V Agnese martire del Giappone ec); ma
ebbe fama specialmente dalle Visioni in terza rima, per le quali
fu detto « unico », e rinnovatore dello stile dantesco: ma in realtà,
cotesto del Varano è un Dante un po' frugoni'zzato. Spesso, nelle
Visioni v'è più teologia che poesia, e oscurità non poca, e anda-
mento pedestre e monotonia, e tumidezza fragorosa di verso: di
dantesco, poco più che la forma esterna del componimento, non
la sostanza e T arte. Le Visioni sono dodici, e la religione som-
ALFONSO VARANO.
107
inini.strò al poeta coucutti e iminn<;iiii, sia che piendcsse a so^'-
{jotto temi cssenzialinente morali o spirituali, sia che deplorasse
la morte di personaggi illustri (Enrichetta di lìorbone, Marianna
d'Austria, Felieita d' Este, l' imperatore Francesco, il card. Benti-
voglio ec.), grandi calamità pubbliche, come il terremoto di Li-
sbona e la peste di Messina. Contribuì colle Vinioni a metter di
moda la poesia biblica, dalla quale alcunché deriverà più tardi
il Monti. Mori il 23 giugno 1788.
L'edizione più copiosa delle sue rime è di Venezia (Palese, 1805)
e una scelta di esse, con Vita scritta da Fk. Reina, fu stampata
a Milano, Classici italiani, 1818.
[Per la biografia e gli scritti, vedi Bauotti, Memorie stor. dei
Icllerati feì-raresi, li, 'M0\ hi Vita preposta da P. A. PARAVIA al-
l'edizione delle Visioni, Venezia, Picotti, 1820, e Teodok. Kicci,
111 lode di A. V. restauratore dello studio dantesco, Salò, I3c-
nuzzi, 1874.]
La peste di Messina.
Dal porto, dove il mar sembra che slagni,
10 co la guida, (lual amante liglio
Che la tenera sua madre accompagni,
Presi via d'orror carca e di periglio,
In cui morte di mille umane spoglie
Lordo rcndea l'insanguinato artiglio.
Fuor de l'abbandonate immonde soglie
Ciiacean gli avanzi de la plebe abbietta
Su vili paglie e infracidile foglie :
Altri con gola orrendamente infetta
Di gangrenose bolle ; altri avvampati
11 petto da fatai febbre negletta;
Altri da lunga fame omai spossati,
Non pel velon, ma pel languore infermi,
Fra l'altrui membra putride sdraiati;
Ed altri in lor natio vigor più fermi,
Benché lasciati sotto i coi-pi estinti.
Sorti fra l'ossa accatastate e i vermi;
Ma di s(iuallor mortifei'o dipinti,
E per orecchie róse e labbra mozze
Da i volti umani in modo fier distinti.
Le illustri donne a par de le più rozze
Al comun fonte per attinger rac(iue
Gian nude il piede, e il crine incolte e sozze,
E chi di lor nel sonno eterno tacque
A un lieve sorso, e chi raminga e sola,
Pria di giunger al fonte, esangue giac(iue.
Gli amici, cui parte d'allanno invola
L'alterna vista, si guatavan fiso
Nel mesto incontro senza far parola ;
108 SECOLO XVJII.
Poi fra il duo! ristagnato a l' improvviso
Sì dirotte spargean lagrime acerbe,
Che avrian un sasso per pietà diviso.
Talor silenzio, qual avvien che serbe
1/ aria muta fra inospiti deserti
Colmi di sabbia, e d'acque privi e d'erbe;
E singhiozzi talor fiochi ed incerti;
Poi strida alte e ululati, e in flebil metro
Querele erranti per gli spazj aperti :
Sì che il lor suono acutamente tetro
Crescea più raddoppiato e in se confuso.
Dal mar, dai monti ripercosso indietro.
Ogni tempio era infaustamente chiuso;
Immoti i sacri bronzi, e a le notturne
Lampade tolto di risplender 1' uso :
Le armoniose canne, taciturne;
E senza T immortai vittima Tare,
E senza nenie pie le squallid' urne.
Con lei,^ che a me non altrui vista appai'e,
Io giunsi al fin della funebre strada
Fra imagin pel doglioso ordin sì amare.
Ivi, cangiando via, non si dirada
Anzi cresce Torror, cui non contrasta
Alma ancor forte, e in rimembrarlo agghiada.
In mezzo a valle solitaria e vasta
Stridea scoppiando per le fiamme ingorde
Di cento adusti ceppi ampia catasta.
Con picche armate in ferro adunco e lorde
Di melma, tratti eran que' corpi al rogo,
Cui più vita si dura il cor non morde :
Sacerdoti e fanciulle, e quei che il giogo
Maritai strinse, ignudi e insiem confusi.
Da vicin tolti e da rimoto luogo;
E fra questi (ahi! chi fia che adombri, o scusi
D' alta necessitate, il gran delitto ?)
Vivi, che ancor movean gli occhi non chiusi:
Ma palpitanti, col ronciglio fitto
Nella gola, i sospir versando e il sangue
Dal collo in si crudel foggia trafitto.
Strascinata ogni donna ed uom esangue
Ad arder con pietà tanto inumana.
Come striscia per terra ignobil angue.
La faccia avea deformemente strana,
E questa sì, che non serbava alcuna
Orma in sé lieve di sembianza umana.
(Dalla Visione Y.)
* Con la guida che è un essere superno.
199
CARLO GOLDONI.
Il (Jolrloni hisfiò scritto di si; aij^nitiiiiuiite. oltif the nelle pre-
fazioni e dediche delle stampe da Ini curate delle Conunetlie, nelle
Memorie autobiografiche (Mémoires pour servir à Vhistoire de sa
vie et à celle de son théòlve, Paris, Veuve Dncliesne, 17H7), die
il Gibbon disse più comiche delle stesse sue commedie, e che fu-
rono da lui scritte a Parigi negli ultimi anni di vita. Esse vennero
malamente tradotte in italiano, ma non dal Goldoni: e una ristami);i,
con note, dell'edizione originale fu cominciata, ma disgraziatamente
non compiuta da E. VON LòiiNER (Venezia, Visentini, 1883).
Accenniamo a' casi principali della sua vita. Nacque in Venezia
di famiglia oriunda di Modena, il 25 febbraio del 1707. Fu u l*e-
rugia col padre che vi eser-
citava la medicina: vi fece i
primi studj ; andò, quindi, a Ki-
mini presso i padri Domeni-
cani. Come il nonno e il padre,
appassionato per le commedie
e per il teatro, ne lesse, ne re-
citò e ne compose fin da fan-
ciullo. Lasciò Kiniiui, e fuggì
a Chioggia con una compagnia
di comici. Fu messo a Venezia
presso un procuratore, poi a
Pavia nel collegio Ghislieri
(1723) ; ma ne venne espulso
due anni dopo, per una satira
contro le donne pavesi. Pensò
per un momento j)ersino a farsi
cappuccino. Fu coadiutore del
cancelliere del Podestà criminale a Foltrc;poi,morto il padre (1731),
s'addottorò in legge a Padova e cominciò a far l'avvocato,* pro-
vandosi anche, ma infelicemente, alla scena con un Belisario, un
Rinaldo, una Griselda ecc. : drammi e melodrammi senza valore.
Kicordando solamente alcune vicende della sua vita, senza seguirlo
ne' continui cambiamenti di residenza, facciam menzione della sua
dimora a ^Milano (1733), ove stette in qualitfi di gentiluomo presso
l'ambasciatore di Venezia, Sposò il 22 agosto del 173G Maria Nicoletta
Gonnio, genovese, che egli amò molto e tenne come consolatrice
della sua esistenza.- A Venezia ebbe 1' uflìcio di console per Ge-
* Vedi A. Pascolato, Carlo Goldoni avvocato, nella Iettava Antologia,
2» serio, voi. XLII, ptig. 633, 15 dicemlno 1883.
* Vedi L. T. Belorano, Matrimonio e Connolnto di C. G., in Tmlrc-
w/'itHrff f/i6'4or. 5^cri6o, Genova, Sordo-muti, 1882: A. Ckxtklli, NiccolettOf
nel Pungolo della domenica, dicembre 1SS3, n. 16-47.
200 SECOLO XVIII.
nova, ma nonostante l' impegno che pose nel disbrif^o delle sue lun-
zionì (1741-1744), ne raccolse disgusti e danni finanziar]. Nel 1744,
desiderosissimo di imparare la buona lingua dsi' tesli viventi, fece,
una gita in Toscana; visitò Firenze, Siena, Volterra e Pisa, dove
rimase quattro anni esercitandovi con profitto la professione d'av-
vocato. Allettato dal capo comico Girolamo Medebac, che gli
assegnava 400 ducati all'anno, tornò a Venezia come poeta dram-
matico, nel 1748. Il Medebac conduceva il teatro Sant'Angelo. Il
Goldoni lasciò per gravi dissensi il Medebac nel 1752, e passò al
teatro di San Luca di proprietà del patrizio Francesco Vendramin.
Fu questo il periodo della fiera guerra mossagli specialmente da
Carlo Gozzi (17G1); sicché stanco del soggiorno di Venezia, ac-
cettò di andare a Parigi (1762) a dirigervi il Teatro italiano. Ma
là pure trovò grandi ostacoli, e cambiato il gusto del pubblico
rispetto a commedie. Lo aveva previsto mad, du Bocage scri-
vendo all'Algarotti, ai 30 febbraio 1763: « Goldoni ne nous a encore
rien donne, et plairoit difficilement ici, où peu de gens entendent
aisémeut Titalien et en connoissent bien les moeurs ; et Goldoni
u'aura pas le temps ni les moyens à nous faire rire de nos ridi-
cules ressemblants.^ » Se anche il presagio non fu in tutto vero,
il Goldoni, alternata per un paio d'anni la composizione di lavori
meditati con quella di commedie dell'arte, scontento specialmente
dei comici, fu sul punto di cambiar cielo un'altra volta, recandosi
in una delle città (Vienna, Lisbona, Londra), dove sapeva di es-
sere, vivamente desiderato.^ Ma nominato maestro d'italiano delle
principesse reali, non si mosse più da Parigi. Ebbe più tardi dalla
corte una pensione, della quale lo privarono i rivolgimenti poli-
tici. Viveva, dunque, nella miseria, sempre col pensiero rivolto alla
patria, l'amore per la quale ritrasse in questi quattro versi afifet-
tuosissimi ;
Da A'^enezia lontan do mile mia
No passa dì che uo me vegna iu mente
Col dolce nome de la patria mia,
El linguazo e i costumi de la zente.
Troppo tardi, su proposta di Gius. Maria Chénier, la Convenzione
gli restituiva la pensione sospesa; che il Goldoni era morto il
giorno innanzi, 6 febbraio 1793.
È difficile determinare con precisione la cronologia delle opere
del Goldoni.^ E anche molto intricata la storia delle edizioni, al-
cune delle quali furono curate dall'autore medesimo. Meno ci
1 Algarotti, Opere, XYII, 123.
2 Memorie, III, cap. XIII ; A. Neri, C. G. hi Francia (da nuovi docu-
menti) in Natura ed arte, 1897, n. 16; E. Maddalena, Goldoni e Favart,
m Ateneo veneto, 1899, n. 1.
•^ Vedine un tentativo nella Bihliograjìa goldoniana di A. G. Spinelli,
Milano, Dumolard, 1884, pag. 267 e segg., e la recensione di A. Neri nel
^iorn. stor, della leti, ital, voi. V, pag. 269 e segg.
CARLO GOLDONI. 1201
prenic di ricordarne i primi tentativi draiiiiiuitici; cioè, lo traj^c-
dic e tragico»nnii'(li(;, lo couiniodio a soi;},'ctto, che a'inlV>rniavano
al comun gusto d'allora. Poco notevoli, so no eccettui quelle det-
tato in dialetto, son le poesie, quasi tutte d'occasiono; o, salvo
qualche singolo caso, hanno mediocre importanza i moltissimi li-
bretti serj e buffi, che furono all'autore fonte di lucro ncni iiidir-
foronte.^
Dello commedie goldoniane talune, diciassette in tutto, sono
prettamente veneziane, so anche l'uno o l'altro de' personaggi non
parli il dialetto: altro miste d'italiano e di dialetto : altro soltanto
in italiano, delle quali una parte in versi martelliani.
Quella riforma, ondo il nomo del Goldoni è celebre nella sto-
ria del nostro teatro, e per la quale il Voltaire lo celebrò Hbe-
rator d'Italia dai Goti e pittore della natura, cominciò col Momolo
Cortesan (17'iG-3S), commedia non ancora scritta del tutto, venne
energicamente alìermata nella Donna di (jarho (1742), e ripresa
quattr'anni più tardi con la Vedova scaltra, che segna anche il
l)rincipio delia i)roduzione goldoniana non più interrotta e turbata
da altre cure. La recita di sedici couimedio (ottobre 1750-'23 feb-
braio 17.'31), nuove per Venezia, promesse dal Goldoni al pub-
blico, che dopo il cattivo esito deWJjrcde fortunata pareva voler
staccarsi da lui, segna il momento culminanto della sua vita ar-
tistica. Ma egli talora dovette dubitare della bontà della ritorma
che tentava, sjjccialmonto quando 1' ab. Pietro Chiari attirava gran
folla al Sant'Angelo collo suo commedio stravaganti.- E cosi an-
ch' egli scrisse la Sposa x^ersiana, Ylrcana in luffa, la Peruviana,
la Bella selvafjgia, cc.: ma subito dopo ritornò alla sua propria
maniera, e compose alcune delle sue più celebrato commedie, per
esempio : Un curioso accidente, i liusterjhi, Le harufv ciozote, To-
dcvo brontolon, oc. A questa riforma, auspicata in qualche modo
da altri,'' ma dal Goldoni veramente condotta ad cfì'etto, si oppose
vivacemente Carlo Gozzi, che ebbe un effimero trionfo colle suo
fiabe, delle quali altrove diremo.
A Parigi il Goldoni scrisse in francese e fece rappresentare
(1771) la bellissima commedia Le Bourru bienfaisant * e L'Avare
fastucua-, oltre L'Eventail (Il Vcntarjìió).
* A'odi C. MrSATTI, Drammi inusicnli del 0., in Ateneo veneto, 1898,
genu.-febbr. ; P. MoLMKNTI, Drammi tnuaic. del G., in Uozzrtta mufiicule,
1898, M. 13; T. WiEL, / drammi music, vcnez. del settecento, Venezia, Yiscn-
tini, 1897.
- Vedi ToMM.vSKO, Storia civile nella letter., P. Chiari, CC, pag. 200
e sojg., Torino, Loescher, 1872; A. Nkri, Goldoni e Chiari, wcWJllustr. ital.,
ISSI, n. 47 ; lo stesso, Goldoni, Chiari e Carlo Gozzi, nella Scena illuatr.,
15 febbraio 1886.
>' Vedi M. Landau, Carlo Guidoni, in Deilayc zur Allgemcinen Zeitung,
Miinchcn, 1896, n. 52, 53.
* Vedi sul giudizio dei francesi contcìiiporanci A. Nkri. Aneddoti in-
torno al Bourru bienfaisant, in Billiot. delle scuole ital., otlubio 1893.
202 SECOLO XVIII.
Vivacissiiiui ò nolhi commedia del Goldoni la pittura della
vita veneziana, comica ed allegra quant' altra mai, eh' ci ben co-
nosceva e ben sapeva a preferenza ritrarre.' Tolse via la sciat-
teria della commedia a soggetto, abolendo le improvvisazioni^ non
però mai rinunziando nella commedia meditata alla festività, che
era propria di quel genere cosi amato dal pubblico. Studiò paziente-
mente persone e cose; e se non fu sempre troppo profondo scru-
tatore del cuore umano, ne sempre ebbe le medesime felici
intuizioni de' caratteri, gran parte di questi tuttavia disegnò mira-
bilmente. Non è suo maggior pregio lo stile e la lingua; bensì la
gran copia delle invenzioni e la gioconda grazia e il felice brio
de' dialoghi, e sopratutto l'aver fedelmente ritratto la natura,
nella realtà sua e nella sua varietà. Egli perciò a ragione si van-
tava, scrivendo a G. Gozzi, di non aver « cercato d' imitare né i
Greci, né i Latini, nò i Francesi, nò gli Spagnuoli, nò gli Italiani
nostri medesimi », ma « fissando la mèta nella verità e nella ra-
gione » essersi « condotto per quella via, dove la natura lo tra-
sportava ». Ben giudicò di lui, ancor vivente, il Cesarotti scri-
vendo al Van Goens : «s'egli avesse studio quanto ha natura,
s'egli scrivesse un po' più correttamente, se il suo ridicolo fosse
alle volte più delicato, se le sue circostanze gli avessero permesso
di comporre un minor numero di commedie e di lavorarle di più,
parmi che potrebbesi con molta franchezza contrapporlo a Mo-
lière.'^ » Ed anche ai suoi dì non gli si risparmiarono censure, e
tra le più fiere son da ricordare quelle d'un giudice molte altre
volte acuto e giusto, il Baretti.^ In Germania dove il suo teatro
nella seconda metà del secolo scorso godette immensa popolarità
e fece scuola, il Goldoni venne tartassato con critica intempe-
rante e poco acuta da Giuseppe Sonnenfels nelle Lettere sulla scena
viennese (1768-69), fiacca imitazione della Drammaturgia d'Am-
burgo. Degna di dimenticanza è poi l'insolente diatriba del Di-
derot, che accusato a ragione di plagio a danno del veneziano, sfogò
in modo inqualificabile il suo risentimento : * ma in Francia, oltre-
ché dal Diderot, fu imitato dal Voltaire,^ nò l'arte sua fu senza
efficacia sul Beaumarchais e sul Picard.^
^ Vedi E. Masi, dirlo Goldoni e P. Lonfjld, nel voi. Sulla storia dd
teatro italiano nel sec. XVIII, Firenze, Sansoni, 1891.
2 Einst. scelto, Alvisopoli, 1826, pag. 46.
^ Vedi G. Sanesi, Barettì e Goldoni, nella Rassegna Nazionale, vol.LXIX,
16 febbraio 1893, pag. 665 ; L. Piccioni, Studi e ricerche intorno a G in-
seppe Baretti, Livorno, Giusti, 1899, passim.
* Vedi P. ToLDO, Se il Diderot abbia imitato il Goldoni, in Glorn. stor.
della leti, ital, voi. XXVI, 350.
^ Vedi P. ToLDO, Attinenze fra il teatro comico di Voltaire e quello del G.,
in Giorn. stor., XXXI, 31.3 ; A. Neri, Una fonte rfe?rEcossaise di Voltaire,
iti Kass. bibliogr. dalla lett. ital., VII, 44:.
^ Vedi Ch. Dejob, Les femmcs dans la comédie frang, et ital, au XVIII
siede, Paris, Foutemoing, 1899, pag. 366,
CAUI.O (iUlJ)OiM. 203
Ad o^jiii modo, egli creò o ricreò, il teatro comico italiano; da
mestiere lo sollevò a jjenere letterario, da artilicio di comici a
magistero d'arte, da ripetizione stucclievole di cpisodj e di ca-
ratteri fissi ed immutabili, a rii)rodiizione dal vero di fatti, colti ii(d
loro diverso prodursi sulla scena della vita, e di sentimenti, stu-
diati nella unità degli umani caratteri e nella ditVerenza delle indi-
viduali manifestazioni. E perciò, molte delle moltissime commedie
goldoniane si rappresentano ancora su' nostri teatri e piacciono,
perchè serban perenne frescliezza, anzi sembran j»iù nuove delle
iiuovisninie da' (jiovani autori italiani.' Tra gli imitatori di Goldoni,
che son durati felicemente lino al Gherardi del Testa, al Ferrari,
in alcune jìroduzioni, e al Gallina, tiene il più antico luogo Fran-
cesco Albergati,' e non 1' ultimo, Alberto Nota piemontese.
Del Goldoni rimangono anche varie Lettere nelle seguenti rac-
colte: E. Masi, Lettere di C. G., con proemio e note, liologna,
Zanichelli, 1880; G. INI. Uui5ANI, Lettere di C. O. con prefazione
e note, Venezia, Ongania, 1880; D. Mantovani, C. G. e il teatro
di San Luca a Venezia, carteygio inedito, Milano, Treves, 1880;
A. G. Sl'lNELLI, Lettere al conte Arconali-Visconti, Milano, Ci-
vclli, 1882, e Fogli spaì'si del (?., Milano, Dumolard, 1885 ; due ne
pubblicò F. NOVATI nella Hassrgua hibliografica della lettera-
tura italiana, ISOV), pag. 23; quattro nello stesso anno C. Kaijany
in Carlo Goldoni ec., pagg. 303, 305, 30(3, 312; due A. Fiammazzo
in Pagine friulane, 18U8, n. 11; due A. Neiu in Natura ed arte
181)7, n. IG; una G. Livi naW Illustrazione italiana, 1895, n. 15; una
(i. Tamuaua nella Biblioteca delle scuole italiane, 1893, 10 feb-
braio, e una si leggeva già nelle Mémoires di C. Favart, Paris, 1808,
voi. II, pag. 424.
[Per studj sulla sua vita, oltre alle importanti note di E. Lòiinp:ii
al i)rimo volume della cit. ristampa delle Mémoires, vedi dello
stesso, C. G. e le sue Memorie, ncWArchivio veneto, 1882, XXIII-
XXIV; Memorie sulla vita rfi C. (?., Modena, 1859 (opera anonima
di Caulo Bour.iii, come risulta dalle Mevi. della r. acc. delle scienze
di Modena, voi. Ili, p. 17); E. Masi, Parrucche e Sanculotti, Mi-
lano, Treves, 1886; Carlo Goldoni, Albo, Venezia, 1883; V. Ma-
i.amani, Nuovi appunti e curiosità goldoniane, Venezia, 1887;
alcuni articoli di A. G. Spinelli nel Panaro di :Modena, 1893,
numeri 14, 33, 35, 02, 130, 144; e per nlt. E. Maddalena, Bricciche
(/oldoniane (La visita al Voltaire), Pitigliano, 1897 ecc.
Sulle commedie in generale: Charakterc der vornehmsten Dichter
alter nationen, Leipzig, 1793 (nel sec. voi. v'è un saggio anonimo su
' Vedi A. FRANCnETTf, Gran Goldoni !, \\(i\V Antoì. lìeìln crii. Icit. ntwl.
ilol MoRANiM, pag. 509 ; K. Masi, Ctntenario di C. Goldoni, nella Nuova
Antolof)in, 2' serie, voi. XLII, disp. del 1" febbraio 1893, pa?. 539.
2 E. Masi, La vita e i tempi, ce, d^F. Albergati, I3ologiia, Zani-
chelli, 1878.
20a .SECOLO XVI ir.
C.G., ch'ò opera di Fuiedricii Jacoiì.s L1704-1847J); G.G.Df: Ros-
si. Del moderno teatro comico italiano e del suo restauratore C. (J.,
Bassano, 1794; L. Carrer, Saggi sulla vita e su le opere di C. G.,
Venezia, 1824; D. Gavi, Della vita di C. G. e delle sue commedie,
Milano, 1826; F. Meneghezzi, Della vita e delle opere di C.G.,
Milano, 1827 ; E. KUTir, Uber Goldoni, in Literarhistorisches Ta-
schenhuch, edito da K. E. Pruztz, Hannover, 1846; I. Ciampi, La
vita artistica di C. G., lioma, 1860; P. G. Molmbnti, Carlo Gol-
doni, Venezia, 1880; VeknoN Lee, G. eia commedia realista, nel
volume II Settecento in Italia, Milano, Diiniolard, 1881 ; F. Galanti,
C. G. e Venezia nel sec. XVIII, Padova, Salmin, 1882 (cfr. su
quest'opera, in Archivio veneto, 1882, voi. 24° la recensione di
E. LÒHNER) ; E. De Marcjiii, Lettere e letterati italiani del
sec. XVIII, Milano, Briola, 1882; A. Luder, C. G. in seinem
Verhàltnis zu Molière, Berlin, 1883; A. Neri, Aneddoti goldoniani,
Ancona, Morelli, 1883 ; C. Braggio, Le donne del G., Genova, 1889 ;
E. Masi, Pel centenario di C. G., in Nuova Anlol., 1893, 1" febbr. ; P. Pe-
trocchi, C. G. e la commedia, Milano, Vallardi, 1893; C. Kabany,
Carlo Goldoni, Paris, Berger-Levrault, 1896 (v. su quest' opera,
E. Maddalena, néìV Ateneo veneto, 1897, aprile-maggio; una re-
censione segnata M. nel Giornale stor., XXVIII, 454, e H. Schnee-
GANS, nel Literaturhlatt far germ. u. rem. Philologie, 1897, N. 8) ;
F. Martini, Carlo Goldoni, Conferenza, nella Vita italiana del 700,
Milano, Treves, 1896, e ora nel volume Simpatie, Firenze, Bempo-
rad, 1900 ; C. Dejob, Les femmes dans la comédie franqaise et ita-
Henne au XVIII" siede, Paris, 1899 ; M. LANDAU, GeschicJde der
ifalienischen Literatur im X Vili Jahrhundert, Berlin, Felber, 1899;
M. Beduschi, Molière e Goldoni, Verona, Casablanca, 1900, ecc.
Studj speciali su singole commedie: E. Maddalena, La Locan-
diera, nel Giornale ligustico, 1893, fase. 9, 10; La finta aramalato,
WQÌV Ateneo veneto, 1893, nov.-dic. ; Le barufe chioggiotte, Alessan-
dria, 1894; Sul « Vero amico », in Ateneo veneto,18QG,magg.-ag.] Aned-
doti intorno al « Servitore di due j^ctdroni », ibidem, 1898, genn.-
febbr.; Nel teatro del Goldoni: Giuoco e Giocatori, in Progr. del-
l'Accdi commercio di Vienna, 1898; La serva amorosa, nella Rivista
o?aZ?jm^ica,1900,geun.-febb.;ed ivi pure iCajntan Fracassa; G.Bro-
GNOLIGO, Nel teatro di C. G.: Le femmineinintigliose, Il cavaliere
e la dama, I malcontenti, nel Rinascimento di Foggia, voi. 3*', e
Il medico olandese, nella Bibl. delle scuole it., 1899, u. 12; LSkola,
Corneill's « Le menteur » und Goldoni's « Il bugiardo » in ihrem
Verhàltnisse zu Alarcon^s « La verdad sospechosa », Pilsen, 1884;
F. U. MaraNZANA, Un tipo fortunato: Il bugiardo, nella Gaz-
zetta letteraria di Torino, 1885, n. 41 (v. su quest'articolo la let-
tera di A. Neri nel u. 43); V. Carrera, C. G. a Torino (sul
« Molière »), Torino, 1886; V. Federici, Il « Torquato Tasso »
di C. G. e di P. Giacomelli, nella Vita italiana, 1895, n. 15;
P. Toldo, Tre commedie francesi inedite di C. G., nel Giorn.
CARLO GOLDONI. 205
sfor., voi. XXIX, 377; F. Saucby, Le « Molière » del G., nella lievue
dea cours et conférences, 1«98, {gennaio; CK Tauuioni-Tozzktti,
Il G. a Livorno, Livorno, 1899 (riguardii la trilogia della Villeg-
fjiatiira)\ li. HONFANTI, La donna di garbo di C. ^r., Noto, 1809, ecc.
Delle molte edizioni del teatro scello goldoniano, rammentiamo
quelle procurate da lì. Nocchi, Firenze, Le Mounier, 1856, e da
E. Masi, Scelta di comviedie di C. G. con note preliminari a cia-
scuna commedia, Firenze, Succ. Le Mounier, 1897 (v. su di essa,
G. Maddalena, nella Rassegna bibliografica della lett. it., 1897,
N. 9-10). Per la bibliografia generale delle opere del G., fra le
quali primeggiano l'edizione di Venezia, Zatta, 1788-95, in 44 voi.,
dall'autore approvata, e poi quella di Prato, Giachetti, 1819-27,
in 50 voi., vedi la eit. op. di A. G. Spinelli.]
Le smanie per la villeggiatura. — La scena è in Livorno. Paolo,
servo di Leonardo, sta preparando i bauli: sopravviene il padrone.
[ATTO PRIMO. — Scena I. — Paolo, Leonardo.]
Leonardo. Che fate qui in questa camera? Si lian da far
cento cose, e voi perdete il tempo, e non se ne eseguisco
nessuna.
Paolo. Perdoni, signore. Io credo, che allestire il baule
sia una delle cose necessarie da farsi.
Leonardo. Ho bisogno di voi per qualche cosa di più
importante. Il baule fatelo riempir dalle donne.
Paolo, Le donne stanno intorno della padrona; sono oc-
cupate per essa, e non vi è caso di poterle nemmen vedere.
Leonardo. Quest' è il difetto di mia sorella. Non si con-
tenta mai. Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei.
P(^r andare in ville^^giatura non le basta un me.se per alle-
stirsi. Due donne impiegate un mese per lei! k una cosa
insolVribilc!
Paolo. Aggiunga che non bastandole le due donne no
ha chiamate due altre ancora in ajuto.
Leonardo. E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa
qualche nuovo vestito?
Paolo. Non signore. Il vestito nuovo glielo fa il sarto.
In casa da queste donne fa rinnovare i vestiti usati. Si fa
fare delle mantiglie, dei rnantif/lioni, delle cutlie da giorno,
delle cullie da notte, una quantit;\ di forniture di pizzi, di
nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per
andare in campagna. In oggi la campagna ò di maggior
soggezione della cittìi.
Leonardo. Si, è pur troppo vero, chi vuol figurare nel
mondo, convien che faccia quello che fanno gli altri. La
nostra villeggiatura di Montenero è una delle più frequen-
L
20G SECOLO XVIIT.
late, e di maggior impegno delT altre. La compagnia, con
cui si ha da andare, è di soggezione. Sono io pure in ne-
cessità di far di più di quello che far vorrei. Però ho bi-
sogno di voi. Le ore passano, si ha da partir da Livorno
innanzi sera, e vo'che tutto sia lesto, e non voglio clic
manchi niente.
Paolo. p]lla comandi, ed io farò tutto quello che potrò fare.
Leonardo. Prima di tutto, facciamo un poco di scanda-
glio di quel che e' è, e di quello che ci vorrebbe. Le posate
ho timore che siano poche.
Paolo. Due dozzine dovrebbero essere sufficienti.
Leonardo. Per ordinario lo credo anch'io. Ma chi mi as-
sicura, che non vengano delle truppe d' amici ? In campa-
gna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati.
Le posate si mutano frequentemente, e due coltelliere non
bastano.
Paolo. La prego perdonarmi, se parlo troppo libera-
mente. Vossignoria non è obbligata di fare tutto quello che
fanno i marchesi fiorentini, che hanno feudi e tenute gran-
dissime, e cariche di dignità grandiose.
Leonardo. Io non ho bisogno, che il mio cameriere mi
venga a fare il pedante.
Paolo. Perdoni; non parlo più.
Leonardo. Nel caso, in cui sono, ho da eccedere le bi-
sogna. Il mio casino di campagna è contiguo a quello del
signor Filippo. Egli è avvezzo a trattarsi bene; è uomo
splendido, generoso ; le sue villeggiature sono magnifiche,
ed io non ho da farmi scorgere, non ho da scomparire in
faccia di lui.
Paolo. Faccia tutto quello che le detta la sua prudenza.
Leonardo. Andate da Monsieur Gurland, e pregatelo per
parte mia, che mi favorisca prestarmi due coltelliere, quat-
tro sottocoppe e sei candelieri d'argento.
Paolo. Sarà servita.
Leonardo. Andate poscia dal mio droghiere, fatevi dare
dieci libbre di caffè, cinquanta libbre di cioccolata, venti lib-
bre di zucchero e un sortimento di spezierie per la cucina.
Paolo. Si ha da pagare?
Leonardo. No, ditegli, che lo pagherò al mio ritorno.
Paolo. Compatisca; mi disse T altrieri, che sperava prima
ch'ella andasse in campagna, che lo saldasse del conto
vecchio.
Leonardo. Non serve. Ditegli che lo pagherò al mio ri-
torno.
Paolo. Benissimo.
Leonardo. Fate, che vi sìa il bisogno di carte da giuoco
con quel che può occorrere per sei o sette tavolini, e so-
prattutto, che non manchino candele di cera.
Paolo. Anche la cereria di Pisa, prima di far conto nuovo,
vorrebbe esser pagata del vecchio.
CARLO GOLDONI. 207
Leonardo. Compiate della cera di Venezia. Costa più,
ma dura più, ed è più beila.
Paolo. Ho da prenderla coi contanti ?
Leonardo. Fatevi dare il bisogno; si pa^^herà al mio ri-
torno.
Paolo. Signoro, al suo ritorno ella avrà una folla di cre-
ditori, che l'inquieteranno.
Leonardo. Voi m' inquietate più di tutti. Sono dieci anni
che siete meco, e ogni anno diventate più impertinente.
Terderù la pazienza.
Paolo. p]lla è padrona di mandarmi via; ma io se parlo,
parlo per l'amore che le professo.
I^eonardo. Impiegate il vostro amore a servirmi, e non
a seccarmi. Fate <iuol che vi ho detto, e mandatemi Cecco.
Paolo. Sai'jX ubbidita. (Oh ! vuol passar poco tempo, che
le grandezze di villa lo vogliano ridurre miserabile nella
citt;\.)
Dopo di che, Leonardo manda a dire al signor Filippo, della
cui lìji;lia Giacinta è innamorato, che lia ordinato per amlicduc :
cavalli della posta e la carrozza per andare in villa a Montenoro,
o, raccomanda al sorvo Cecco di informarsi se in casa di Filipi)o
sia stato il suo rivale, Guglielmo. Entra poi la sorella Vittori:!.
[Scena \U. — Leonardo, poi Vittoria.']
Leonardo. Non posso soffrire, che la signora Giaci ni a
tratti Guglielmo. Ella dice, che (lee tollerarlo per compi.i-
cere il padre che è un amico di casa, che non ha veruna
inclinazione per lui; ma io non sono in obbligo di creder
tutto, e questa pratica non mi piace. Sarà bene che io
medesimo solleciti di terminare il baule.
Vittoria. Signor fratello, è egli vero, che avete ordinato
i cavalli di posta, e che si ha da partir questa sera?
Leonardo. Si certo. Non si stabilì cosi fin da ieri?
Vittoria. Ieri vi ho detto, che sperava di poter essere
all'ordine per partire ; ma ora vi dico, che non lo sono, o
mandate a sospentlere l'ordinazion dei cavalli, perdio as-
solutamente per oggi non si può partire.
Leonardo. E perchè per oggi non si può partire ?
Vittoria. Perchè il sarto non mi ha terminato il mio
mariage.
Leonardo.^ Che diavolo è questo mariage ?
Vittoria. È un vestito all' ultima moda.
Leonardo. Se non è finito, ve lo potrà mandare in cam-
pagna.
Vittoria. No, certo. Voglio che me lo provi, e io voglio
veder finito.
Leonardo. Ma la partenza non si può dilferire. Siamo in
208 SECOLO xvrii.
concerto d' andar insienio col signor Filippo e colla signora
Giacinta, e si è detto di partir oggi.
Vittoria. Tanto peggio. So che la signora Giacinta è di
buon gusto, e non voglio venire col pericolo di scomparire
in faccia di lei.
Leonardo. Degli abiti ne avete in abbondanza ; potete
comparire al par di chi che sia.
Vittoria. Io non ho che delle anticaglie.
Leonardo. Non ve ne avete fatto uno nuovo anche Tanno
passato ?
Vittoria. Da un, anno all'altro gli abiti non si possono
più dire alla moda. È vero, che gli ho fatti rifar quasi tutti ;
ma un vestito nuovo ci vuole, è necessario, e non si può
far senza.
Leonardo. Quest' anno corre il mariage dunque.
Vittoria. Sì, certo. L'ha portato di Torino madama Gra-
non. Finora in Livorno non credo che se ne siano veduti,
e spero d'esser io delle prime.
Leonardo. Ma che abito è questo ? Vi vuol tanto a farlo ?
Vittoria. Vi vuol pochissimo. È un abito di seta di un
color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori. Tutto
consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uni-
scano bene, che risaltino e non facciano confusione.
Leonardo. Orsù, non so che dire. Mi spiacerebbe di ve-
dervi scontenta; ma in ogni modo s'ha da partire.
Vittoria. Io non vengo assolutamente.
Leonardo. Se non ci verrete voi, ci anderò io.
Vittoria. Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi
in Livorno?
Leonardo. Verrò poi a pigliarvi.
Vittoria. No, non vcà fido. Sa il cielo quando verrete ;
e se resto qui senza di voi, ho paura, che quel tisico di
nostro zio m.i obblighi a restar in Livorno con lui; e se
dovessi star qui, in tempo che V altre vanno in villeggia-
tura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione.
Leonardo. Dunque risolvetevi di venire.
Vittoria. Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto
ed a terminare il mio mariage.
Leonardo. Io non ho tempo da perdere. Ho da far cento
cose.
Vittoria. Maledetta la mia disgrazia !
Leonardo. Oh gran disgrazia in vero! Un abito di meno
è una disgrazia lagrimosa, intollerabile, estrema.
Vittoria. Sì, signore, la mancanza di un abito alla moda
può far perdere il credito a chi ha fama di essere di buon
gusto.
Leonardo. Finalmente siete ancora fanciulla, e le fan-
ciulle non s' hanno a mettere colle maritate.
Vittoria. Anche la signora Giacinta è fanciulla, e va con
tutte le mode, con tutte le gale delle maritate. E in oggi
CARLO GOLDONI. 209
non sì distinguono le fanciulle dalle maritate, e una fan-
ciulla che non faccia quello che Amno Taltre, suol passare per
zotica, per antica^^lia; e mi meraviglio, che voi abbiate queste
massime, e che mi vogliate avvilita e sprezzata a tal segno.
Leonardo. Tanto fracasso per un abito ?
Yittoria. Piuttosto che restar qui o venir fuori senza
il mio abito, mi contenterei d'aver una malattia.
Leonardo. 11 cielo vi conceda la grazia.
Vittoria. Che mi venga una malattia^
Leonardo. No, che abbiate l'abito, e che siate contenta.
[Scena IV. — Berto servo, e detti."]
Berto. Signore, il signor Ferdinando desidera riverirla.
Leonardo. Venga, venga è padrone.
Vittoria. Sentimi. Va' immediatamente dal sarto, da mon-
sieur de la Rejouissance, e digli, che Unisca subito il mio ve-
stito, che lo voglio prima ch'io parta per la campagna, altri-
menti me ne remlerà conto, e non farà più il sarto in Livorno.
Berto. Sarà servita.
Leonardo. Via, acchetatevi e non vi fate scorgere dal
signor Ferdinando.
Vittoria. Che importa a me del signor Ferdinando? Io
non mi prendo soggezione di lui. M'immagino che anche
quest'anno verrà in campagna a piantare il bordone da noi.
Leonardo. Certo mi ha dato speranza di venir con noi,
e intende di farci una distinzione; ma siccome è uno di
(luelli, che si cacciano da per tutto, e si fanno merito rap-
portando qua e là i fatti degli altri, convien guardarsene
(\ non fargli sapere ogni cosa, perchè se sapesse le vostre
smanie per l'abito, sarebbe capace di porvi in ridicolo in
tutte lo compagnie e in tutte le conversazioni.
Vittoria. \i perchè dunque volete condur con noi que-
sto canchero, se conoscete il di lui carattere?
Leonardo. Vedete bene : in campagna è necessario aver
della compagnia. Tutti procurano d'aver più gente che
possono; e poi si sente dire: il tale ha dieci persone, il
tale ne ha sei, il talo otto, e chi ne ha più è più stimato.
Ferdinando poi è una persona, che comoda inllnitamente.
Giuoca a tutto, è sempre allegro, dice delle bullonerie, man-
Igia bene, fa onore alla tavola, sollre la burla, e non se ne
ha a male di niente.
Vittoria. Sì, si, è vero; in campagna, questi caratteri
|sono necessarj. Ma che fa, che non viene?
L^eonardo. Eccolo li, ch'esce dalla cucina.
Vittoria. Che cosa sarà andato a fare in cucina?
Leonardo. Curiosità. Vuol saper tutto. Vuol saper quel
[che si fa, quel che si mangia, e poi lo dice per tutto.
Vittoria. Manco male, clie di noi non potrà raccontaro
iiserie.
IV. u
210 SECOLO XVIIT.
Ferdinando viene invitato a partire cogli altri, e andrà in ca-
lesse in compagnia di Vittoria: il fratello invece, con Filippo e
Giacinta. Ma Vittoria è più che mai incaponita di non partire senza
aver il suo vestito nuovo, quando sa dal reduce servo che Giacinta
si provava appunto un mariaye, e va in fretta con Ferdinando dal
sarto per sollecitarlo.
Siamo in casa di Filippo, il quale spensieratamente invita Gu-
glielmo in villa e gli promette un posto nel proprio legno. Partito
eh' egli è, entra Giaciuta colla cameriera Brigida.
[Scena X. — Filippo, Giacinta, Brigida.']
Giacinta. Signor padre, mi favorisca altri sei zecchini.
Filippo. E per che fare, figliuola mia?
Giacinta. Per pagare la sopraveste di seta da portar
per viaggio per ripararsi dalla polvere.
Filippo. (Poh! non si finisce mai.) Ed è necessario che
sia di seta?
Giacinta. Necessarissimo. Sarebbe una villania portare
la polverina di tela; vuol essere di seta, e col cappuccetto.
Filippo, Ed a che fine il cappuccetto?
Giacinta. Per la notte, per T aria, per T umido, per
quando è freddo.
Filippo. Non si usano i cappellini? I cappellini non ri-
parano meglio?
Giacinta. Oh i cappellini!
Brigida. Oh, oh, oh i cappellini!
Giacinta. Che ne dici, eh Brigida? I cappellini!
Brigida. Fa morir di ridere il signor padrone. I cap-
pellini!
Filippo. Che! Ho detto qualche sproposito? Qualche be-
stialità ? A che far tante maraviglie ? non si usano forse i
cappellini?
Giacinta. Goffaggini, goffaggini !
Brigida. Anticaglie, anticaglie!
Filippo. Ma quanto sarà che non si usano più i cap-
pellini?
Giacinta. Oh due anni almeno.
Filippo. E in due anni sono venuti anticaglie?
Brigida. Ma non sapete, signore, che quello che si usa
un anno, non si usa T altro?
Filippo. Sì, è vero. Ho vedute in pochissimi anni cuffie,
cuffiotti, cappellini, cappelloni ; ora corrono i cappuccetti :
m' aspetto che V anno venturo vi mettiate in testa una scarpa.
Giacinta. Ma voi, che vi maravigliate tanto delle donne,
ditemi un poco, gli uomini non fanno peggio di noi? Una
volta quando viaggiavano per la campagna, si mettevano
il loro buon giubbone di panno, le gambiere di lana, le scarpe
grosse; ora portano anch' eglino la polverina, gli scarpi-
CARLO GOLDONI. 211
netti colle fibbie di brilli, e montano in calesso colle cal-
zoline di seta.
Brigida. E non usano più il bastone.
Giacinta. Ed usano il pallossetto,* ritorto.
Brigida. E portano l'ombrellino per ripararsi dal sole.
Giacinta. E poi dicono di noi!
Brigida. Se l'anno peggio di noi!
Filippo. Io non so niente di tutto questo. So, che come
s'andava cinquant'anni sono, vado ancora presentemente.
Giacinta. Questi sono discorsi inutili. Favoritemi sei zec-
chini.
Filippo. Sì, veniamo alla conclusione : lo spendere è sem-
pre stato alla moda.
Giacinta. Mi pare di essere delle più discrete.
Brigida. Oh! signore, non sapete niente? Date un'oc-
chiata in villa a quel che l'anno le altre, e me la saprete
poi raccontare.
Filippo. Sicché dunque devo ringraziare la mia figliuola,
che mi hi la finezza di farmi risparmiare moltissimo.
Brigida. Vi assicuro che una fanciulla più economa non
si dà.
Giacinta. Mi contento del puro bisognevole, e niente più.
Filippo. Figliuola mia, sia bisognevole o non sia biso-
gnevole, sapete eh' io desidero soddisfarvi, e i sei zecchini
venite a prenderli nella mia camera, che ci saranno. Ma
circa all' economia, studiatela un poco più, perchè se vi
maritate, sarà dillìcile che troviate un marito del carat-
tere di vostro padre.
Giacinta. A che ora si parte?
Filippo. (A proposito.) Io penso verso le ventidue.
Giacinta. Oh! credo che si partirà prima. E chi viene
in carrozza con noi?
Filippo. Ci verrò io, ci verrà vostra zia, e per quarto
un galantuomo, un mio amico che conoscete anche voi.
Giacinta. Qualche vecchio forse ?
Filippo. Vi dispiacerebbe che fosse un vecchio?
Giacinta. Oh! non, signore. Non ci penso, basta che non
sia una marmotta. Se è anche vecchio, quando sia di buon
umore, son contentissima.
Filippo. È un giovane.
Brigida. Tanto meglio.
Filippo. Perchè tanto meglio?
Brigida. Perchè la gioventù naturalmente è più vi-
vace, è più spiritosa. Starete allegri : non dormirete per
viaggio.
Giacinta. Yj chi è questo signore?
Filippo. È il signor Guglielmo.
Giacinta. Si, sì, è un giovane di talento.
* Da palosso, che ò una specie di bastone animato.
212 SECOLO XVJII.
Filippo. Il signor Leonardo, mi figuro, andrà in calesse
con sua sorella.
Giacinta. Probabilmente.
Brigida. Ed io, signore, con chi anderò?
Filippo. Tu andrai, come sei solita andare; per mare,
in una feluca colla mia gente e con quella del signor Leo-
nardo.
Brigida. Ma, signore, il mare mi fa sempre male, e Tanno
passato ho corso il pericolo d'annegarmi, e quest'anno non
ci vorrei andare.
Filippo. Vuoi ch'io ti prenda un calesse appostai
Brigida. Compatitemi, con chi va il cameriere del si-
gnor Leonardo?
Giacinta. Appunto : il suo cameriere lo suol condurre
per terra. Povera Brigida, lasciate, che ella vada con esso lui.
Filippo. Col cameriere?
Giacinta. Sì, cosa avete paura? Ci siamo noi: e poi sa-
pete, che Brigida è una buona fanciulla.
Brigida. In quanto a me, vi protesto, monto in sedia,
mi metto a dormire, e non lo guardo in faccia nemmeno.
Giacinta. È giusto ch'io abbia meco la mia cameriera.
Brigida. Tutte le signore la conducono presso di loro.
Giacinta. Per viaggio mi possono abbisognar cento cose.
Brigida, Almeno son li pronta per assistere, per servir
la padrona.
Giacinta. Caro signor padre.
Brigida. Caro signor padrone.
Filippo. Non so che dire ; non so dir di no, non son ca-
pace di dir di no, e non dirò mai di no.
Viene Leonardo infuriato per aver saputo dell'invito fatto a
Guglielmo.
[Scena XII. — Giacinta, Leonardo.']
Leonardo. Servitor suo, signora Giacinta.
Giacinta. Padrone, signor Leonardo.
Leonardo. Scusi, se son venuto ad incomodarla.
Giacinta. Fa grazia, signor cerimoniere, fa grazia.
Leonardo. Sono venuto ad augurarle il buon viaggio.
Giacinta. Per dove ?
Leonardo. Per la campagna.
Giacinta. E ella non favorisce?
Leonardo. Non signora.
Giacinta. Perchè, se è lecito?
Leonardo. Perchè non le vorrei essere di disturbo.
Giacinta. Ella non incomoda mai ; favorisce sempre. E cosi
grazioso, che favorisce sempre.
Leonardo. Non sono io il grazioso. Il grazioso lo avrà
seco lei nella sua carrozza
CARLO GOLDONI. 213
Giacinta. Io non dispongo, si<^nore. Mio padre è il pa-
drone, ed è padrone di l'ar venire clii vuole.
Leonardo. Ma la nudinola si accomoda volentieri.
(iiacinta. Se volentieri o malvolentieri, voi non avete
da far l'astrologo.
Leonardo. Alle corte, signora Giacinta. Quella compa-
gnia non mi piace.
Giacinta. È inutile, che a me lo diciate.
L^eonardo. E a chi lo devo dire?
Giacinta. A mio padre.
Leonardo. Con lui non ho liberta, di spiegarmi.
Giacinta. Né io ho V autorità di farlo fare a mio modo.
Leonardo. Ma se vi premesse la mia amicizia, trove-
reste la via di non disgustarmi.
Giacinta. Come? Suggeritemi voi la maniera.
Leonardo. Oh ! non mancano pretesti quando si vuole.
Giacinta. Ter esempio?
Leonardo. Per esempio si fa nascere una novità, che
diflerisca l'andata, e si acquista tempo: e quando preme,
si tralascia d'andare, piuttosto che disgustare una persona
per cui si ha qualche stima.
Giacinta. Si, per farsi ridicoli (luesta è la vera strada.
Leonardo. Eh ! dite, che non vi curate di me.
Giacinta. Ho della stima, ho dell'amore per voi ; ma non
voglio per causa vostra fare una trista figura in faccia del
mondo.
Leonardo, Sarebbe un gran male, che non andaste un
anno in villeggiatura?
Giacinta. Un anno senza andare in villeggiatura ! Che
dii'ebbero di me a Montenero ? Che direbbero di me a Li-
vorno? Non avrei più ardire di mirar in faccia nessuno.
Leonardo. Quand' è cosi, non occorre altro. Vada, si di-
verta e buon prò le faccia.
Giacinta. Ma ci verrete anche voi.
Leonardo. Non signora, non ci verrò.
Giacinta. Eh ! sì\ che verrete.
Leonardo. Con lui non ci voglio andare.
Giacinta. E che cosa vi ha fatto colui?
Leonardo. Non lo posso vedere.
Giacinta. Dunque l'odio che avete per lui, è più grande
dell' amore che avete per me.
Leonardo. Io l'odio appunto per causa vostra.
(Uacinta. Ma per qual motivo?
Leonardo. Perdio, perchè.... non mi fate parlare.
Giacinta. Perchè ne siete geloso.
Leonardo. Si, perchè ne sono geloso.
Giacinta. Qui vi voleva. La gelosia che avete di lui, è
un'offesa che fate a me, e non potete essere di lui ge-
loso, senza credere me una frasca, una civetta, una ban-
deruola. Chi ha della stima per una persona non può nu-
214 SECOLO XVIII.
trire tai .sentimenti, e dove non vi è stima non vi può
essere amore ; e se non mi amate, lasciatemi, e se non
sapete amare, imparate. Io vi amo, e son fedele, e son
sincera, e so il mio dovere, e non vo' gelosie, e non vo-
glio dispetti, e non voglio farmi ridicola per nessuno, e in
villa ci ho da andare, ci devo andare, e ci voglio andare.
Leonardo. Va', clie il diavolo ti strascini. Ma no, può es-
sere che tu non ci vada. Farò tanto forse, che non ci anderai.
Maladetto sia il villeggiare. In villa ha fatto quest'amici-
zia; in villa ha conosciuto costui. Si sacrifichi tutto: dica
il mondo quel che vuol dire. Non si villeggia più, non si va
più in campagna.
Neir atto secondo Vittoria, tutta lieta del suo abito, discorre col
fido ed amorevole Paolo.
[ATTO SECONDO. — Scena I. — Vittoria, Paolo.]
Vittoria. Via, via non istate più a taroccare. Lasciate
che le donne finiscano di fare quel che hanno da fare, e
piuttosto vi aiuterò a terminare il baule per mio fratello.
Paolo. Non so che dire. Siamo tanti in casa, e pare
che io solo abbia da fare ogni cosa.
Vittoria. Presto, presto. Facciamo, che quando torna il
signor Leonardo, trovi tutte le cose fatte. Ora son conten-
tissima, a mezzogiorno avrò in casa il mio abito nuovo.
Paolo. Glier ha poi finito il sarto ?
Vittoria. Sì, F ha finito; ma da colui non mi servo più.
Paolo. E perchè, signora? Lo ha fatto male?
Vittoria. No, per dir la verità, è riuscito bellissimo. Mi
sta bene, è un abito di buon gusto, che forse forse farà la
prima figura, e farà crepar qualcheduno d'invidia.
Paolo. E perchè dunque è sdegnata col sarto?
Vittoria. Perchè mi ha fatto un' impertinenza. Ha voluto
i danari subito per la stoffa e per la fattura.
Paolo, Perdoni, non mi par che abbia gran torto. ]Mi ha
detto più volte, che ha un conto lungo e che voleva esser
saldato.
Vittoria. E bene, doveva aggiungere alla lunga polizza
anche questo conto, e sarebbe stato pagato di tutto.
Paolo. E quando sarebbe stato pagato?
Vittoria. Al ritorno della villeggiatura.
Paolo. Crede ella di ritornar di campagna con dei quat-
trini ?
Vittoria. E facilissimo. In campagna si giucca. Io sono
piuttosto fortunata nel giuoco, e probabilmente l'avrei pa-
gato senza sagrificare quel poco, che mio fratello mi passa
per il mio vestito.
Paolo. A buon conto quest' abito è pagato, e non ci ha
più da pensare.
i
CARLO GOLDONI. 215
Vittoria. Si ma sono restata senza quattrini.
Paolo. Che importa? Ella non no ha per ora da spendere.
Vittoria. E corno ho da l'ar a giuocare?
Paolo. Ai giuochotti si può perder poco.
Vittoria. Oh! io non giuoco a'giuoolietti. Non ci ho pia-
cere, non vo' applicare. In città giuoco qualche volta per
compiacenza; ma in campagna il mio divertimento, lamia
passione è il taraone.
Paolo. Per quest'anno le converrà aver pazienza.
Vittoria. Oh questo poi no. Vo'giuocare, perchè mi piace
giuncare. Vo' giuocare, perchè ho bisogno di vincere, ed è
necessario ch'io giuochi per non far dir di me la conver-
sazione. In ogni caso io mi fido, io mi comprometto di voi.
paolo. Di me?
Vittoria. Sì, di voi. Sarebbe gran cosa, che mi antici-
paste qualche danaro a conto del mio vestiario dell'anno
venturo ?
Paolo. l'erdoni. Mi pare, che ella lo abbia intaccato della
metà almeno.
Vittoria. Che importa? Quando l'ho avuto, l'ho avuto.
Io non credo, che vi Carote pregare por ([uesto.
Paolo. Per me la servirei volentieri, ma non ne ho. È
vero, che quantunque io non abbia che il titolo ed il s<i-
lario di cameriere, ho l'onor di servire il padrone da fat-
tore e da maestro di casa. Ma la cassa che io tengo, è cos'i
ristretta, che non arrivo mai a poter pagare quello che
alla giornata si spende ; e per dirle la verità, sono indietro
anch' io di sei mesi del mio onorario.
Vittoria. Lo dirò a mio fratello, e mi darà egli il bisogno.
Paolo. Signora, si accerti, che ora è più che mai in ri-
strettezze grandissime, e non si lusinghi, perchè non le può
dar niente.
Vittoria. Ci sarà del grano in campagna.
Paolo. Non ci sarà nemmeno il bisogno per far il pane
che occorre.
Vittoria. V uva non sarà venduta.
Paolo. È venduta anche V uva.
Vittoria. Anche l'uva?
Paolo. E se andiamo di questo passo, signora....
Vittoria. Non sarà cos'i di mio zio.
Paolo. Oh! quello ha il grano, il vino, e i danari.
Vittoria. E non possiamo noi prevalerci di qualche cosa?
Paolo. Non signora. Hanno fatto le divisioni. Ciasche-
duno conosce il suo. Sono separate le fattorie. Non vi è
niente da sperare da quella parte.
Vittoria. Mio fratello dunque va in precipizio ?
Paolo. Se non ci rimedia !
Vittoria. E come avrebbe da rimediarci?
Paolo. Regolar le spese. Cambiar sistema di vivere. Ab-
bandonar soprattutto la villeggiatura.
21G SECOLO XVIII.
Vittoria. Abbandonar la ville^'giatura? Si vede bene clic
siete un uomo da niente. Ristringa le spese in casa. Scemi
la tavola in città, minori la servitù ; le dia meno salario ;
si vesta con meno sfarzo, risparmi quel che getta in Li-
vorno ; ma la villeggiatura si deve fare, e ha da essere da
par nostro, grandiosa secondo il solito e colla solita pro-
prietà.
Paolo. Crede ella, clie possa durar lungo tempo?
Vittoria. Che duri fin che io ci sono. La mia dote è in
deposito, e spero che non tarderò a maritarmi.
Paolo. E intanto?...
Yittoì'ia. E intanto terminiamo il baule.
Paolo. Ecco il padrone.
Vittoria. Non gli diciamo niente per ora. Non lo met-
tiamo in melanconia. Ho piacere che sia di buon animo,
che si parta con allegria. Terminiamo di empir il baule.
Ma Leonardo entra furibondo e toglie gli ordini per la par-
tenza.
[Scena IL — Leonardo e eletti.']
Leonardo. (Ah ! vorrei nascondere la mia passione, ma
non so se sarà possibile. Sono troppo fuor di me stesso.)
Vittoria. Eccoci qui, signor fratello, eccoci qui a lavo-
rare per voi.
Leonardo, Non vi affrettate. Può essere che la partenza
si differisca.
Vittoria. No, no, sollecitatela pure. Io sono in ordine,
il mio mariage è finito. Son contentissima, non vedo Torà
d' andarmene.
Leonardo. Ed io sul supposto di far a voi un piacere,
ho cambiato disposizione, e per oggi non si partirà.
Vittoria. E ci vuol tanto a rimettere le cose in ordine
per partire?
Leonardo. Per oggi, vi dico, non è possibile.
Vittoria. Via, per oggi pazienza. Si partirà domattina
pel fresco : non è così ?
Leonardo. Non lo so. Non ne son sicuro.
Vittoria. Ma voi mi volete far dare alla disperazione.
Leonardo. Disperatevi quanto volete, non so che farvi.
Vittoria. Bisogna dire, che vi siano dei gran motivi.
Leonardo. Qualche cosa di più della mancanza d' un
abito.
Vittoria. E la signora Giacinta va questa sera?
Leonardo. Può essere eh' ella pure non vada.
Vittoria. Ecco la gran ragione. Eccolo il gran motivo.
Perchè non parte la bella, non vorrà partire ramante. Io
non ho che fare con lei, e si può partire senza di lei.
Leonardo. Partirete quando a me parerà di partire.
Vittoria. Questo è un torto, questa è un'ingiustizia, che
CARLO GOLDONI. 217
voi mi fato. Io non lio da restar in Livorno quando tutti
vanno in campagna, o la signora Giacinta mi sentirà, se
resterò a Livorno per lei.
Leonardo. Questo non è ragionare da fanciulla propria
e civile, come voi siete. E voi, che fate colà ritto, ritto,
come una statua?
Paolo. Aspetto gli ordini. Sto a vedere, sto a sentire.
Non so, s'io abbia a seguitare a fare, o a principiar a disfare.
Vittoria. Seguitate a fare.
Leonardo. Principiate a disfare.
Paolo. Fare e disfare è tutto lavorare.
Vittoria. Io butterei ogni cosa dalla finestra.
I^conardo. Principiate a buttarvi il vostro mariage.
Vittoria. Sì, se non vado in campagna, lo straccio in
cento mila pezzi.
Leonardo. Che cosa c'è in questa cassa?
Paolo. Il caffè, la cioccolata, lo zucchero, la cera e le
spezierie.
Leonardo. M' immagino, che niente di ciò sarà stato
pagato.
Paolo. Con che vuol ella, eh' io abbia pagato ? So bene
che per aver (jucsta roba a credito, ho dovuto sudare : e
i bottegai mi hanno maltrattato, come se io l'avessi rubata.
Leonardo. Riportate ogni cosa a chi ve l'ha data, e fate
che depennino la partita.
Paolo. Si, signore. l']hi ! chi è di là? Aiutatemi.
Vittoria. (Oh povera me! La villeggiatura è finita.)
Paolo. Bravo, signor padrone : cosi va bene. Far manco
debiti che si può.
Leonardo. Il malan, che vi colga. Non mi fate il dot-
tore, che perderò la pazienza.
Paolo. (Andiamo, andiamo, prima che si penta. Si vede,
che non lo fa per economia, lo fa per qualche altro diavolo
che ha per il capo.)
[Scena IH. — Vittoria, Leonardo."]
Vittoria. Ma si può sapere il motivo di questa vostra
disperazione ?
Leonardo. Non lo so nemmen io.
Vittoria. Avete gridato colla signora Giacinta?
Leonardo. Giacinta è indegna dell' amor mio, è indegna
dcir amicizia della mia casa, e ve lo dico, e ve lo comando,
non vo' che la pratichiate.
Vittoria. VA\ ! già, quando penso una cosa, non fallo mai.
L'ho detto, e cosi è. Non si va più in campagna per ra-
gione di quella sguaiata, ed ella ci anderà, ed io non ci
potrò andare. E si burleranno di me.
Leonardo. Eh ! corpo del diavolo, non ci anderà nemmeu
ella. Farò tanto, che non ci anderà.
218 SECOLO XVIII.
Vittoria. Se non ci andasse Giacinta, mi pare che mi
spiacerebbe meno eli non andar io. Ma ella si, ed io no?
Ella a far la graziosa in villa, ed io restar in città? Sa-
rebbe una cosa, sarebbe una cosa da dar la testa nelle
muraglie.
Leonardo. Vedrete, che ella non anderà. Per conto mio
ho levato l'ordine de' cavalli.
Vittoria. Oh sì, peneranno assai a mandar eglino alla
Posta!
Leonardo. Eh! ho fatto qualche cosa di più. Ilo fatto
dir delle cose al signor Filippo, che se non è stolido, se
non è un uomo di stucco, non condurrà per ora la sua
figliuola in campagna.
Vittoria. Ci ho gusto. Anch' ella sfoggierà il suo gran-
d' abito in Livorno. La vedrò a passeggiare sulle mura. Se
l'incontro, le vo'dar la baia a dovere.
Leonardo. Io non voglio che le parliate.
Vittoria. Non le parlerò, non le parlerò. So corbellare
senza parlare.
Anche Ferdinando, che viene annunziandosi pronto a partire,
è rimandato via, con gran dolore di Vittoria, che non farà più la
figura sperata nel tempo della villeggiatura.
Si torna in casa di Filippo. Entra Fulgenzio vecchio e amico
di Leonardo.
■ [Scena IX. — Filippo, Fulgenzio.']
Fulgenzio. Buon giorno, signor Filippo.
Filippo. Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che
buon vento vi conduce da queste parti?
Fulgenzio. La buona amicizia, il desiderio di rivedervi
prima che andiate in villa e di potervi dare il buon viaggio.
Filippo. Son obbligato al vostro amore, alla vostra cor-
dialità, e mi fareste una gran finezza se vi compiaceste
di venir con me.
Fulgenzio. No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in
campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina,
sono tornato per le biade minute, e ci anderò pel il vino.
Ma son solito di andar solo, e di starvi quanto esigono i
miei interessi, e non più.
Filippo. Circa agl'interessi della campagna, poco più,
poco meno, ci abbado anch' io, ma solo non ci posso stare.
Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di
agire e di divertirmi.
Fulgenzio. Benissimo, ottimamente. Dee ciascheduno
operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma
non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la com-
pagnia sia buona, sia conveniente, e non dia occasione al
mondo di mormorare.
CARLO GOLDONI. 219
Filippo. Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio,
die pare abbiate intenzione di dare a me delle statlìlate.
Fulgenzio. Caro amico, noi siamo amici da tanti anni.
Sapete, se vi ho sempre amato, se nelle occasioni vi ho
dati dei segni di cordialità.
Filippo. Si, me ne ricordo, e ve ne sarò grato lino ch'io
viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete
sempre somministrati senz' alcuna dillìcoltà. Ve li ho per
altro restituiti, e i mille scudi che l'altro giorno mi avete
prestati, gli avrete, come mi sono impegnato, da qui a
tre mesi.
Fulgenzio. Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi
ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. i\Ia
permettetemi, che io vi dica un'«)Sservazione che ho latta.
Io veggo, che voi venite a domandarmi denaro in prestito
quasi ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Se-
gno evidente, che la villeggiatura v'incomoda; ed è un
peccato che un galantuomo, un benestante, come voi siete,
file ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s" incomodi
domandi denari in prestito per ispenderli malamente. Si,
signore, per ispenderli malamente, perchè le persone me-
desime, che vengono a mangiare il vostro, sono le prime
a dir male di voi, e fra (luelli, che voi trattato amorosa-
mente, vi è qualcheduno, che pregiudica al vostro decoro
ed alla vostra riputazione.
Filippo. Cospetto! Voi mi mettete in un'agitazione gran-
dissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e l'armi
mangiare il mio malamente, ve l'accordo, è vero, ma sono
avvezzato cosi, e linalmente non ho che una sola liglia.
Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene tino
ch'io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi
pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come po-
tete dirlo, signor Fulgenzio?
Fulgenzio. Lo dico con fondamento, e lo dico appunto,
riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so clie
vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di
domandarvela, percliè voi la lasciate troppo addomesticar
colla gioventù, e non avete riguardo di ammettere zerbi-
notti in casa, e sino di accompagnarli in viaggio con essolei.
Filippo. Volete voi dire del signor Guglielmo?
Fulgenzio. Io dico di tutti, e non voglio dir di nessuno.
Filippo. Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che
è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo,
Fulgenzio. Egli è giovane.
Filippo. E mia figlia è una fanciulla prudente.
Fulgenzio. Ella è donna.
Filippo. E vi è mia sorella, donna attempata....
Fulgenzio. E vi sono delle vecchie più pazze assai delle
giovani.
Filippo. Era venuto anche a me qualche dubbio su tal
220 SECOLO xviir.
proposito, ma lio pensato poi, che tanti altri si conducono
nella stessa maniera....
Fulgenzio. Caro amico, de' casi ne avete mai verluti a
succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si
sono poi trovati della loro condotta contenti ?
Filippo. F^er dire la verità, chi si, e chi no.
Fulgenzio. E voi siete sicuro del si? Non potete dubi-
tare del no?
Filippo. Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo
l'ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli
che dite voi, che la vorrebbe in consorte?
Fulgenzio. Per ora non posso dirvelo.
Filippo. Ma perchè?
Fulgenzio. Perchè per ora non vuol essere nominato.
Regolatevi diversamente, e si spiegherà.
Filippo. E che cosa dovrei fare? Tralasciar d'andare
in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo.
Fulgenzio. Che bisogno c'è, che vi conduciate la figlia?
Filippo. Cospetto di bacco! Se non la conducessi, ci sa-
rebbe il diavolo in casa.
Fulgenzio. Vostra figlia dunque può dire anch' ella la
sua ragione?
Filippo. V ha sempre detta.
Fulgenzio. E di chi è la colpa?
Filippo. È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di
buon cuore.
Fulgenzio. Il troppo buon cuore del padre fa essere di
cattivo cuore le figlie.
Filippo. E che vi ho da fare presentemente?
Fulgenzio. Un poco di buona regola. Se non in tutto,
in parte. Staccatele dal fianco la gioventù.
Filippo. Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Gu-
glielmo!
Fulgenzio. Alle corte ; questo signor Guglielmo vuol es-
sere il suo malanno. Per causa sua il galant' uomo che la
vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete
che se ne parli e che si tratti, fate, a buon conto, che non
si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da co-
mandar più del padre.
Filippo. Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono
stato io, che l'ho invitato a venire.
Fulgenzio. Tanto meglio. Licenziatelo.
Filippo. Tanto peggio ; non so come licenziarlo.
Fulgenzio. Siete uomo, o che cesa siete?
Filippo. Quando si tratta di far male grazie, io non so
come fare.
Fulgenzio. Badate, che non facciano a voi delle male-
grazie che puzzino.
Filippo. Orsù, bisognerà eh' io lo faccia.
Fulgenzio. Fatelo, che ve ne chiamerete contento.
I
CARLO GOLDONI. 221
Filippo. Potreste ben farmi la confidenza ili dirmi clii
sia r amico che aspira alla mia Urlinola.
Fulgenzio. Per ora non posso; compatitemi. Deggio an-
dare per un aliare di premura.
Filippo. Accomodatevi come vi pare.
Fulgenzio. Scusatemi della libertà che mi ho preso.
Filippo. Anzi vi ho tutta l'obbligazione.
Fulgenzio. A buon rivederci.
Filippo. Mi raccomando alla grazia vostra.
Fulgenzio. (Credo di aver ben servito il signor Leonardo.
Ma ho inteso di servire alla veritìi, alla ragione, all'inte-
resse e al decoro dell'amico Filippo.)
M;i Cincintn, initnta contro Leonardo, fa in modo che il padre
non mandi a dire a Gnglielnio che non vi è posto per lui.
[Scena XI. — Giacinta.']
Giacinta. Nulla mi premo del signor (Uiglielmo. Afa non
voglio che Leonardo si possa vantare d'averla vinta, dia
son sicura che gli passerà, son sicura che tornerà, che
conoscerà non essere questa una cosa da prendere con
tanto caldo. E se mi vuol bene davvero, com'egli dice, im-
parerà a regolarsi per V avvenire con più discrezione, che
non sono nata una schiava, e non voglio essere schiava.
Viene Vittoria a far visita.
[Scena Xll. — Giacinta, Vittoria.']
Vittoria. Giacintina, amica mia carissima.
Giacinta. Buon di, la mia cara gioia.
Vittoria. Che dite eh? È una bell'ora questa da inco-
modarvi?
Giacinta. Ohi incopiodarmi? Quando vi ho sentito ve-
nire, mi si è allargato il cuore di allegrezza.
Vittoria. Come state ? State bene ì
Giacinta. Benissimo. E voi? Afa è superfluo il doman-
darvi ; siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che con-
solate.
Vittoria. Voi, voi avete una cera che innamora.
Giacinta. Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mat-
tina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi
duole il capo, figuratevi che buona cera ch'io posso avere !
Vittoria. VA io, non so cosa m'abbia, sono tanti giorni,
che non mangio niente: niente, niente, si può dir quasi
niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco.
Giacinta. Si, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non
sono stecchi.
Vittoria. Eh ! a voi non vi si contano l'ossa.
222 SECOLO XVIII.
Giacinta. No, poi. Per grazia del cielo, lio il mio biso-
g netto.
Vittoria. Oli cara la mia Giacinta!
Giacinta. Oh benedetta la mia Vittoria! Sedete, gioia;
via sedete.
Vittoria. Aveva tanta voglia di vedervi ! Ma voi non vi
degnate mai di venir da me.
Giacinta. Oh! caro il mio bene, non vado in nessun luogo.
Sto sempre in casa.
Vittoria. E io? esco un pochino la festa, e poi sempre
in casa.
Giacinta. Io non so come facciano quelle che vanno tutto
il giorno a girone per la città.
Vittoria. (Vorrei pur sapere se va o se non va a Mon-
tenero, ma non so come fare.)
Giacinta. (Mi fa specie, che non mi parla niente della
campagna.)
Vittoria. È molto che non vedete mio fratello?
Giacinta, h" ho veduto questa mattina.
Vittoria. Non so cos'abbia. È inquieto, è fastidioso.
Giacinta. Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre
ore buone, e le nostre ore cattive.
Vittoria. Credeva quasi che avesse gridato con voi.
Giacinta. Con me? Perchè ha da gridare con me? Lo
stimo, e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter
gridare con me. (Ci giuoco io, che V ha mandata qui suo
fratello !)
Vittoria. (È superba quanto un demonio.)
Giacinta. Vittorina, volete restar a pranzo con noi ?
Vittoria. Oh ! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi
aspetta.
Giacinta. Glielo manderemo a dire.
Vittoria. No, no, assolutamente non posso.
Giacinta. Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in
tavola.
Vittoria. (Ho capito. Mi vuol mandar via.) Così presto
andare a desinare?
Giacinta. Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto,
bisogna sollecitare.
Vittoria. (Ah ! maledetta la mia disgrazia.)
Giacinta. M'ho da cambiar di tutto, m'ho da vestire
da viaggio.
Vittoria. Sì, sì è vero ; ci sarà della polvere. Non torna
il conto rovinare un abito buono.
Giacinta. Oh ! in quanto a questo poi, me ne metterò
uno meglio di questo. Della polvere non ho paura. Mi ho
fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo cappuc-
cetto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio.
Vittoria. (Anche la sopravveste col cappuccetto ! Lo vo-
glio anch'io, se dovessi vendere de' miei vestiti.)
CARLO GOLDONI. 223
Giacinta. Voi non l'avete la sopravveste col cappuccetto?
Vittoria. Sì, si, ce V ho ancor io; me V ho fatta fin dal-
l' anno passato.
Giacinta. Non ve l'ho veduta l'anno passato.
Vittoria. Non l' ho portata, perchè, se vi ricordate, non
e' era polvere.
Giacinta. Si, si non e' era polvere. (Il propriamente ri-
dicola.)
Vittoria. Quest' anno mi ho fatto un abito.
Giacinta. Oh ! io me no ho fatto uno bello.
Vittoria. Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.
Giacinta. In materia di questo, vedrete qualche cosa di
particolare.
Vittoria. Nel mio non vi è né oro né argento, ma per
dir la verità è stupendo.
Giacinta. Oh! moda, moda. Vuol esser moda!
Vittoria. Oh ! circa la moda, il mio non si può dir che
non sia alla moda.
Giacinta. Si, si, sarà alla moda.
Vittoria. Non lo credete ?
Giacinta. Sì, Io credo. (Vuol restare, quando vede il mio
mariage !)
Vittoria. In materia di mode poi, credo di essere stata
sempre io delle prime.
Giacinta. Va che cos'è il vostro abito?
Vittoria. È un mariage.
Giacinta. Mar iage !
Vittoria. Si, certo. Vi par che non sia alla moda?
Giacinta. Come avete voi saputo che sia venuta di
Francia la moda del mariage ?
Vittoria. Probabilmente come l'avrete saputo anche voi.
Giacinta. Chi ve l'ha fatto?
Vittoria. Il sarto francese monsieur de la Rejouissance.
Giacinta. Ora ho capito. Briccone ! Me la pagherà. Io
r ho mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del ma-
riage. Io, che aveva in casa l'abito di Madama Granon.
Vittoria. Oh ! Madama Granon è stata da me a farmi
visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.
Giacinta. Sì, sì, scusatelo. Me l' ha da pagare senz'altro.
Vittoria. Vi spiace eh' io abbia il mariage ì
Giacinta. Oibo, ci ho gusto.
Vittoria. Volevate averlo voi sola?
Giacinta. Perchè? Credete voi ch'io sia una fanciulla
invidiosa? Credo che lo sappiate che io non invidio nessuno.
Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli
altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo
certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perchè
pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare
più d' una volta.
Vittoria. Io credo che tutte paghino.
224 SECOLO XVIII.
Giacinta. No, tutte non pagano. Tutte non lianno il
modo e la delicatezza che abbiamo noi. Vi sono di quello
che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche
premura il sarto s'impunta. Vuole i danari sul fatto, e
nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappimi dir se è
alla moda.)
Vittoria. (Non crederei che parlasse di me. Se potessi
credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar come
merita.)
Giacinta. E quando ve lo metterete questo beli' abito ?
Vittoria. Non so, può essere che non me lo metta nem-
meno. Io son così: mi basta d'aver la roba, ma non mi
curo poi di sfoggiarla.
Giacinta. Se andate in campagna sarebbe quella l'occa-
sione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in
quest' anno !
Vittoria. Chi v' ha detto che io non ci vada ?
Giacinta. Non so ; il signor Leonardo ha mandato a li-
cenziar i cavalli.
Vittoria. E per questo ? Non si può risolvere da un mo-
mento air altro ? E credete che io non possa andare senza
di lui ? Credete che io non abbia delle amiche, delle parenti
da poter andare?
Giacinta. Volete venire con me ?
Vittoria. No, no, vi ringrazio.
Giacinta. Davvero, vi vedrei tanto volentieri.
Vittoria. Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a
venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo.
Giacinta. Oh ! che l' avrei tanto a caro.
Vittoria. A che ora partite?
Giacinta. A ventun'ora.
Vittoria. Oh! dunque c'è tempo. Posso trattenermi qui
ancora un poco. (Vorrei vedere quest' abito se potessi.)
Giacinta. Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco.
Vittoria. Se avete qualche cosa da fare, servitevi.
Giacinta. Eh ! niente. M' hanno detto che il pranzo è
all'ordine, e che mio padre vuol desinare.
Vittoria. Partirò dunque.
Giacinta. No, no, se volete restare, restate.
Vittoria. Non vorrei che il vostro signor padre si avesse
a inquietare.
Giacinta. Per verità è fastidioso un poco.
Vittoria. Vi leverò l'incomodo.
Giacinta. Se volete restar con noi mi farete piacere.
Vittoria. (Quasi quasi ci resterei per la curiosità di que-
st' abito.)
Giacinta. Ho inteso : non vedete ? Abbiate creanza.
Vittoria. Con chi parlate?
Giacinta. Col servitore che mi sollecita. Non hanno
niente di civiltà costoro.
CARLO GOLDONI. 225
Vittoria. Io non ho veduto nessuno.
Giacinta. E V ho hen veduto io.
Vittoria. (Ho capito.) Signora Giacinta, a buon rivederci.
Giacinta. Addio, cara. Vogliatemi bene, ch'io vi assicuro
clic ve ne voglio.
Vittoria. Siato certa, che siete corrisposta di cuore.
Giacinta. Un bacio almeno.
Vittoria. Si, vita mia.
Giacinta. Cara la mia gioia.
Vittoria. Addio.
Giacinta. Addio.
Vittoria. (Faccio degli sforzi a fingere, che mi sento
crepare.)
Giacinta. (Le donne invidiose, io non le posso soffrire.)
Ncir atto terzo, Fulgenzio partecipa a Leonardo i discorsi avuti
con Filippo e il buon esito delle sue trattative, e lo incoraggia a
chiedere la mano di Giacinta al padre e insieme a provvedere ai
suoi aft'ari dissestati. Intanto si affrettano i preparativi per la
partenza.
[ATTO IIL — Scena \\l. — Leonardo, Paolo.l
Leonardo. Ora, che nella carrozza loro non va Guglielmo,
non rifiuteranno la mia compagnia; sarebbe un torto ma-
nifesto che mi farebbono. E poi se il signor F\ilgenzio gli
parla, se il signor Filippo è contento di dare a me sua
lìgliuola, come non dubito, la cosa va in forma ; nella car-
rozza ci ho d'andar io. Con mia sorella vedrò che civada
il signor Ferdinando. Già so com'egli è fatto, non si ricor-
derà più di quello che gli ho detto.
Paolo. Eccomi a' suoi comandi.
Leonardo. Presto, mettete all'ordine quel che occorre,
e fate ordinare i cavalli, che a ventun' ora s' ha da partire.
Paolo. Oh bella!
Leonardo. E spicciatevi.
Paolo. E il desinare?
Leonardo. A me non importa il desinare. Mi preme clic
siamo lesti per la partenza.
Paolo. Ma io ho disfatto tutto quello clie aveva fatto.
Leonardo. Tornate a fare.
Paolo. È impossibile.
Leonardo. Ha da esser possibile, e lia da esser fatto.
Paolo. (Maledetto sia il servire in questa maniera.)
Leonardo. E voglio il caffè, la cera, lo zucchero, la cioc-
colata.
Paolo. Io ho reso tutto ai mercanti.
Leonardo. Tornate a ripigliare ogni cosa.
Paolo. Non mi vorranno dar niente.
Leonardo. Non mi fate andar in collera.
IV. Ij
22G SECOLO XVIII.
Paolo. Ma, signore....
Leonardo. Non c'è altro da dire. Spicciatevi.
Paolo. Vuole che gliela dica? Si faccia servire da clii
vuole, Cirio non ho T abilità per servirla.
Leonardo. No, Paolino mio, non mi abbandonare. Dopo
tanti anni di servitù, non mi abbandonare. Si tratta di tutto.
Vi farò una confidenza non da padrone, ma da amico. Si
tratta, che il signor Filippo mi dia per moglie la sua figliuola
con dodici mila scudi di dote. Volete ora eh' io perda il cre-
dito? Mi volete vedere precipitato? Credete eh' io sia in ne-
cessità di fare gli ultimi sforzi per comparire? Avrete cuore
ora di dirmi, che non si può, che è impossibile, che non mi
potete servire?
Paolo. Caro signor padrone, la ringrazio della confidenza,
che si è degnato di farmi : farò il possibile ; sarà servita.
Se credessi di far col mio, la non dubiti, sarà servita.
[Scena IV. — Leonardo, Vittoria.']
Leonardo. È un buon uomo, amoroso, fedele ; dice che
farà, se credesse di far col suo. ]\Ia m' immagino già ; quel
che ora è suo, una volta sarà stato mio. Frattanto vo' ri-
mettere in ordine il mio baule.
Yittoria. Orsù, signor fratello, vengo a dirvi liberamente
che di questa stagione in Livorno non ci sono mai stata, e
non ci voglio stare, e voglio andare in campagna. Ci va la
signora Giacinta, ci vanno tutti, e ci voglio andar ancor io.
Leonardo. E che bisogno e' è, che mi venite ora a par-
lare con questo caldo?
Vittoria. Mi scaldo, perchè ho ragione di riscaldarmi, e
andrò in campagna con mia cugina Lucrezia e con suo
marito.
Leonardo. E perchè non volete venir con me?
Yittoria. Quando?
Leonardo. Oggi.
Yittoria. Dove?
Leonardo. A Montenero.
Yittoria. Voi?
Leonardo. Io.
Yittoria. Oh !
Leonardo. Si, da galantuomo.
Yittoria. Mi burlate?
Leonardo. Dico davvero.
Yittoria. Davvero, davvero?
Leonardo. Non vedete, ch'io fo il baule?
Yittoria. Oh ! fratello mio, come è stata ?
Leonardo. Vi dirò: sappiate che il signor Fulgenzio....
Yittoria. Si, sì, mi racconterete poi. Presto, donne, dove
siete? Donne! le scatole, la biancheria, le scuffie, gli abiti,
il mio mariage !
CARLO GOLDONI. 227
Ma il servitore Cecco che ritorna da casa del 8ip:nor Filippo, dico
che questi si scusa di non poter accojjliere nella sua carrozza
Lcouardo, perdio è invitato Guglielmo.
[Scena V. — Leonardo, Cecco. '\
Cecco. Eccomi di ritorno.
Leonardo. E così che hanno detto?
Cecco. Oli ho trovati padre e iv^VvA, tutti e due insieme.
M'hanno detto di riverirla: che avranno piacere della di
lei compaj^nia per via^^gio, ma che circa il posto nella car-
rozza, abbia la bontà di compatire, che non la possono ser-
vire, perchè sono impegnati a darlo al signor Guglielmo.
Leonardo. Al signor Guglielmo?
Cecco. Così m' hanno detto.
Leonardo. Hai capito bene? Al signor Guglielmo?
Cecco. Al signor (Juglielmo.
Leonardo. No, non può essere. Sei uno stolido, sei un
balordo.
Cecco. Io le dico, che ho capito benissimo, e in segno
della mia verità, quando io scendeva le scale, saliva il si-
gnor Guglielmo col suo servitore col valigino.
Leonardo. Povero me ! non so dove mi sia. Mi ha tra-
dito Fulgenzio, mi scherniscono tutti, son l'uor di me. Sono
disperato.
Cecco. Signore.
Leonardo. Portami dell' acqua.
Cecco. Da lavar le mani t
Leonardo. Un bicchier d'acqua, che tu sia maledetto.
Cecco. Subito. (Non si va più in campagna.)
Leonardo. Ma come mai quel vecchio, (piel maledetto
vecchio ha potuto ingannarmi? L'avranno ingannato! Ma
se mi ha detto, che Filippo ha con esso lui degli altari, in
virtù dei (inali non lo poteva ingannare ; duuiiue il male
viene da lui.... ma non può venire da lui. Verrà da lei, da
lei.... ma non può venire nemmeno da lei. Sarà stato il pa-
dre ; ma se il pailre ha promesso ! Sarà stata la figlia ; ma
se la lìglia dipende ! Sarà dunque stato Fulgenzio ! Ma per
<iual ragione mi ha da tradire Fulgenzio i Non so niente,
son io la bestia, il pazzo, F ignorante....
Cecco {viene coli' acqua).
Leonardo. Sì, pazzo, bestia.
Cecco. Mal perchè l)estia?
Leonardo. Si, bestia, bestia.
Cecco. Signore, io non sono una bestia.
Leoìiardo. Io, io sono una bestia, io.
Cecco. (In fatti le bestie bevono l'acqua, ed io bevo il
vino.)
Leonardo. Va" subito dal signor Fulgenzio. Guarda s'è in
(■:ì^;i. DÌl'Ti chc" favorisca venii* da me, o che ir» atidiò da Ini.
228 SECOLO XVIII.
Cecco, Dal signor Fulgenzio qui dirimpetto?
Leonardo. Sì, asino, da clii dunque?
Cecco. Ha detto a me?
Leonardo. A te.
Cecco. (Asino, bestia, mi pare, clie sia tutt' uno.)
[Scena VI. — Leonardo, Paolo."]
Leonardo. Non porterò rispetto alla sua vecchiaia, non
porterò rispetto a nessuno.
Paolo. Animo, animo, signore, stia allegro, che tutto sarà
preparato.
Leonardo. Lasciatemi stare.
Paolo. Perdoni, io ho fatto il debito mio, e più del de-
bito mio.
Leonardo. Lasciatemi stare, vi dico.
Paolo. Vi è qualche novità?
Leonardo. Sì, pur troppo.
Paolo, I cavalli sono ordinati.
Leonardo. Levate V ordine.
Paolo. Un' altra volta ?
Leonardo. Oh ! maledetta la mia disgrazia !
Paolo. Ma, che cosa gli è accaduto mai?
Leonardo. Per carità, lasciatemi stare.
Paolo. (Oh ! povero me ! andiamo sempre di male in
peggio.)
[Scena VIL — Vittoria e detti.']
Vittoria. Fratello, volete vedere il mio ynariage ?
Leonardo. Andate via.
Vittoria. Che maniera è questa?
Paolo. (Lo lasci stare.)
Vittoria. Che diavolo avete ?
Leonardo. Sì, ho il diavolo ; andate via.
Vittoria. E con questa bella allegria si ha da andare in
campagna?
Leonardo. Non vi è più campagna ; non vi è più villeg-
giatura, non v' è più niente.
Vittoria. Non volete andare in campagna?
Leonardo. No, non ci vado io, e non ci anderete nem-
meno voi.
Vittoria. Siete diventato pazzo ?
Paolo. (Non lo inquieti di più, per amor del cielo.)
Vittoria. Eh ! non mi seccate anche voi.
[Scena Vili. — Cecco e detti."]
Cecco. Il signor Fulgenzio non e' è.
Leonardo. Dove il diavolo se V ha portato ?
Cecco. Mi hanno detto, che è andato dal signor Filippo.
I
CARLO GOLDONI. 229
Leonardo. Il cappello e la spada.
Paolo. Signore....
Leonardo. Il cappello e la spada.
Paolo. Subito.
Vittoria. Ma si può sapere?
Leonardo. 11 cappello e la spada!
paolo. Kccola servita.
Vittoria. Si può sapere, che cosa avete?
Leonardo. Lo saprete poi.
Vittoria. Ma che cosa lia^
Paolo. Non so niente. (ìli vo' andar dietro alla lontana.
Vittoria. Sai tu, che cos' abbia f
Cecco. Io so, che m' ha detto asino ; non so altro.
In casa di Filippo, Fulgenzio chiede al padre per conto di Leo-
nardo la mano di Giacinta, che gli è accordata: ma Filippo si trova
più clic mai imbrogliato per l'invito fatto a Guglielmo, che soprag-
giunge, in ordine per partire. Viene anche Leonardo, sempre in col-
lera, a cui Filippo non sa che cosa rispondere. Per fortuna, so-
pravviene Giacinta.
[SCEN.\ XIV. — Giacinta, Fulucnzio, Filippo e Leonardo."]
Giacinta. Che strepito è (juesto? Che piazzate sono
queste i
Leonardo. Signora, le piazzate non le faccio io. Le fanno
quelli che si burlano de' galantuomini, che mancano di pa-
rola, che tradiscono sulla fede.
Giacinta. Chi è il reo i
Fulgenzio. Parlate voi.
Filippo. Favoritemi di principiar voi.
Fulgenzio. Orsù, ci va del mio in quest' afTare. Poiché
il diavolo mi ci ha fatto entrare, a tacere ci va del mio,
e se non sa parlare il signor Filippo, parlerò io. Si, signora.
Ha ragione il signor Leonardo di lamentarsi. Dopo avergli
dato parola, che il signor Guglielmo non sarebbe venuto con
voi, mancargli, farlo venire, condurlo in villa, è un' azion
poco buona, è un trattamento incivile.
Giacinta. Che dite voi, signor padre?
Filippo. Ila parlato con voi. Rispondete voi.
Giacinta. Favorisca in grazia, signor Fulgenzio, con qual
autorità pretende il signor Leonardo di comandare in casa
degli altri?
Leonardo. Con quell'autorità, che un amante....
Giacinta. Perdoni, ora non parlo con lei. Mi risponda
il signor Fulgenzio. Come ardisce il signor Leonardo pre-
tendere da mio padre, e da me, che non si tratti chi pare
a noi, e non si conduca in campagna chi a lui non piace i
Leonardo. Voi sapete benissimo....
Giacinta. Non dico a lei ; mi risponda il signor Fulgenzio,
230 8EC0L0 XVIII.
Filippo. (Oli ! non sarà vero degli amoretti, non parle-
rebbe COSI.)
Fulgenzio. Poiché volete clie dica io, dirò io. Il signor
l.oonardo non direbbe niente, non pretenderebbe niente, so
non avesse intenzione di pigliarvi per moglie.
Giacinta. Come I 11 signor Leonardo ha intenzione di vo-
lermi in isposa?
Leonardo. Possibile, che vi giunga nuovo?
Giacinta. Perdoni. Mi lasci parlar col signor F'ulgenzio.
Dite, signore, con qual fondamento potete voi asserirlo?
F%il(jenz4o. Col fondamento, che io medesimo, per com-
missione del signor Leonardo, ne ho avanzata testé a vo-
stro padre la proposizione.
Leonardo. Ma veggendomi ora si maltrattato....
Giacinta. Di grazia s'accheti. Ora non tocca a lei : par-
lerà quando toccherà a lei. Che dice su di ciò il signor padre?
Filippo. E che cosa direste voi?
Giacinta. No, dite prima quel che pensate voi. Dirò poi
quello che penso io.
Filippo. Io dico, che in quanto a me non ci avrei dif-
ficoltà.
Leonardo. Ma io dico presentemente....
Giacinta. Ma se ancora non tocca a lei ! Ora tocca par-
lare a me. Abbia la bontà d' ascoltarmi, e poi, se vuole, ri-
sponda. Dopo che ho Tenore di conoscere il signor Leo-
nardo, non può egli negare ch'io non abbia avuto per lui
della stima : e so, e conosco, eh' ei ne ha sempre avuto per
me. La stima a poco a poco diventa amore, e voglio cre-
dere che egli mi ami, siccome, confesso il vero, non sono
io per lui indifferente. Per altro, per(?hè un uomo acquisti
dell' autorità sopra una giovane non basta un equivoco af-
fetto, ma é necessaria un' aperta dichiarazione. Fatta questa,
non l' ha da saper la fanciulla solo, l' ha da saper chi le
comanda, ha da esser noto al mondo, s' ha da stabilire, da
concertare colle debite formalità. Allora tutte le finezze,
tutte le attenzioni hanno da essere per lo sposo, ed egli
acquista qualche ragione, se non di pretendere e di co-
mandare, almeno di spiegarsi con libertà, e di ottenere per
convenienza. In altra guisa può una figlia onesta trattar
£on indifferenza, e trattar tutti, e conversare con tutti, ed
esser egual con tutti : ma non può, e non deve usar distin-
zioni, e dar nell'occhio, e discreditarsi. Con quella onestà,
con cui ho trattato sempre con voi, ho trattato col signor
Guglielmo, e con altri. Mio padre lo ha invitato con noi, ed
io ne sono stata contenta, come lo sarei stata d' ogni altro ;
e vi, lagnate a torto, se di lui, se di me vi dolete. Ora poi,
che dichiarato vi siete, ora, che rendete pubblico l'amor
vostro, che mi fate l'onore di domandarmi in isposa, e che
mio padre lo sa, e vi acconsente, vi dico, che io ne sono
contenta, che mi compiaccio dell'amor vostro, e vi ringrazio
CARLO GOLDONI. 231
(Iella vostra bontà. Per l'avvenire tutto le distinzioni sa-
ranno vostro, vi si convengono, le potrete pretendere, e le
otterrete. Una cosa sola vi chiedo in grazia, e da questa
grazia può forse dipendere il buon concetto, eh' io deggio
Formar di voi, e la consolazione d'avervi. Vogliatemi amante,
ma non mi vogliate villana. Non late, che i primi segni del
vostro amore siano sospetti vili, dillìdenze ingiuriose, azioni
basse e plebee. Siam sul momento di dover partire. Volete
voi che si scacci villanamente, che si rendano altrui pa-
lesi i vostri sospetti, e che ci rendiamo ridicoli in l'accia al
mondo? Lasciate correre per questa volta. Credetemi, e
non mi offendete. Conoscerò da ciò, se mi amate ; se vi
preme il cuore o la mano. La mano è pronta, se la volete.
Ma il cuore meritatelo, se desiderate di conseguirlo.
Filippo. Ah ! Che dite ?
Fulgenzio, (lo non la prenderei, se avesse cento mila
scudi di dote.)
Filippo. (Sciocco !)
Leonardo. Non so che dire ; vi amo, desidero sopra tutto
il cuor vostro. iSli avete dette delle ragioni che mi convin-
cono. Non voglio esservi ingrato. Servitevi come vi pare,
ed abbiate pietà di me.
Fulgenzio. (Ch il baccellone 1)
Giacinta. (Niente m'importa che venga meco Guglielmo.
Basta che non mi contraddica Leonardo.)
Entra Vittoria.
[Scena XVL — Vittoria, Paolo, Brigida e detti.]
Vittoria. È permesso?
Giacinta. Sì, vita mia, venite.
Vittoria. (VAi vita mia, vita miai) Come vi sentite, si-
gnor Leonardo?
Leonardo. Benisswiio grazie al cielo. Paolino, presto, fate
che tutto sia lesto e pronto. Il baule, i cavalli, tutto quel
che bisogna. Noi parti rem fra poco.
Vittoria. Si parte ?
Giacinta. Sì, vita mia, si parte. Siete contonta?
Vittoria. Sì, gioia mia, sono contentissima.
Filippo. (Ho piacere, che fra cognate si amino.)
Fulgenzio, (lo credo che si amino come il lupo e la
pecora.)
Filippo. (Che uomo fantastico I)
Paolo. Sia ringraziato il cielo, che lo vedo rasserenato.
Vittoria. Via, fratello, andiamo anche noi.
Leonardo. Siete molto impaziente.
Giacinta. Poverina! ò smaniosa per andare in cam-
pagna.
Vittoria, Sì, poco più, poco meno, come voi all' incirca.
232 SECOLO XVIII.
Fulgenzio. E volete andare in campagna senza conclu-
dere, senza stabilire il contratto 'i
Vittoria. Che contratto ?
Filippo. Prima di partire si potrebbe fare la scritta.
Vittoria. Che scritta?
Leonardo. Io sono prontissimo a farla.
Vittoria. E che cosa avete da fare ?
Giacinta. Si chiamano due testi monj.
Vittoria. Che cosa far di due testimonj?
Brigida. Non lo sa ?
Vittoria. Non so niente.
Brigida. Se non lo sa, lo saprà.
Vittoria. Signor fratello?
Leonardo. Comandi.
Vittoria. Si fa lo sposo?
Leonardo. Per ubbidirla.
Vittoria, E a me non si dice niente?
Leonardo. Se mi darete tempo, ve lo dirò.
Vittoria. È questa la vostra sposa?
Giacinta. Sì, cara, sono io, che ha questa fortuna. Mi
vorrete voi bene ?
Vittoria. Oh quanto piacere ! Quanta consolazione ne
sento. Cara la mia cognata. (Non ci mancava altro, che ve-
nisse in casa costei.)
Giacinta. (Prego il cielo, che vada presto fuori di casa.)
Brigida. (Quei baci, credo che non arrivino al core.)
Filippo. (Vedete, se si vogliono bene !)
Fulgenzio. (Sì, lo vedo. Voi non conoscete le donne.)
Filippo. (Mi fa rabbia !)
Giacinta. Eccoli, eccoli ; ecco due testimonj.
Leonardo. (Ah ! ecco Guglielmo, egli è la mia dispera-
zione ; non lo posso vedere.)
Vittoria. (Che caro signor fratello! Prender moglie prima
di dare marito a me l Sentirà, sentirà, se gli saprò dire
l'animo mio....)
Viene Guglielmo, che sì adatta a rinunziare a Giacinta: e fatta
la scritta, si parte finalmente, dopo tante smanie e contrattempi,
per la desiderata villeggiatura.
Zio taccagno e Nipote dissipatore. — (Dalla commedia 7Z i?i-
torno dalla villeggiatura.)
[ATTO II. — Scena V. —Bernardino, Pasquale, l^'ulgenzìo.']
Beìmardino. Chi è che mi vuole? Chi mi domanda?
Pasquale. È il signor Fulgenzio, che desidera riverirla.
Bernardino. Padrone, padrone. Venga il signor Fulgen-
zio, padrone.
Fulgenzio. Riverisco il signor Bernardino.
CARLO GOLDONI. 233
Bernardino. Buon giorno, il mio caro amico. Cli^fate?
Stato bene? È tanto che non vi vedo.
Fulgenzio. Grazie al cielo, sto bene quanto è permesso
.1(1 un uomo avanzato, clic principia a sentire gli acciacchi
(lulhi vecclìiaia.
Bernardino. Fato come fo io, non ci abballate. Qualclio
malo si ha da soll'rire ; ma chi non ci abbada lo sento meno.
Io mangio quando ho lame, dormo quando ho sonno, mi di-
verto quando ne ho volontà. E non bado, non bado. E a che
cosa s' ha da badare? Ah, ah, ah, ò tutt' uno ! non ci s'ha
da badare !
Fulgenzio, Il ciclo vi benedica: voi avete un bellissimo
temperamento. Felici quelli che sanno prendere le coso
come voi le prendete!
Bernardino. È tutt' uno, ò tutt' uno ! Non ci s' ha da
badare !
Fulgenzio. Sono venuto ad incomodarvi per una cosa
di non lieve rimarco.
lìernardino. Caro signor Fulgenzio, sono qui, siete pa-
drone di me.
Fulgenzio. Amico, io vi ho da parlare del signor Leo-
nardo vostro nipote.
Bernardino. Del signor marchesino? Che fa il signor
marchesino? Come si porta il signor marchesino?
Fulgenzio. Per dir la verità non ha avuto molto giudizio.
Bernardino. Non ha avuto giudizio? Eh capperi! Mi
pare che abbia più giudizio di noi. Noi fatichiamo per vi-
vere stentatamente ; ed ei gode, scialacijua, tripudia, sta
allegramente: e vi pare eh' ei non abbia giudizio?
Fulgenzio. Capisco che voi lo dite per ironia, e che nel-
l'animo vostro lo detestate, lo condannate.
Bernardino. Oh ! io non ardisco d' entrare nella con-
dotta dell' illustrissimo signor marchesino Leonardo. Ho
troppo rispetto per lui, per il suo talento, per i suoi belli
abiti gallonati.
Fulgenzio. Caro amico, fatemi la finezza, parliamo un
poco sul serio.
Bernardino. Si, anzi : parliamo pure sul serio.
Fulgenzio. Vostro nipote ò precipitato.
Bernardino. È precipitato? È caduto forse di sterzo?
I cavalli del tiro a sei hanno forse levalo la mano al coc-
chiere ?
Fulgenzio. Voi ridete, e la cosa non è da ridere. Vostro
nipote ha tanti debiti, che non sa da qual parte scansarsi.
Bernardino. Oh ! quando non e' è altro male, non è niente.
I debiti non faranno sospirare lui, faranno sospirare i suoi
creditori.
Fulgenzio. E se non vi è più roba, nò credito, come farìl
egli a vivere ?
Bernardino. Niente : non è niente. Va^Ja un giorno per
234 SECOLO XVIII.
uno da (iiuìlli die Jiarino inaugialo da lui, o non gli man-
cherà da mangiare.
Fulgenzio. Voi continuate sul medesimo tono, e pare che
vi burliate di me.
Bernardino. Caro il signor Fulgenzio, sapete quanta ami-
cizia, quanta stima ho per voi.
Fulgenzio. Quand' è così, ascoltatemi come va, e rispon-
detemi in miglior maniera. Sappiate, che il signor Leonardo
lia una buona occasione per maritarsi.
Bernardino. Me ne consolo, me ne rallegro.
Fulgenzio. Ed è per avere otto mila scudi di dote.
Bernardino. Me ne rallegro, me ne consolo.
Fulgenzio. Ma se non si rimedia alle sue disgrazie non
avrà la figlia, non avrà la dote.
Bernardino. Eh! un uomo come lui! Batte un pie per
terra, e saltano fuori i quattrini da tutte le parti.
Fulgeìizio. (Or ora perdo la sofferenza. Me V ha detto il
signor Leonardo.) Io vi dico che vostro nipote è in rovina.
Bernardino. Si eh? Quando lo dite, sarà così.
Fulgenzio. Ma si potrebbe rimettere facilmente.
Bernardino. Benissimo, si rimetterà.
Fulgenzio. Però ha bisogno di voi.
Bernardino. Oh! questo poi non può essere.
Fulgenzio. E si raccomanda a voi.
Bernardino.^ Oh il signor marchesino! è impossibile!
Fulgenzio. È così, vi dico, si raccomanda alla vostra
bontà, al vostro amore. E se non temessi che lo riceveste
male, ve lo farei venire in persona a far un atto di som-
missione, e a domandarvi perdono.
Bernardino. Perdono? Di che mi vuol domandare per-
dono? Che cosa mi ha egli fatto da domandarmi perdono?
Eh? mi burlate: io non merito queste attenzioni: a me non
si fanno di tali ufficj. Siamo amici, siamo parenti. Il signor
Leonardo? Oh! il signor Leonardo, mi scusi, non ha da far
con me queste cerimonie.
Fulgenzio. Se verrà da voi V accoglierete con buon
amore ?
Bernardino. E perchè non V ho da ricevere con buon
amore ?
Fulgenzio. Se mi permettete, dunque, lo farò venire.
Bernardino. Padrone, quando vuole: padrone.
Fulgenzio. Quand' è così, ora lo chiamo, e lo fo venire.
Bernardino. E dov'è il signor Leonardo?
Fulgenzio. È di là in sala, che aspetta.
Bernardino. In sala, che aspetta?
Fulgenzio. Lo farò venire, se vi contentate.
Bernardino. Sì, padrone ; fatelo venire.
FiUgenzio. (Sentendo lui può essere che si muova. Per
me mi è venuto a noia la parte mia.)
CARLO GOLDONI. 235
[Scena W.— Bernardi) io, Fulgenzio, Leonardo, Pasquale.]
Bernardino. Ah, ah, il buon vecchio se l'ha condotto
con lui. Ha attaccato e<?li la breccia, e poi ha il corpo di
riserva per invigorire l'assalto.
Fulgenzio, Ecco qui il signor Leonardo.
Leonardo. Deh! scusatemi, signor zio....
Bernardino. Oh ! signor nipote, la riverisco; che fa ella?
sta bene? Che la la sua signora sorella? Che fa la mia ca-
rissima nipotina? Si son bene divertiti in campagna? sono
tornati con buona salute? Se la passano bene? Si, via, me
ne rallegro inMnItamente.
Leonardo. Signore, io non merito esser da voi ricevuto
con tanto amore, quanto ne dimostrano le cortesi vostro
parole; onde ho ragione di temere, che con eccessiva bontìi
vogliate mascherare i rimproveri che a me sono dovuti.
Bernardino. Clio dite eh? Che bel talento che ha questo
giovane! Che maniere di diro! che bel discorso!
Fulgenzio. Tronchiamo gli inutili ragionamenti. Sapete
quel che vi ho detto. l']gli ha estremo bisogno della bontà
vostra, e si raccomanda a voi caldamente.
Bernardino. Che possa!... in quel ch'io posso.... se mai
potessi....
Leonardo. Ali! signor zio.... (noi cappello in mano.)
Bernardino. Si copra.
Jjeonardo. Pur troppo la mia mala condotta....
Bernardi/la. Metta il suo cappello in capo.
Leonardo. Mi ha ridotto agli estremi.
Bernardiiin. Favorisca. {Mette il cappello in testa a
Leonardo.)
Leonardo. \\ se voi non mi prestate soccorso....
Bernardino. Che ora abbiamo (
Fulgenzio. Badate a lui, se volete.
Leonardo. Deh! signorile amatissimo.... {Si cava il
cappello.)
Bernardino. Servo umilissimo. {Si cara la berretta.)
Leonardo. Non mi voltate le spalle.
Bernardino, uh ! non larei questa mal opera per tutto
Toro del mondo.
Leonardo. L' unica mia debolezza è stata la troppa ma-
gni tica villeggiatura.
Bernardino. Con licenza. (Si pone la berretta.) Siete stati
in molti quest'anno? Avete avuto divertimento?
Leonardo. Tutte pazzie, signore: lo confesso, lo vedo, e
me ne pento di tutto cuore.
Bcrìiardino. E gli è vero che vi fate sposo?
Leonardo. Cosi dovrebbe essere, e otto mila scudi di dote
potrebbero ristorarmi. Ma se voi non mi liberate da qualche
debito....
230 SECOLO XVIII.
Bernardino. Si, otto mila scudi sono un bel danaro.
Fulgenzio. La sposa è figliuola del signor Filippo Gan-
ganelli.
Bernardino. Buono, lo conosco, ò un galantuomenone ; è
un buon villeggiante ; uomo allegro, di buon umore. Il pa-
rentado è ottimo, me no rallegro infinitamente.
Leonardo. Ma se non rimedio a una parte almeno delle
mie disgrazie,...
Bernardino. Vi prego di salutare il signor Filippo per
pàfte mia.
Leonardo. Se non rimedio, signore, alle mie disgrazie....
Bernardino. E ditegli, che me ne congratulo ancora con
esso lui.
Leonardo. Signore, voi non mi abbadate.
Bernardino. Si signore, sento che siete lo sposo e me
ne consolo.
Leonardo. E non mi volete soccorrere?...
Bernardino. Che cosa ha nome la sposa?
Leonardo. Ed avete cuore di abbandonarmi ?
Bernardino. Oh! che consolazione ch'io ho nel sentire
che il mio signor nipote si fa sposo.
Leonardo. La ringrazio della sua affettata consolazione,
e non dubiti, che non verrò ad incomodarla mai più.
Bernardino. Servitore umilissimo.
Leonardo. (Non ve V ho detto ? Mi sento rodere ; non lo
posso soffrire.) {Parte.)
Bernardino. Riverisco il signor nipote.
Fulgenzio. Schiavo suo.
Bernardino. Buondi, il mio caro signor Fulgenzio.
Fulgenzio. Se sapeva così, non veniva ad incomodarvi.
Bernardino. Siete padroni di giorno, di notte, a tutte
le ore.
Fulgenzio. Siete peggio d' un cane.
Bernardino. Bravo, bravo. Evviva il signor Fulgenzio!
Fulgenzio. (Lo scannerei colle mie proprie mani.) {Parte.)
Bernardino. Pasquale !
Pasquale Signore.
Bernardino. In tavola.
li Chiacchierone maldicente. — (Dalla Bottega del Caffè.)
[ATTO PRIMO — Scena III. — Don Marzio, Ridolfo.']
Ridolfo. (Ecco qui quel che non tace mai, e che sem-
pre vuol aver ragione.)
Don Marzio. Caffè.
Ridolfo. Subito, sarà servita.
Bon Marzio. Che vi è di nuovo, Ridolfo?
Ridolfo. Non saprei, signore.
CARLO GOLDONI. 237
Don Marzio. Non si è veduto ancora nessuno a questa
vostra bottega?
Ridolfo. È per anco buon'ora.
Don Marzio. Buon'ora? Sono sedici ore sonato.
Ridolfo. Oh illustrissimo no, non sono ancora quattordici.
Don Marzio. \\\\ via, bullone!
Ridolfo. Le assicuro io, che le quattordici non son sonate.
Don Marzio. Eh via, asino!
Ridolfo. Ella mi strapazza senza ragione.
Don Marzio. Ho contato in questo punto le ore, e vi
dico, che sono sedici: e poi guardate il mio orologio; que-
sto non fallisce mai.
Ridolfo. Bene, se il suo orologio non lallisce, osservi :
il suo orologio medesimo mostra tredici ore e tre quarti.
Don Marzio. Eh non può essere.
Ridolfo. Che dice ?
Do7i Marzio. 11 mio orologio va male. Sono sedici ore.
Le ho sentite io.
Ridolfo. Dove l'ha comprato quell'orologio?
Doìi Marzio. L' ho fatto v(Miire da Londra.
Ridolfo. L'hanno ingannata.
Don Marzio. Mi hanno ingannato? Perchè?
Ridolfo. Le hanno mandato un orologio cattivo.
Don Marzio. Come cattivo? È uno dei più perfetti, che
abbia fatto il Quarò.
Ridolfo. Se fosse buono, non fallirebbe di due ore.
Don Marzio. Questo va sempre bene, non fallisce mai.
Ridolfo. Ma se fa quattordici ore meno un quarto, e
dice che sono sedici.
Don Marzio. Il mio orologio va bene.
Ridolfo. Dunque saranno or ora quattordici, come dico io.
Don Marzio. Sei un temerario. Il mio orologio va bene,
tu di' male, e, guarda eh' io non ti dia qualche cosa nel capo.
Ridolfo. È servita del cafle. (Oh che bestiaccia I)
Don Marzio. Si è veduto il signor Eugenio?
Ridolfo. Illustrissimo signor no.
Don Marzio, Sarìi in casa a carezzare la moglie. Che
uomo efTeminato ! Sempre moglie ! Sempre moglie ! Non si
lascia più vedere, si fa ridicolo. E un uomo di stucco. Non
sa quel che si faccia. Sempre jnoglie, sempre moglie !
Ridolfo. Altro che moglie ! È stato tutta la notte a giuo-
care qui da messer Pandolfo.
Don Marzio. Se Iodico io. Sempre giuoco! Sempre giuoco !
Ridolfo. (Sempre giuoco ; sempre moglie ; sempre il dia-
volo, che se lo porti.)
Don Marzio. È venuto da me l'altro giorno con tutta
segretezza a pregarmi, che gli prestassi dieci zecchini sopra
un paio d'orecchini di sua moglie.
Ridolfo. Vede bene ; tutti gli uomini sono soggetti ad
avere qualche volta bisogno; ma non hanno piacere poi
238 SECOLO xviir.
clic si sappia, e per questo sarà venuto da lei, sicuro clic
non dirà niente a nessuno.
Don Marzio. Oli io non parlo. Fo volentieri servizio a
tutti, e non me ne vanto. Kccoli qui ; questi sono gli orec-
chini di sua moglie. Gli ho prestato dieci zecchini ; vi pare
che io sia al coperto?
Ridolfo. Io non me ne intendo, ma mi par di sì.
Don Marzio. Avete il vostro garzone?
Ridolfo. Vi sarà.
Don marzio. Chiamatelo. Ehi, Trappola.
[Scena IV. — Trappola e detti.']
Trappola. Eccomi.
Bon Marzio. Vieni qui. Va' dal gioielliere qui vicino, fagli
vedere questi orecchini, che sono della moglie del signor Eu-
genio, e dimandagli da parte mia, se io sono al coperto di
dieci zecchini, che gli ho prestati.
Trappola Sarà servita. Dunque questi orecchini sono
della moglie del signor Eugenio?
Don Marzio. Si, or ora non ha più niente ; è morto di
fame.
Ridolfo. (Meschino, in che mani è capitato !)
Trappola. E al signor Eugenio non importa niente di
far sapere i fatti suoi a tutti ?
Don Marzio. Io sono una persona, alla quale si può con-
fidare un segreto.
Trappola. Ed io sono una persona, alla quale non si può
confidar niente.
Don Marzio. Perchè ?
Trappola. Perchè ho un vizio, che ridico tutto con facilità.
Don Marzio. Male, malissimo ; se farai così, perderai il
credito, e nessuno si fiderà di te.
Trappola. Ma come ella V ha detto a me, così io posso
dirlo ad un altro.
Don Marzio. Va' a vedere, se il barbiere è a tempo per
farmi la barba.
Trappola. La servo. (Per dieci quattrini vuol bevere il
caffè, e vuole un servitore al suo comando.)
Doìi Marzio. Ditemi, Ridolfo: che cosa fa quella balle-
rina qui vicino?
Ridolfo. In verità non so niente.
Don Marzio. Mi è stato detto, che il conte Leandro la
tiene sotto la sua tutela.
Ridolfo. Con grazia, signore, il caffè vuol bollire. (Vo-
glio badare a' fatti miei.)
[Scena V. •— Trappola, Don Marzio."]
Trappola. Il barbiere ha uno sotto; subito che avrà finito
di scorticar quello, servirà vostra signoria illustrissima.
CARLO GOLDONI. 239
Don Marzio, Dimmi : sai niente tu di quella ballerina,
che sta qui vicino?
Trappola. Della signora Lisaura?
Don Marzio. Sì.
Trappola. So, e non so.
Bon Marzio, liaccontanii qualche cosa.
Trappola. Se racconterò i fatti degli altri, perderò il
credito, e nessuno si liderà più di me.
Don Marzio. Oh che Trappola malizioso! Va' via, va' a
far vedere gli orecchini.
Trappola. Al gioielliere lo posso dire, che sono della
moglie del signor Eugenio?
Don Marzio. Si, diglielo pure.
Trappola. (Fra il signor Don Marzio ed io formiamo
una bellissima segreteria.)
Parigi e il Teatro, Lettera a rn. Meslè. — Eccomi, signor
mio, alla vigilia di esporre per la prima volta a questo pub-
blico una mia commedia. Questa è una cosa, che ho di lon-
tano moltissimo desiderato, e che ora da vicino mi fa tre-
mare. Voi siete un buon conoscitore del Teatro, voi lo amate
e lo fre(iuentate, e vi è nota la dillicoltà d' incontrare con un
tal genere di produzioni. A me piucchè agli altri si rende
malagevole un tale impegno e per lo mio scarso talento
e per la situazione, in cui mi ritrovo. Non nego di essere
stato fortunato in Italia e di aver acquistato con poco me-
rito maggior onore di quello mi si doveva ; ma ciò è de-
rivato dalla miseria, in cui languivano i teatri del mio
paese, ed il poco che ho fatto mi lia valuto per molto. Or;i
sono in Parigi, dove il valoroso Molière gettati ha i semi della
vera commedia e dove tanti felici ingegni l'hanno si ben
coltivata ed adorna. Un popolo si illuminato per natura,
per educazione e per genio^ avvezzo alle più brillanti e alle
più regolate i*appresentazioni, non avrà per me V indulgenza
de' miei parziali compatriotti : ed ecco la ragione del mio
timore, che a«iareggia ogni mia contentezza. Ma vano è
ormai ogni mio pensamento. Mi sono lasciato adulare dalla
speranza : ho ceduto al cortese invito. 1/ amor proprio mi
ha consigliato, mi ha qui condotto, sono nel grande impegno
e deggio adempierlo come posso.
Oltre ai disavvantaggi del mio talento, ho quello ancora
(li una lingua straniera. Non so scrivere assolutamente;
francese : ma quando anche il sapessi, io deggio scrivere
per degli attori italiani. Il maggior onore della commedia
italiana è eh' ella stata sia ricevuta in Francia, e tuttavia
si mantenga stipendiata dal maggior monarca del mondo
e ben veduta dalla più colta nazione d' Europa. Considero
non pertanto che le commedie rappresentate in Parigi si-
nora dagli Italiani sono state meramente giocose, e che
240 SECOLO xviir.
r abilità delle maschere ha prodotto di esse il maggior bene
e il miglior e/Tetto. Io sono ammiratore di tali valentissimi
personaggi. Lodo ancor io lo spirito e la franchezza dei
nostri attori, che si distinguono da tutti gli altri del mondo
neir improvviso, e sono persuaso che non si abbia a perdere
intieramente un si bel privilegio della nostra nazione ; ma
io ho fatto l'uso di scrivere le commedie diversamente,
ed ho seguitato, come ho potuto, le tracce dei migliori
maestri. So che pochissimo ho profittato, ma pure non so
staccarmi dal mio sistema. Darò di mal cuore e per com-
piacenza delle commedie a soggetto, se ne vorranno; ma
per la prima, cir io deggio esporre, non ho coraggio di farlo.
Voi, signor mio, che per bontà vostra v'interessate del-
l' onor mio, giustamente mi avete fatto considerare, che
una commedia intieramente scritta in favella italiana non
sarà intesa in Parigi comunemente. Il riflesso è verissimo :
molti intendono T italiano, ma non già tutti, e quei che con-
corrono ad un tale spettacolo hanno ragione di volerlo inten-
dere. So per altro qual sia Y ingegno pronto e vivace dei
Francesi, e so che poco basta per fargli intendere. Se meno
mi fidassi del loro ingegno, o avrei lasciato di scrivere
avrei stampato la mia commedia colla traduzione in fran-
cese ; ma nel primo caso avrei mancato al mio debito e nel
secondo avrei mostrata troppa temerità. Ho scelto la via
di mezzo, ho formato un estratto della commedia, ho reso
conto in esso di ciò che si tratta di scena in scena, ho
pensato dì farlo mettere in vostra lingua e di pubblicarlo,
e son sicuro che il poco che leggeranno, servirà agli uditori
esperti per far loro intendere il dialogo, l' interesse e V in-
treccio. Ho bisogno d' un traduttore, ed ecco, signor mio,
la ragione, per cui vi spedisco gli annessi fogli.
Voi che mi amate, voi che intendete V italiano si bene
come il francese ; voi che compiaciuto vi siete di tradurre
qualche altra opera mia, traducete, vi supplico, anche que-
sta e datele queir aria di semplicità e di chiarezza, eh' io
non avrò saputo adoprare. Le prove di sincera amicizia, che
mi avete date finora, mi assicurano della vostra condiscen-
denza ed io avrò un debito infinito e sarò sempre, quale con
vera stima e rispetto vi assicuro di essere, vostro umil.mo
obb.mo servitore Carlo Goldoni. — Parigi, febbraio 1763. ~
(Dalle Lettere pubbl. da E. Masi, Bologna, Zanichelli, 1880,
pag. 195.) .
GIULIANO CASSIAKI.
Nacque in Modena ai 24 giugno 1712. I^u prima professore di
poesia nel collegio de' Nobili, e dal '75 in poi di eloquenza nel-
r università patria. Visse vita tutta data agli studj, e all'inse-
gnamento, e morì ai 13 marzo 1778. Un suo alunno, il marchese
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI. 241
Girolamo Liicchesini, mise insieme nel 1770 a Lucca un volume
ili Safjf/io (li rime di lui, dove lian maggior valore, come serban
tuttavia maggior rinomanza, alcuni sonetti di genere descrittivo.
Delle suo cose inedite, che sono, in prosa un Elogio del Tassoni,
in verso, un poemetto, un'egloga, un ditirambo, vedi qualche no-
tizia in Fu. CORUIDOUE, G. Cassiani, Cagliari, Valdès, 1897.
[Vedi per la biografia, VFAogio scritto da Luigi Cerretti, nel
voi. II i\cW(t Poesie e prose scelte di quest'autore, Milano, Deste-
lanis, 181-2 e nelle Frose e Lettere del sec. XVIII, Milano, Clas-
sici, 1821), I, 1.]
li Ratto di Proserpina.
Die un alto strido, gittò i fiori, e volta
Air improvvisa mano che la cinse,
Tutta in sé, per la tema onde l'u colta,
La siciliana vergine si strinse.
Il nero Dio la calda bocca involta
D'ispido pelo a ingordo bacio spinse,
E di stigia fuliggin con la folta
Barba l'eburnea gota e il sen le tinse.
Ella, già in braccio al rapitor, puntello
Fea d' una mano al duro orribil mento,
Dell' altra agli occhi paurosi un velo.
Ma giìi il carro la porta; e intanto il cielo
Ferian d'un rumor cupo il rio flagello.
Le ferree ruote e il femminil lamento.
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI.
Figlio ad un medico e botanicOrCapo stipite di una famiglia
che per più generazioni continuò e continua il culto delle scienze
natnrali non disgiunto da quello delle lettere, nacque Giovanni
in Firenze agli 11 settembre 1712. Si laureò a Pisa nel 1734, mo-
strando già la sua inclinazione agli studj della natura, specie
a' botanici, ne' quali si perfezionò in patria, sotto la guida amo-
rosa di Pier Antonio Micheli. Nel 1737 fu eletto professore di co-
testa disciplina, e nel '39 prefetto della biblioteca magliabechiana,
della quale compilò i cataloghi, pubblicando anche 5 voi. di Let-
tere di uomini illustri al primo adunatore di tanti tesori, Antonio
Magliabechi. Fu anche medico di corte, e non mai intermise la
professione dell'arte salutare, come non mai interruppe ogni or-
dine di ricerche nel vasto campo del sapere ; ma i suoi studj,
oltre che all'erudizione, drizzò anche all'utilità pratica, promuo-
vendo l'inoculazione del vaiolo, dando consigli sulla migliore o
mcn costosa alimentazione, dififondendo notizie di buone norme
IV. id
242 SECOLO xviir.
ngricole, insegnando come soccorrere gli asfittici, porgendo con-
sigli intorno al difendersi dallo inondazioni, e al far bonifiche ec.
Lo stile delle sue molte scritture é un po' sciamannato, ma la lin-
gua in generale è schiettamente toscana, specie ne' termini di
scienza. Mori al 1" gennaio 1783,
Le sue opere principali sono le seguenti : Lellera su una nu-
merosissima specie di farfalle vedutasi nel 1741, Firenze, 1741;
Relazione di alcuni viarjyi fatti in diverse parti della Toscana,
Firenze, 1751, voi. VI; ivi, Cambiagi, 17G8-79, voi. XII; Prodromo
della Corografia e della Topografia fisica della Toscana, Firen-
ze, 1754; Ragionamenti sull'agricoltura toscana, Lucca, 1759;
Ragionamento sopra le cause e sopra i rimedj deW insalubrità
della Valdinievole, Firenze, 17G1; Alimurgia, o sia modo di ren-
dere meno gravi le carestie, proposta per sollievo dei x>overi, Fi-
renze, 1767; Disamina di alcuni progetti fatti nel sec. XVI j)er
salvar Firenze dall' inondazioni, Firenze, 1767; Notizie degli ag-
grandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di
anni 60 nel sec. XVII, Firenze, 1780, 3 voi.; Trattato del fiorino
di sigillo della repubblica fiorentina, Firenze, 1752 ec. Postume,
e di recente, furono pubblicate queste altre due opere: Notizie
sulla storia delle scienze fisiche in Toscana, per cura di Fr. PA-
LERMO, Firenze, Galileiana, 1852 (vedi su quest'opera M. Tabar-
RlNI in Arch. stor. ital., 1885, Append. voi. IX, 577); Notizie della
vita e delle opere di P. A. Micheli botanico fiorentino, per cura
di Adolfo Targioni-Tozzetti, Firenze, Le Mounier, 1858.
[Per la biografìa, vedi il suo Elogio pronunziato da Marco La-
STRI n^W Accademia dei Georgofili e contenuto nel II voi. degli
Atti della medesima. Alcuni cenni autobiografici, che arrivano fin
verso il 1742, trovansi inclusi nella prefazione del Palermo alla
citata stampa delle Notizie ec]
Lavori e strumenti campestri. — Supposto un campo già
scassato^ e purgato, e che si voglia preparare per una se-
menta, bisogna riflettere che nel nostro clima ogni superficie
di terreno esposta alle ingiurie dell' aria soffre nel corso di
pochi mesi delle alterazioni considerabili. Le acque piovane
lo inzuppano e scompaginano ; i diacci lo scompaginano in
altro senso e più potentemente ; i dolchi lo dimojano ; -
massimamente poi le acque piovane col loro urto, e col pe-
netrare nell'interno, portano via o mandano verso il fondo
le parti più sottili e lasciano scoperti i sassi ; finalmente
il calore del sole, i venti asciutti, il calpestio, ed anche la
* Lavorato profondamente, nettandolo colle mine o col piccone e la
vanga, da sassi e radiche,
2 La temperatura dolca, cioè la stagione invernale temperata e ten-
dente al caldo, lo ammollisce.
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI. 243
insita forza della gravita, lo induriscono, e rendono più te-
nace e dillicile ad essere penetrato dalle barboline delle
piante. Se adun(iue si vuol riseminare, bisof,nia farlo ritor-
nare sciolto, e penetrabile dalle barboline col romperlo e
stritolarlo e rivoltarlo sossopra o col vomere o colki vanga
o colla zappa, che sono tante dilferenti fazioni * di cuneo.
Il vomere, specie di cuneo di ferro regolato dall' aratolo,'
nei luoghi dove si può usare, è il più ellìcace jnezzo per
rompere i terreni, ma varia di grandezza e di forma se-
condo la natura dei terreni, e secondo i paesi ; e varia al-
tresì neir esser mosso per la forza di manzi o di bufali o
di cavalli o muli. Altri vomeri sono piani per i terreni do-
cili, e si chiamano rnnghefjgie o vangìteggiole ; altri con
gli orecchi^ per i terreni grossi e sassosi, e si chiamano
bomber i, pesanti circa 18 o 20 libbre. P] gli aratoli simil-
mente variano molto di forma e di grandezza ; anzi nel
mantovano si usa ancora Taratolo colle rote, descritto da
N'irgilio, simile all'aratro bresciano, figurato da Agostino
dallo a carte 'i5U delle sue Tredici giornate della vera agri-
coltura. Usano alcuni lodevolmente in terreni non sassosi,
ma tenaci, un grosso ferro in forma di cultello fitto nella
stiva* dell'aratolo, il quale taglia la terra ed i bai'biconi,^ ed
in certa maniera prepara la strada al vomei'e, che ha un
solo orecchio e manda la terra tutta da una parte. Un tal
ferro si chiama coltro, e se ne può veder la figura a carte 300
AeW Agricoltura del Gallo.
Nei terreni docili, con poca fatica dei manzi e del bifolco
s'introduce il vomere nella terra alla profonditù, di mezzo
braccio ; ma dove la terra è più dura, bisogna che il vomere
e l'aratolo sieno più pesanti, e che il bifolco aggravi molto
la mano ed i piedi ancora suU' aratolo, per ficcare a quella
profondità il vomere.
Siccome adunque T effetto dell'arare non è altro che rom-
pere il terreno e renderla disgregato e permeabile, così
bisogna arare nei tempi nei quali si può conseguire questo
intento. Perciò si avverta di non arare in tempo di pioggia,
o quando il terreno è inzuppato d'umido, ne quando dopo
lunga siccitiX è caduto un poco di pioggia, la quale ha so-
lamente bagnato e feltrato nella buccia, ma non inzuppato
il terreno, perchè in vece di rompersi, piuttosto, colla pres-
sione dell' aratolo e col calpestio de' manzi, si calcherà ed
assoderai maggiormente, anzi vi si formeranno certi grandi
zolloni, e mozzi* tanto duri, che non si disfaranno mai più
' Forme. - Aralro.
' La parte dell' aratro che è destinata a rovesciar le zolle, detta per-
iMChe ruve9CÌatoio.
^ Stiva è il manico dell'aratro, detto anche i^tegola.
' Le barbe grosse delle erbe.
•' Zolle grosse, pani di terra.
244 .SECOLO XVIII.
in tutto Tanno. Di mezzana consistenza adunque sia la terra
quando si ara, cioè non manchi e non abbondi di umido il
terreno, clie rotto nei seccori, si costeggi' nei lembi sodi
dopo le piogge.
Il terreno grasso, e che rattiene molto Tumido, va arato
nella stagione calda, quando i semi dell'erbe salvatiche, ciie
T impestano, sono maturati, e va arato con solghi * tanto fitti,
che appena so ne distinguano gT intervalli ; alfinchè le ra-
dici delle piante sieno recise e sdegnate ;' e questa diligenza
va usata anche nei terreni lasciati a stoppia.
Non solamente nelle stoppie,* ma in qualunque terreno
da rompersi, quanto più fìtti sono i solghi, tanto meglio si
conseguisce l'intento.
Per conoscer poi se un terreno è stato bene arato, pro-
pone Columella di ficcarvi dentro in varj luoghi un palo,
che se ugualmente penetra per tutto il suolo, significa che
tutto è stato smosso col vomere.
Se si deva arare in costa, è buona regola, per risparmiare
il defatigamento dei manzi e perchè le acque facciano meno
scrosci, rompere la terra per il traverso, riserbandosi poi
ad arare per lo lungo in tempo di semente.
La migliore stagione per rompere le terre è la prima-
vera, perchè nelT estate la terra è troppo dura ed intrat-
tabile, e nelT inverno è troppo fangosa : nella primavera
poi, cum zepyro putris se gleba resolvit, essendo incotta
dai freddi, è agevole a spezzarsi, e riesce meglio di sde-
gnare e sotterrare l'erbacce, che vengono a fare la figura
di sovescio.^ I terreni sabbiosi, galestrini, cecerelli^ e deboli
possono rompersi anche d'inverno: i deboli, e che abbon-
dano d' umido, si rompano alla fine di agosto, e si riarino
o costeggino di settembre per seminarli verso T equinozio
autunnale : le piagge magre e sottili si rompano verso il
principio di settembre ; ed i terreni frigidi e acquidosi si
rompano a mezzo aprile, si costeggino poco avanti alla sega,
e per la terza volta al principio di settembre, avvertendo
che nel costeggiare, o iterare, come dicevano gli antichi,
e nel terziare e quartare se sia bisogno, il vomere si conduca
per gli spazj lasciati sodi, chiamati anticamente scamna, in
oggi lembi, o per il traverso a guisa di rate,^ affinchè si rompa
* Costeggiare vale far passare l'aratro sopra i lati [conte o cigli) delle
porche, per smuover la terra rimasta soda nella prima aratura: dicesi
anche Arare in costa, ilieigliare, incigliare, rimporcare.
2 Solchi. 3 Fatte intristire, danneggiate.
* Nei terreni che han riposato un anno dopo la mèsse e si dice che
si lasciano riposare a stoppia.
^ Sovescio, piantagione di trifoglio, lupini ec, che dopo la fioritura si
sotterrano per ingrassamento del terreno.
^ Terreni galestrini, dove abbondano frantumi di galestro, cioè di pie-
truzze stritolate e discioUe : cecerelU, ove abbondano le pietruzze giallo-
gnole simili a ceci. '' Una parte dopo l'altra, e separatamente.
É
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI. 245
più terreno che sia possibile. Neil' estato in luoghi caldi e
secchi è nneglio rompere le terre la sera al tardi, ed anche
di notte, affinchè patiscano meno i manzi, e l'umidità dello
guazze * meglio penetri nella terra.
Rotte che sieno le terre con una o più arature, secondo
il bisogno, vi sono altri artifizi per spezzare lo zoUe più
grosse e dure, che sono restate ritto, particolarmente nei ter-
reni di pianura bellettosi- o cretosi, dove sono pochi o punti
sassi, e dove ordinariamente si consolidano le zolle in forma
di lastrucce. Verjnce è l'istrumento adattato a questo bi-
sogno, tirato dai manzi, fatto di legno a similitudine d'un
carro da treggia,^ ma con vario disegno, secondo gli usi
de' paesi, col timone per regolarsi dal bifolco, e con qualche
pietrone posatovi sopra per renderlo più pesante. L'effetto
dell'erpice tirato in giù ed in su per il campo, è di fran-
gere e stritolare col suo peso le lastrucce e zolle ritte o
risecche di terra.
Altri istrumenti vi sono equivalenti all'ei-piee, secondo
i paesi, come quelli figurati da Agostino (iallo a carte 361
e 362, ma gli effetti corrispondono a quello dell'erpice.
Queste pratiche di agricoltura si sono perpetuate in noi
lino dagli antichi tempi, nei quali si facevano forse con mi-
gliori regole che oggigiorno; mentre leggiamo presso gli
antichi maestri di quest'arte, che i terreni più litti, come
sono perlopiù in Italia, si seminavano meglio dopo la quinta
aratura, e in alcuni tratti della Toscana, dopo la nona.
Arare semplicemente o proscindere terram, chiamavano i
Romani l'arare la prima volta, e rompere il terreno, la-
sciando zolle grosse ; e ofj'ringere agnini, o iterare o ite-
rum arare, quando tornavano ad ararlo la seconda volta,
siccome tortiarc l'ararlo la terza volta, e perciò spesso si
leggo in Columella Ayer itcratns, et tertiatus. Occare e
cratire era presso a poco il nostro erpicare, perchè Vocca,
al dire di Garrone, era uno strumento simile ad un orate,
cioè gratella o graticcio, per spezzare le zolle e ricoprire
i semi.
Replichiamo non inutilmente, che il fine dei lavori da
farsi per una qualche sementa, è di sciogliere e disgregare
il terreno, e ridurlo capace di permettere il libero passag-
gio alle barboline delle piante, che vi si vogliono seminare.
Quindi ne segue che un campo stato seminato l'anno ante-
cedente ha bisogno di meno lavori ed artifizj, che le stoppie
state in riposo un anno o dieci mesi, e dove per conse-
guenza il terreno ha avuto più tempo e più occasioni di
consolidarsi, e quasi dissi impietrire
La vanga, è una specie di cuneo o vomere, mosso da un
solo uomo col mezzo di un manico, in fondo al quale è
* Rugiade. - Meìmoai.
' Cario senza ruoto per trasporti, usato nelle campagne toscane.
246 SECOLO XVIII.
fermato; si adopra nei terreni non sassosi, ed ha questi
vantaggi sopra il vomere ; primo, clie la sua forza di cuneo
agisce perpendicolarmente, e ad ogni puntata tira su e
rivolta una gran fetta di terra; secondo, che si può con
essa penetrare più a fondo che col vomere ; terzo, che si
può adoperare nei luoghi, dove non si può comodamente
maneggiare Taratolo, ed in vicinanza delle piante arboree.
La pala di ferro è una specie di vanga, ma non è usa-
bile sennonclìè con stento e fatica in certi pochi lavori di
minor conseguenza, come spalare, rivotar fosse, acquai, ec,
e perciò la passerò sotto silenzio.
La zappa per i terreni non sassosi, e la marra ed il
marrone per i sassosi, sono anche loro specie di vomeri o
cunei fermati in cima di un manico, e mossi dalla sola forza
di un uomo. Riescono più utili del vomere e della vanga;
primo, perchè si può dar loro maggior forza di urto col-
Talzarli e spingerli con impeto nel terreno; secondo, perchè
con essi si stritola e sminuzzola meglio la terra ; terzo,
perchè si può lavorare con essi più a fondo, più veloce-
mente ed in più luoghi che col vomere e colla vanga, e
specialmente nei poggi sassosi ; quarto, finalmente, perchè
soli possono spezzare e sminuzzolare le masse di terra state
solamente smosse e sollevate dal vomere e dalla vanga.
Queste poche differenze di cuneo variano di grandezza
e di figura, secondo i paesi ed i terreni, ma sempre final-
mente sono cunei, e sono il principale- ed essenzialissimo
armamentario rurale, che gli antichi chiamavano instrumen-
tum, rusticum. Con questi cunei non solamente si fanno i
lavori per il terreno da sementa, ma si scassa il terreno,
si sbroncona, si sfittona,* si fanno i divelti,- le fosse, e le
formelle^ per la coltivazione delle piante perenni, tanto ar-
boree che no.
Ma tutte queste faccende, che tengono occupati conti-
nuamente i poveri contadini, non sono dirette ad altro fine,
sennonché a combattere la naturale tendenza della terra
air induramento, e forzarla a suo marcio dispetto a stare
sciolta, soffice e solla, in modo da permettere che le piante
domestiche possano insinuare per ogni verso ne" di lei in-
terstizj le loro tenere assorbenti barboline. — (Dai Ragio-
namenti sull'Agricoltura^ cap. V.)
Novità del costume introdotte nel secolo XVII. — Certi cam-
biamenti d'usanze nella maniera di vivere, e specialmente
nel nutrirsi, principiarono fino da questi tempi ad alterare
in bene o in male le costituzioni dei corpi toscani
Circa air anno 1660, si cominciò in Firenze da qualche-
* Si purga il terreno dai bronconi e dai fittoni o radiclie.
2 Gli scassi.
2 Buche per piantarvi alberi.
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI. 247
(Inno ad usare la parrucca, e de' primi furono I.uì|tì Medici
e <;io. Francesco Rigogoli. Nel HiTl, come nota Tommaso
Rinuccini, «quasi ogni giovane cominciò a portare la par-
rucca linda, senza aver riguardo al colore del suo proprio
capello, radendosi tutti i mostacci. »
Fino a questi tempi i divertimenti della nobilti\ e dello
persone comode, erano assai più utili per render robusto
e mantener sano il corpo, di quel che lo sieno i praticati
modernamente. Tali erano lo villeggiature di primavera e
d'autunno, la caccia e la pesca d'ogni sorte, i giuochi di
pallone, pillotta, palla al maglio, pallottole, ruzzola, ec,
la scherma, il ballo, la cavallerizza ec. Soprattutto poi, non
vi essendo ancora carrozze né calessi, il passeggiare ed il
viaggiare non si potevano fare sennonché a piedi o a ca-
vallo ; il che riusciva molto salubre. Nella Cronica mano-
scritta del Lapini si legge che « nel 1534 si cominciò da
(lualcheduno in Firenze ad usare i cocchi : il primo lo fe-
cero venire di fuori le marchesane di Massa, che abitavano
nel palazzo de' Pazzi, colle quali molto praticava il Berni. »
I cocchi gli trovo usati in Firenze avanti al 1571. Le car-
rozze in Roma le vedo praticate avanti al 1G51, e le trovo
nel 1663 nominate nella Scorneide del conte (ìiulio di Mon-
tevecchio, e si vedono rappresentate scoperte in una stampa
in rame, esprimente le macchine inventate dal cav. Dome-
nico Fontana per alzare nel 15SG la guglia della piazza di
S. Pietro in Vaticano, ed in quelle di varie feste e masche-
rate fattesi in Firenze, disegnate dal Callotti e da Stefanino
della Rella. Relativamente a Firenze, notò nel 1665 il so-
praccitato cav. Tommaso Rinuccini : « Verso la fine del-
l' antepassato secolo s' era cominciato ad introdurre 1' uso
delle carrozze, e nel principio del passato non era ancora
diventato comune, e molti della nobiltiY non la tenevano ;
ma a poco a poco, con l' occasione di far parentadi o altro,
ognuno la messe su, e moUi tenevano (juattro cavalli, ed i
più ricchi anco sei. Da principio le carrozze erano piccole,
di cuoio dentro e fuori, e parte su la sala delle ruote, che
andavano assai scomode, poi si incominciò a fabbricarle
su le cigno, perchè andassero meglio ; e finalmente furono
attaccate dette cigno agli archi d'acciaio ben temperati, che,
cedendo all' urto, vanno assai più comodi : si fecero per i
più ricchi di velluto nero, ed anco di colore, e con frange
di fuori e di dentro, e con il cielo di dentro dorato. Fino
a mezzo il secolo usarono alcuni più ricchi per le solen-
nità della città il cocchio, che era dentro di velluto, per lo
più resino, e di fuori di panno paonazzo, con otto pomi
alla testata dorati ; ma poi furono intieramente dismessi.
Nel 1672 s' introdusse una foggia di carrozze venuta da Pa-
rigi, retta da lunghi cignoni, che brandiscono ' assai, chia-
Piegano, molleggiano.
248 SECOLO XVIII.
mate poUirmcinCt perchè andavano comodissime ; e si di-
smesse gii ardii por il l'iscliio di rompersi. Quasi in tutte
lo case nobili si teneva un cavallo, di fjuelli chiamati fliinea,
o un muletto, i quali servivano per chi non poteva o non
voleva andare a piedi, e si adoperava per la città, con gual-
drappa d'ermisino ed anco di velluto, o di panno listrato*
di velluto, ed in campagna con sella di corame. Ma con
il moltiplicare delle carrozze, furono del tutto dismessi ; e
solamente qualcuno per diletto tiene un cavallo nobile per
passeggiare per la città ; e dipoi le selle s' adopravano di
velluto di tutti i colori. Allora le donne andavano a ca-
vallo ed i ragazzi sopra un mulo in due ceste; ma in oggi
vanno in carrozza, dove la strada è buona, se non in let-
tiga a vettura, che verso la fine del secolo ve ne erano
moltissime a nolo, quando al principio del secolo non ce
n'era se non una, che solamente serviva per ricondurre
qualche ammalato di villa in città. Qualcuno de' più ricchi
teneva da sé la lettiga per servirsene in campagna. Verso
la metà del secolo, s'introdusse una comodità venuta da
Parigi, portata dinanzi sulla groppa da un cavallo, e di
dietro su due rote. A questa tal sedia fu dato il nome di
calesse, e furono così presto moltiplicati, che nell'anno 1667
si disse esserne nella città intorno a mille, e le lettighe
furono in gran numero scemate. » Peraltro la corte di To-
scana aveva le sue lettighe fino avanti all'anno 1630, poi-
ché il Granduca fece la grazia al Galileo di accordargli una
sua lettiga, per fare il viaggio di Roma
Generalmente, nel regno appunto di Ferdinando II, la
tranquillità e l'opulenza principiarono a discacciare l'antica
frugalità, ed introdurre in sua vece il lusso e lo stravizio.
Troppo difi[ìcile impresa sarebbe l'esaminare ad una per
una le diverse mode di vivande, che o prima o poi si re-
sero familiari ; e solamente gioverà il riflettere, che a poco
a poco aviamo adottato quasi tutte le maniere di nutrirsi,
usate in qualunque clima, senza che si sia potuto far can-
giare natura al nostro solito clima : donde ne segue che
s.e una vivanda o bevanda riesce salubre nei climi molto
freddi o molto caldi, non é sicuro che riesca ugualmente
salubre anche nel nostro.
Tralasciando adunque la minuta considerazione delle
mutate vivande, mi ristringerò a due qualità di bevande
calde forestiere, che nei tempi di Ferdinando II si princi-
piarono ad usare in Firenze, ed in oggi sono ridotte fami-
liarissime, non solamente per i benestanti, ma fino alla
bassa plebe, sì urbana che rustica. Sono esse il caffé e la
cioccolata, equivalenti e succedanei del vino, l' uno per gli
Arabi, l'altra per gli Americani; ma forse non ugualmente
utili per noi, che siamo soliti bevere promiscuamente il vino.
* A liste di velluto.
GIOVANNI TARGIONI-TOZZETTI. 249
Il ca/Jc, o cauhà, o cafì. bevanda usata dagli Arabi
prima che da ogni altro, e di poi adottata dai Turchi, es-
sendo ^'ustata con piacere da' cristiani europei che viag-
giavano per il levante, trovò presto chi la lodò in Europa,
e la propose per bevanda medicamentosa, ed in seguito vi
fu accettata per delizia, e per ristorativo gustosissimo. La
prima notizia ce la diede Prospero Alpino al principio del
secolo passato ; ma espressamente ne discorse Fausto Nai-
rone Hanesio maronita nel suo libretto intitolato: Discxrsus
de sahiherrima potione cavhe, sive caffè, Roma', 1G71, in-i2,
stato quasi subito volgarizzato e ristampato da Paolo Bosca
e da F. Federigo Vegilin ; e contemporaneamente fu pub-
blicato altro libretto col titolo : Yirtù del kafè, bevatida
introdotta nuovamente neW Italia, con alcune osservazioni
per conservar la sanità nella vecchiaia, descritta da Do-
menico Magri maltese, edizione seconda, con aggiunta ec,
Roma, 1671, in-4. In Firenze la prima bottega dove si ven-
desse calle, fu quella detta del liiirma, come ricavo da una
cicalala di (jiulio Renedetto Lorenzini.
Della cioccolata poi il primo che ne portasse in Firenze
la notizia, fu il nostro Francesco Carletti nel 1606, al suo
ritorno dal giro del mondo. Generalmente poi ne informò
tutta l'Europa Antonio Colmenero, col suo Tratado de la na-
luraleza y calidad del chocolate, stampato in Madrid, 1631,
che fu tradotto in francese dal dott. Donato Moreau, e stam-
pato in Parigi nel 1643, in-4 ; dipoi tradotto in latino in
Napoli dal celebre Marco Aurelio Severino, e stampato in
Norimberga nel 1614, in-4; finalmente volgarizzato e stam-
pato in Roma nel 1667, in-l2.... Relativamente poi a Fi-
renze, così ne fece ricordo il cav. Tommaso Rinuccini : « si
è introdotto in Firenze quest'anno 1668 comunemente una
bevanda all'uso di Spagna, che si chiama cioccolata, et anco
di questa vende uno de' sopradetti bottegai, in bicchieretti
di terra, e par che gusti cosi calda come fredda. » Ho in-
teso dire più volte, che la prima cioccolata si faceva nella
spezieria reale di Roboli, e per lo più si regalava dai prin-
cipi come cosa prelibata, e si costumava di darle odori d' am-
bra, di gaggia, di gelsomini, catalogni ec, secondo il gusto,
come dice anche il Redi. Principiò poi a farla con gran
mistero, e venderla fino a lire sette la libbra, uno speziale
da San Sisto, il che gli produsse un gran guadagno; ed io
mi ricordo d'averne avuta in casa, regalata a mio padre,
di quella con odore di gelsomini catalogni dato allo zucchero.
Il medesimo cav. Rinuccini ci fa sapere : « Cominciò
nel principio del secolo (o pure si rinnovò) la delizia del
bere fresco ; ma si procurava di ottenerla da i pozzi col
calarvi le bocce del vino qualche ora innanzi al pasto, et
il pozzo di qualche casa, che aveva concetto di fresco,
serviva spesso anche per i vicini, che vi mandavano le
loro bocce, che per lo più erano di terra. Si cominciò a
250 SECOLO XVIII.
riporre V inverno il diaccio per valersene l' estate a rin-
frescare il vino, l'acqua, le frutte et altro, et ha preso
tanto piede (questa delizia, che molti l'usano continuamente
anco rinverno; et è degno da notarsi l'augumento che ha
fatto, perchè Tanno 1000 Antonio Paolsanti, aiutante di
camera del Serenissimo Granduca, prese l'appalto del diac-
cio per lire 400 l'anno (che poi Io comprò da lui Madama
Serenissima, e lo donò et applicò ai mantenimento delle
monache Convertite), e quest'anno 1665 è appaltato per
lire 4300. E per dire qualche cosa ancora di fuora, in Fisa
non si trovò l'anno 1605 chi volesse l'appalto per scudi 50,
e oggi è sopra scudi 1950, ma è però vero che l'appalta-
tore serve ancora Livorno. Quando l'inverno non diaccia,
sono obbligati gli appaltatori cosi di Firenze, come d'al-
trove, di far venire la neve dalle montagne, e però pro-
curano di riporvela a suo tempo nelle buche fatte a posta
per conservarla all' estate. Usano le persone ricche e de-
liziose di far fare per bere fra giorno acque conce di varie
sorte, con odori di cedrato, di limoni, di gelsomini, di can-
nella et altro, raddolcite con zucchero, e ne' luoghi più
frequentati della città ci sono botteghe dove si vendono in
caraffine diacciate, che riesce all' universale una gran co-
modità. »
Due altre mode forestiere furono contemporaneamente
introdotte per piacere dell'odorato e del gustato, cioè gli
odori di essenze, di acque e di profumi, penetrantissimi,
e che in oggi ci riescono incomodi o nocivi ai nervi. Tali
erano lo zibetto, il muschio, l' ambra, l' ambracane, e si-
mili altre sostanze esotiche, ed i fiori di diverse piante ;
ed a questi si aggiungono tante varietà di buccheri, che
davano un certo odore all' acqua, la raccolta de' quali era
dispendiosissima. Di questi odori e buccheri^ ne parlano
abbastanza tutte le raccolte di lettere del conte Lorenzo
Magalotti, il quale ne era appassionatissimo ammiratore.
La corte di Spagna, che in quei tempi dava il tuono alle
mode, aveva sparso questo gusto per l' Europa : nel qual
proposito leggesi nel Biario della Corte di Toscana, te-
nuto da Cesare Tinghi, che nel luglio 1622, il conte di Mon-
terey, venuto a Firenze ambasciatore del re di Spagna, per
condoglienza della morte del granduca Cosimo II, ricevè
regali di grandissimo pregio ; « ma fu S. A. S. regalato dal
detto ambasciatore, per mano del suo coppiere, di due cas-
sette con coperte di pelle d' ambra, che dentro vi era 24 ta-
sche di pelle d'ambra da donne, e due dozzine di paia di
guanti d'ambra, et una pelle d'ambra per ciascuna cassetta.
Due cassette di ferro o acciaio, commesse d'oro all'anzia-
* Buccheri erano terre odorose, per lo più venute d' America, delle
quali facevausi varj oggetti, o si adoperavano in polvere, e diedero argo-
mento al poeina di Lorenzo Bellini, La buechereidc. '
ì
ANTONIO GENOVESI. 251
mina, dentrovi moscardini ambrati, e pasticche di profumi
d'ambra. E cosi la Serenissima Arciduchessa, Madama Se-
renissima, il cardinal de' Medici ed il pi'incipe don Lorenzo,
furono re^'alati di cose simili presso a poco, di Spagna. »
Un simile regalo ogj,n<^iorno rovinerebbe la salute di chi lo
ricevesse. Fino ai tempi della mia adolescenza si mante-
neva in Firenze la moda degli odori d'ambra, di muschio
e di zibetto, nei guanti, ventagli, abiti, cioccolata, tabacco,
casciù, polvere di cipri, ed in certi medicamenti; anzi de-
gli armadj, cassettoni e stipi, usati in quei tempi, è cosa
dillìeile il trovarne uno, che non conservi qualcheduno di
essi odori. Eppure, intendala chi può, in oggi non si pos-
sono più solYrire tali acuti odori e ci fanno gran male ! Io
stesso da ragazzetto provava piacere, in sentendo quelli
che usava in copia la sig. Cecilia mia madre ; ma da molti
anni in qua gli trovo disgustosi, e che mi fanno entrare il
dolor di capo.
Fralle nuove usanze introdotte in Toscana, che interes-
sano la sanità, deve giustamente annoverarsi quella del
tabacco, sì in fumo che in polvere tirata su per il naso.
Il sig. Lassels dice : « Nous arrivames de minuit a Poggi-
bonsi petite ville, qui est nomméo par le tabac en poudro
(jui s'y fait, et dont les italiens, et les espagnols consu-
ment plus que nous, sans se servir de fuzil, ni de chan-
delle, ni d'autres pipes, que de leur nez. » Il tabacco fu
da primo usato come medicamento cefalico, e lo tenevano
gli speziali, acconcio con diversi odori penetrantissimi; e
dipoi è diventato un capo importantissimo di regalia. — (Dallo
Notizie degli aggranclimenti delle scienze ec, voi. Ili,
pag. 118.)
ANTONIO GENOVESI.
Il 1" novembre 1712 nacque in Castiglione (prov. di Salerno).
Contrariato dal padre in un amore giovanile per una contadina,
scomunicato dal vescovo di Conza, perchè, mentre studiava scienze
sacre per assoluto volere paterno, aveva preso parte alla recita
d'una commedia, nel 1786 dovette piegare il capo al destino e ve-
stirsi prete. Diventò professore di eloquenza nel patrio semina-
rio; ma desideroso di sapere, uscì dal piccolo nido natio, e si
recò a Napoli, ove studiò anche le leggi, senza però volerle eserci-
tare come professione. Nel 1741 da mons. Celestino (ialiani, gran
maestro dcH'Univcrsità, che prese a proteggerlo, ottenne una le-
zione straordinaria di metaiìsica. Accusato di troppa libertà di pen-
siero, non potò conseguire la cattedra di teologia, ma ebbe quella
di morale: e delle inimicizie di prelati e frati, indotti e fanatici, si
consolò colla stima che di lui aveva papa Benedetto XIV, al quale
dedicò la seconda parte de' suoi Elemevla inctapft>/sic(e (1747). Più
252 SECOLO XVJII.
tardi, ai perseveranti avversar) rispose con certe Lettere ad un
amico provinciale {\lh\)),c\\(i iw'ìd^li^'.xua (\\x(i\\ii celebri del Pascal.
Quando Bartolomeo Intieri, fiorentino stanziato in Napoli, ov'era
amministratore de' beni de' Medici e de' Corsini, deliberò di fon-
dare, prima d'ogni altra in Europa, una cattedra di economia po-
litica, volle che ne fosse titolare il Genovesi, con annuo stipendio
di 300 ducati; che inoltre le lezioni fossero, a pubblico vantaggio,
in lingua italiana, e che la cattedra non potesse mai esser occu-
pata da frati. Il corso cominciò ai 15 novembre 1754, e co.si di
esso c'informa una lettera del Genovesi stesso: «Feci il mio di-
scorso preliminare.... con uno straordinario concorso, tuttoché io
non avessi fatto invito. Parlai un'ora, non solo senza niente aver
mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che
dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto con applauso.... Il giorno
seguente cominciai a dettare. Grande fu la meraviglia in sentir
dettare italiano, finché, essendomene accorto nello incominciare
la spiegazione, dovetti incominciare da'pregj della lingua italiana,
e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d'Italia. La mia scuola
è stata sempre piena in guisa, che molti non hanno in essa tro-
vato luogo: ma la maggior parte sono uditori di barba, e di varj
ceti. Gii scriventi sono circa cento. I giovani non ancora inten-
dono queste materie, e dove non si sente citar Giustiniano e Ga-
leno non troppo sentono del gusto. Ma si vuole andar avanti con
coraggio: si ha da rompere questo ghiaccio. Gran moto è nato da
queste lezioni nella cittcà, e tutti i ceti domandano de' libri di
Economia, di Commercio, di Arti, di Agricoltura; e questo è buon
princìpio » {Lett. familiari, II, 199). Si narra che alle lezioni del
Genovesi intervenisse una volta anche il padre, e ch'egli, aven-
dolo scorto nella folla, per reverenza a lui si alzò e si tenne in
piedi tino alla fine. Frutto di quest'insegnamento sono le Xe^ioni
di Comraercio ossia d' Economia civile, eh' ei pubblicò nel 1765.
Cacciati i Gesuiti nel 1767, ebbe dal Galiani l'incarico di proporre
un disegno per l' educazione della gioventù (stampato a Venezia
nel 1794, col titolo Piano delle scuole), ed in esso propose di so-
stituire l'insegnamento della scolastica con quelli di matematica,
fisica e storia, e di fare un corso di morale sugli Uffìcj di Cice-
rone. Dopo aver molto faticato come insegnante e come scrittore,
mori d'idropisìa il 22 settembre 1769.
Fu nelle discipline filosofiche e politiche novatore ardito, pur
restando entro i confini della religione, che professò piamente ma
senza bacchettoneria. In ogni ricerca scientifica egli procede appog-
giandosi all'esperienza e al buon senso e tendendo a un fine di pra-
tica utilità. « Io sono ormai vecchio (scriveva ad un amico), né spero
pretendo nulla più dalla terra. Il mìo fine sarebbe di vedere se
potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati, che non gli
ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù,
la quale sola può essere la vera madre d'ogni bene. » Con altri
ANTONIO GENOVESI. 253
illustri contemporanei suoi ricondusse l'intelletto italiano sulle vie
del sapere e lo fece partecipe della fjeiu'ralc cultura europea,
contribuendo ai progredimenti scientitìci, sia coli' esporre nuovi
e «invidiosi veri,» sia col combattere audacemente ogni sorta di
sofismi e di pregiudizj, dominanti tuttavia in Italia, specie nelle
scuole. «Genovesi (scrive il reccliio, Storia dell' Econovi. pub-
blica in Italia, Lugano, Ruggia, 1832, p. 193), fu il redentore delle
menti italiane.... Non fu un genio.... ma degli scrittori italiani è
forse il più benemerito »; e Fr. Ferrara riconosce e loda « la va-
stità de' suoi studj, la forza del ragionamento, l'indipendenza del
carattere e l'amore sincero al suo paese, che per lui era l'Italia;
l'Italia, di cui ricordava sempre le due grandi epoche già passate,
e ne agognava una terza nell'avvenire. Senz'essere un intelletto
creatore, fu una mente esatta di sua natura e copiosamente erudita
di buoni studj. (Prefaz. al voi. Ili della lìibliot. dell'Economista).
Molto lavorò per la gioventù, come ne fan fede le htituzioni di
metafìsica jjei principianti (1700), il Trattato delle scienze metafi-
siche pei giovanetti (1770), gli Elementi di fisica sperimentale ad
uso dei giovani princijiianti (1781) e soprattutto qu(^lla Logica pei
giovanetti (17GG), che, colle Vedute fondamentali aggiuntevi dal
lìomagnosi, durò nelle scuole fin quasi ai di nostri, e che certo non
insegnava a sragionare. Mirò sempre al bene de'suoi concittadini,
alla felicità loro, a promuovere utili studj, a consigliare il lavoro
e a raccomandare insistentemente l'agricoltura, madre di ricchezza
privata e pubblica ; e a tal fine, mettendo in mostra lo stato di de-
cadenza di sì nobil arte nel Napoletano e i nìiglioramenti che la
teorica e la pratica suggerivano, ristampò con prefazione il Corso
di agricoltura del Trinci toscano. A fine più alto mirano le Medita-
zioni filosofiche sulla religione e sulla morale (.Napoli, Simoni, 1758),
lodatissime al loro apparire anche dal Baretti (Frusta, n. 2), che
però ebbe a riprendervi lo stile e la lingua pedantescamente tosca-
neggiante. Nò certo la forma è la cosa più notevole in questa come
in altre scritture del Nostro; ma vi si scorge somma acutezza di
niente, nobiltà d'animo e bontà d'indole: e specialmente negli
scritti dedicati alla gioventù v'ha certa bonarietà paterna, che
fa amare la scienza e chi la insegna.
Tralasciando di menzionare le sue opere latine, ricorderemo
ancora le Lettere accademiche sulla questione se sien più felici
gl'ignoranti o gli scienziati (Napoli, 17G4), che confutano i para-
dossi del Rousseau; il Discorso, diretto all'Intieri, Sul vero fine delle
Lettere e delle scienze (1753); le traduzioni con prefazioni e note
della Storia del cojnmercio della Gran Bretagna del Cary, dello
Spirito delle leggi del Montesquieu, del Saggio sui grani del Duha-
mel-Dumonceau. La Diceosina o filosofia dell'onesto e del giusto
fu pubblicata in parte postuma (Napoli, 1767); due volumi di Let-
tere famigliari vennero raccolti dal Fouges-Davanzatì (Ve-
nezia, 1776).
254 SECOLO XVIII.
Le Lezioni di economia furono dal CUSTODI riprodotte in
4 voi. con aggiunta di Opuscoli, fra gli Scrittori classici di Econo-
mia polit., Milano, Destefanis, 180;i, e da F. Ferkara nel voi. Ili,
serie I, della Biblioteca dell'Economista. Torino, Pomba, 1852, con
importante prefazione. Due voi. di Opere scelte fanno parte della
collezione milanese (1824j dei Classici italiani del sec. XVIII.
|Per la biografia e le dottrine, vedi la Vita scrittane da monsi-
gnor Fabroni, Vitm Italor., voi, XV, tradotta da G. A. MAGGI nella
cit. ediz. dei Classici; C. U(iONl nella continuazione dei Secoli
del CORNIANI, ediz. Pomba, V, 103; R. Bobe a, Commemoraz. di
A.G., Benevento, Nobile, 1807; V. Padula, Elogio dell' ah. A. G.,
Napoli, Androsio, 1860.J
Del lusso. — Gran iiitateria di contra.sti e stata, ed è tut-
tavia, il lusso tra filosotì. Perchè alcuni facendone l'enco-
mio, e ingrandendone i beni, che quindi credono derivarsi
nello Stato, pare che abbiano voluto fare altresì Y apologia
di tutti i vizj, siccome è stato il signor Mandeville, inglese,
autore del famoso libro intitolato La favola dell' api. Altri
pel contrario combattendolo, sembra che abbiano inteso di
combattere eziandio la presente politezza e umanità de' po-
poli europei, e con essa V arti miglioratrici tutte quante,
come se avessero voluto ridurci alla poltroneria, barbarie
e salvaticliezza de' più vecchi tempi ; tra i quali si è di-
stinto il signor Rousseau in molte sue opere, non ha guari
messe a.lla luce.
Io per me non intendo, che vi sieno o vi possano es-
sere de' vizj utili alla società civile, se non fosse di river-
bero, per opporsi a vizj maggiori ; anzi tengo per certo, e
per massima immutabile, che ogni vizio sia dannevole, non
solo agl'individui umani, ma a i corpi politici eziandio;
dond' è, che non credo poter mai essere un vizio quel che
giova allo Stato. E nondimeno parmi di conoscer chiara-
mente, che vi sia un certo grado di lusso, non solo utile,
ma necessario alla coltura, diligenza, politezza e anche
virtù delle nazioni, e a sostenere certe arti, senza le quali
si è o barbari o debitori a' forestieri : donde stimo di poter
conchiudere, che vi possa essere un grado di lusso, che non
sia da dirsi vizio. Ma procediamo con ordine, e per li suoi
principj.
L' arti di lusso riguardano a due punti : 1" al distin-
guerci ; 2"* a vivere con voluttà: de' quali quello sembra
figlio d' un istinto naturale, che ha ognuno di farsi riputare
più eh' ogni altro, per un tacito giudizio della natura d' esser
colui più felice, eh' è più al di sopra degli altri : e questo
deriva da una sensibilità fisica, il solletico della quale ci par
beatitudine. Il primo principio è più forte, perchè ha più
della proprietà costitutiva dell' uomo, eh' è il comparare il
diverso : il secondo, attenendosi più al corpo e al suo tem-
ANTONIO GENOVESI. 25.5
peramento, è iiien ^^cnerale. Di <jiu è, che voi troverete più
avari e sordidi anche in mezzo delle ricchezze, clie di co-
loro, olle non amino a distinguersi. In ragion composta di
(luesti due principi è il lusso.
Si possono considerare l'arti di lusso o in ragion etica,
() in ragion politica. (Ili uomini ne son più reliei? I']cco la
l)rima (luostione. Lo Stato ne divien più grande e ricco?
l'^cco la seconda. Credo, che se si l'osse potuto restare dentro
il giro dell' arti primitive e alcune delle miglioratrici, le
(|uali recano de' veri comodi e certi innocenti piaceri, sa-
ressimo stati più felici. 1° Si avrebbero generalmente avute
meno cure ; 2" si sarebbe stati obbligati a faticar meno ;
3« vi sarebbero stati meno ceti non faticanti, e i faticanti
meno oppressi ; 4'' si sarebbe meno indebolita la prima ro-
bustezza della natura umana ; 5" vi sarebbe stato meno
astuzie noce voli.
Ma era egli possibile di arrestare il genere umano fra
i soli termini dell'arti primitive e di quelle di comodo?
lù'a questo il primo punto, dove dovevano cominciare tutti
i discoi'si, per altro dotti, (li Rousseau. I principi della poli-
tezza de' popoli, r aver gustate cert'arti piacevoli, l'ingegno
curioso e avido del nuovo, la cupidità del guadagno, che si
va sviluppando a misura che gli uomini si stringono e cre-
scono in numero, l'amor della gloria, l'istinto del distin-
guersi solleticato dal confronto, la necessità di cautelarsi
o di difendersi, la provvidenza del futuro, che cresce come
la ragione si dilata, lettere, scienze, leggi scritte, guerra,
governo, nuovi morbi delle gran città, ignoti tra le selve,
nuovi vizj, e mille altre minori cause, sono certe molle,
le quali mosse una volta, corrono con forze acceleratrici,
che niun'arte umana, niun potere può mai arrestare, se
non quello, che separando di nuovo gli uomini, riducessegli
a' boschi e al primitivo stato di famiglie. È inutile dunque
il declamare contro questi arti. Ogni legge, che cozza col-
r incominciato corso del genere umano, o non è l'icevuta,
o subito frodata, o fra non molto antiquata.
Che farà dunque un legislatore? La prima legge di po-
litica è, che dove certi o vizj o costumi meno lodevoli non
possono sbarbicarsi senza disciogliere il corpo politico, o
farne nascere de' più pericolosi, si debba tentare di trarne
vantaggio pel pubblico, riducendoli ad una certa regola,
se non morale (che non potrebbe de' vizj) almeno econo-
mica ; per la quale facendo del bene, vengano a produrre
meno eli male. Quest'è la regola, che hon tenuto e tengono
i savj governi per rispetto al giuoco, allo spirito litigioso,
e a molti altri punti. Si vuol pigliar l' uomo com' è, dove
Inon si può aver migliore. All' arte umana non è permesso
di far nature, ma di reggerle.
Quanto all'altra questione, eredo anch'io, che, dove il
256 SECOLO XVIII.
gior proprietà e comodità, che non è tra' popoli rozzi, re-
golato da buone leggi e da certi costami non molto dif-
ficili a mettersi in pratica, possa essere di grandissimo
giovamento non solo alla grandezza e potenza e ricchezza
d' una nazione, ma anche alla sua umanità e virtù, almeno
di quelle, che non amano di esser guerriere e conquista-
trici, come non dovrebbe amarlo nessuna, che fosse savia ;
essendo la guerra e le conquiste più tosto un entusiasmo
contro i veri interessi d' ogni Stato, che un metodo confa-
cente alla civile felicità e grandezza de' popoli. La felicità
tanto delle persone, quanto de' popoli, nasce da tre opera-
zioni : 1* dal frenare la non necessaria cupidità di gran-
dezza di Stato, sorgente copiosa di molestie e di dolori ;
2* dall' accrescere la potenza reale rispetto a' bisogni della
natura ; 3°- dall' occupar la gente collo spirito e col corpo
in azioni ricreative delle forze dell' uomo. Le guerre non
fanno che aumentare ogni giorno le prime, e scemar le
seconde.
Ma perchè quest' articolo richiede che si sviluppi meglio
la natura del lusso, e le sue maniere e i varj suoi gradi,
si vuol cominciare da più alti principj. E primamente, non
vi è presso agli scrittori di queste cose parola niuna né
più vaga né più oscura, quanto è questa di lusso, ancorché
non vi sia stato né politico né teologo né filosofo, che
non si abbia dato ad intendere di averne ben compresa la
natura. Melon nel suo Saggio Politico sul Commercio ar-
disce dire, che quella voce si vorrebbe sbarbicare dalle
civili società : come se fosse così agevoi cosa sbandire i
costumi e gì' istinti della natura umana, come cancellare
una voce dai dizionarj. Tornando alla definizione del lusso,
dico, che appena se ne trova una che regga, benché sieno
tante, che sarebbe nojosa cosa ridirle tutte per filo. Imper-
ciocché i teologhi da una parte, e i politici da un' altra : e
di qui i negozianti, quindi gli uomini serj e ritirati : da una
parte i poveri, dall'altra i ricchi: di qui i vecchi avari, e
di là i lussureggianti giovani : tutti in somma, hanno dato
alla parola lusso tante e sì diverse nozioni, e risguardatala
per tanti e sì diversi aspetti, che e' pare, che non se ne
possa rinvenire il bandolo. QueLch' é lusso per alcuni, non
è per altri : e anzi, ciò che per alcuni é detto lusso, per
altri chiamasi sordidezza.
Alcuni han detto, che il lusso sia spendere soverchia-
mente, cioè più dì quel che basta. E questo pare, che, nella
sua proprietà, significhi la parola lusso. Ma questi primie-
ramente confondono la prodigalità, l'intemperanza e la
stoltezza con il lusso. Poi, non definiscono né assegnano
termine nessuno, né so se potessero assegnarlo, per cui
si possa intendere eh' é quel che basta, e dove comincia
il soverchio. Perché se la regola dello spendere é quella
di cacciar da noi il dolore e la molestia, chi spende per
ANTONIO GENOVESI. 257
si latto motivo, ci dirà sempre che non è soverchio. Altri
dicono, che lusso sia spendere più di quel che basta, e ciò
pel solo piacere di vivere. Ma oltreché questa definizione
e così difettosa, e per lo medesime ragioni, come la prima ;
pure e' non pare ciie si possa dir soverchio (juel che si
spende per vivere con onesto piacere ; perchè appunto per
questo si alTaticano (luaggiù l'arti ; e voler privare gli uomini
del godere delle loro fatiche, è lor dire, ììoìi faticate. Alti'i
sostengono, che il lusso sia uno studio di vivere con so-
verchia morbidezza e delicatezza o rallinamento di piaceri,
tanto di corpo quanto di animo. Ma si può delìnire ciò che
sia ([uesta soverchia linezza e delicatezza ? Impercioccliò
(luesti termini son sempre relativi. A cagion di esempio.
<juel che è finezza di gusto fra i groelandi, è durezza fra
gli svezzesi : e quel, eh' è delicatezza per questi, è durezza
por li francesi e italiani: e quella, eh' è delicatezza per
gl'italiani e francesi, sembra ruvidezza a' persiani e in-
diani. Quel ch'era lusso ne' tempi semibarbari di i']uropa,
sarebbe oggi stimato salvatichezza. Altri linalmente stimano,
che il lusso sia rallinare le mode di vivere al di sopra di
quel che richiede il grado di ciascuno, e questo per distin-
guerci da' nostri eguali, o per agguagliarci a coloro, a' (|uali
per altro riguardo siamo inferiori. E questo è quel che ne
penso anch' io.
In somma da tutte le parti si conviene nel genere di
questa definizione, cioè che il lusso sia spendere in rallì-
namenti di vivere, più di quel che richiede le stato e grado
naturale e civile di chi spende. Ma non si conviene giìi in
quel che dilVerenzia il lusso da molte altre spese soverchie
anch' esse, le quali non son lusso ; nò nel punto, dove il
lusso incomincia ad esser vizio, e pernicioso. E questo av-
viene per due ragioni : 1* perchè non si esamina il line dello
spendere, che costituisce o la crapola o il lusso ; :2* perchè
è dillicilissima cosa il trovare il termine preciso, dove fini-
scono le spese necessarie e cominciano le soverchie. Im-
perciocché, benché si sappia che i beni, i quali o ci dà la
natura o ci procacciamo per mezzo della fatica, sieno altri
necessarj, altri comodi e altri dilettevoli solamente : con
tutto ciò non è facile lo stabilirne i precisi limiti.
Si sa in generale, che 1 beni necessarj sono assai pochi,
cioè che per esistere abbiam bisogno di poco : che i comodi
sono un poco più : e inliniU (luelli di puro diletto e capric-
cio. Ma spesse volte i comodi passano nella classe de* beni
necessarj, e i dilettevoli in quella de' comodi; e a questo
modo tutto divien natura e necessario : e questo per una
delle tre seguenti ragioni, e alcune volte per tutte e tre
insieme ; cioè, o per lungo uso e costumanza, o per una
comune opinione (perchè è più l' opinione, che signoreggia
gli uomini e la natura), o per (lualche forte passione.
Per dimostrar la qual cosa, si ponga mente a' seguenti
IV. 17
258 SECOLO xviir.
(j.sempj. Si sa in generale, clie il mangiare e il bere sono
de' beni necessari : ma non è facile de/inire quali delle ma-
terie, clie si mangiano e beono, sieno in particolare neces-
sarie; conciossiacliè alcuni popoli si contentino delle sole
erbe e de' semi e delle acque, come i Iraniani dell' Indòstan :
altri aggiungano del pane e della carne, siccome la maggior
parte delle nazioni : e vi sarà, chi ricerchi de' più bei pani
e delle più delicate carni: e taluno medesimamente vi ri-
chiederà una squisita preparazione, come cose che si con-
fanno meglio alla sanità e robustezza del corpo. A questo
modo si va all'infinito. Parimente il vestire e l'abitare di-
consi beni comodi ; e pur nondimeno possono di leggieri
passare nella classe de' necessarj, siccome è addivenuto
in tutta quasi la terra. Per la medesima ragione del lungo
e continuato uso, il vestire e 1' abitare con morbidezza e
splendore trapassano nella classe de' comodi, da parere di
non potersene svezzare senza sentirne del male, come è
accaduto alle nazioni eulte. E così, a poco a poco, le cose
le più strane alla natura umana, prima incominciano ad
usarsi per un piacer capriccioso, appresso vi si avvezza,
e diventano comodi, da non se ne potere divellere fa-
cilmente ; essendo difficile, per non dire impossibile, che
altri si svezzi di quegli usi e opinioni, alle quali sarà per
lungo tempo abituato. Vedesi ciò chiaramente nell' uso del
tabacco fra noi ; e in quel dell' oppio e dell' arech e betel
in tutto l'Oriente: e delle pallottole di cristallo e de' peli
della coda di elefante nel Congo e in Loango, dove sono
cose riputate da tanto, che si stimerebbe non esser uomo
senz' averne qualche ornamento.
Mi sembra adunque, che per poter concepire con chia-
rezza il soverchio, e perciò il lusso, si vogliono conside-
rare più accortamente, che non si è fin qui fatto, le classi
degli uomini, le quali formano la civile società, diverse o
per la varietà de' mestieri e delle professioni, o per quella
delle ricchezze, o per nobiltà, o per tutte e tre insieme :
perchè il lusso è il principio motore di tali classi, che le
aggira siccome nella ruota della fortuna, senza posar mai,
mandandole or sopra or sotto. Queste classi sono dove più,
dove meno. Ne' villaggi i contadini e i pastori formano il
più basso piano : gli artisti e i manifattori il secondo ; e
alcuni proprietarj, che vivono civilmente, un chirurgo, un
medico, un notajo, un prete, il terzo. Ma nelle città ve ne
ha dell'altre, che non sono nelle campagne. I domestici, i
facchini, i vivandieri, i venditori a minuto delle cose comme-
stibili, e altre di simil fatta, vi compongono la più bassa
classe : gli artisti la seconda, la quale anche ella per la
diversità dell' arti più o meno servili si può dividere in
molte altre : i bottegaj di manifatture formano la terza :
i mercanti in grosso, e molti nobili viventi del proprio, la
quarta: i magistrati, il vescovo, il governatore del luogo,
ANTONIO GENOVESI. 259
l:i quinta. Maggiore ancora è il numero di (|uesto classi
nelle capitali ; essendovi molti oi-dini di nobili e di grandi
di corte, e il principe linalmente, centro di tutta la gran-
dezza della repubblica.
Le persone di queste classi, oltre a quel che è neces-
sario per la vita e sanità, sono avvezzate a certi comodi
«^ piaceri e segni di distinzione e modi di averli, i ([uali
per lo più sogliono essere così diversi, come sono diversi
I piani, in cui esse vivono. Questo riguarda : 1" la qualiti\
dtd mangiare e bere; 2*» quella dell' abitare e del vestire;
:>" (jueUa del farsi servire ; 4'' quella del centrar nozze ;
5" (luelhi (bdle pubbliclie feste o politiche o religiose ;
G" quella dell'unirsi in conversazione in certi tempi e luoghi.
Il lusso adunque, se si considera attentamente, non è
altro, siccome è detto, fuorché lo studio e '1 moto di distin-
guersi nella sua classe con animo di signoreggiare, o di ag-
guagliarsi ad una delle classi superiori, non già per laciuan-
tità delle cose, ma per la qualità, vale a dire per le rallinate
maniere di vivere. Dov'è che si vuol distinguere dalla pro-
digalità, o sia dallo stolto spendere, dalla ghiottoneria, dalla
mollezza ed efleminatezza didla vita. Imperciocché i pi-imi
due vizj consistono più nella quantità che nella (jualità, e
sono più grandi nelle rozze e barbare nazioni che nelle
polite ; e V ultimo è una certa debolezza di animo e di corpo,
che voi troverete anche tra certi popoli rozzi de' climi dolci.
Ma il lusso è una finezza di vivere, per ambizione di distin-
guerci : ed è perciò passione di rillessione più che d' istinto.
II che stando cosi, siccome è chiaro, tre cose voglionsi
distinguere nel lusso: il principio motore, 1' occasione che
r irrita, e l' istrumento, per cui si esercita. Il principio mo-
tore è (juella naturale propensione, che è in tutti noi, di
distinguerci gli uni dagli altri. L'occasione, che il solletica,
è r inegualità degli stati e ceti della civile società. 1/ istru-
mento linalmente, almeno principale, sono le ricchezze di
segno, il danaro.
Io ho detto, che lo spirito motore del lusso sia il naturale
istinto di distinguerci. Questo istinto è fino ne' selvaggi. Ma
e' non si risveglia mai senza qualche occasione, o naturale
o civile. Quando si sveglia per naturali occasioni, allora noi
non ci vogliamo distinguere per le maniere delle azioni, ma
por le azioni istesse, o accorte o prudenti o di penetra-
zione d'ingegno o di qualche illustre virtù o di alcuna pro-
digiosa forza. Allora non è lusso quel che ci distingue, ma
bensì quantità di forza maggiore d' ingegno o di corpo. Ni-
cole si vuol distinguere per la forza, Archimede per la pe-
netrazione d' ingegno, Scevola per V intrepidezza, Lucrezia
per la fermezza dell'animo, Aristide per una giustizia esem-
plare, Alessandro per le gran conquiste. Catone per osti-
nata caparbietà. E queste son quasi le sole cose, per le quali
si distinguono i repubblicani nel tempo di rozzezza, come
2G0 SECOLO XVllI.
quelli elio si reputano nel resto eguali, e i popoli barbari,
tra' quali non vi lia diversitù, di ceti.
Ma quando T occasione del risvegliarsi un tale istinto
sono i ceti diversi, de' quali è composto il corpo civile, e
r istruniento le ricchezze, non già naturali, ma di segno,
allora le maniere e qualità, per cui ci studiamo di distin-
guerci, sono il vero lusso. K di qui è chiaro, che se in una
società, di uomini non vi fosse né varietà di classi nò ric-
chezze di segno, non vi sarebbe neppure gran luogo a vo-
lersi distinguere per le maniere e qualità di vivere, ma
vi si distinguerebbero le persone per le azioni medesime.
Cosi nella repubblica di Sparta, e nei primi tempi della
romana, dove era poca inegualità di ceti e piccole ric-
chezze, mai non fu lusso di sorta alcuna. Per la medesima
ragione nelle Repubbliche popolari il lusso è assai piccolo,
come si può vedere in quelle di Olanda e degli Svizzeri.
Donde nasce questa conseguenza, che il lusso sia fra le
nazioni in ragion composta della diversità de' ceti, delle
ricchezze di segno e della ineguale divisione di queste ric-
chezze.
Quelle cagioni, che muovono un particolare a volersi
distinguere da un altro della medesima classe o ad emu-
lare una superiore, muovono altresì le classi superiori a
trovare sempre nuovi modi da distinguersi dalle inferiori,
e fra sé medesime. E quindi avviene, che dove incomincia
a regnare il lusso, non vi sia giammai termine nessuno, che
r arresti ; ma vi si veggono perpetuamente, come nella ruota
della fortuna,, le classi infime salire allo stato di mezzo ; le
mezzane alla cima ; quei della cima scendere prima nel
mezzo, poi nel piano. Questo giuoco del lusso, siccome va
ad abolire la schiavitù, cosi è il più gran sollievo di quella
parte del genere umano, che patisce per la pressione del-
l' altra, che 1' è di sopra.
Finalmente come vi è un lusso di classe a classe nel
medesimo popolo, così vi ha un'emulazione di lusso di po-
polo a popolo principalmente se essi sieno vicini. Imper-
ciocché niuno è, che non voglia agguagliarsi all' altro in
quelle cose che son pubbliche, e nelle quali si mette un
certo che di signoria : quali sono le ambascerie, le feste,
principalmente le nuziali de' grandi, i giuochi pubblici, i
teatri, le scuole, le ville di delizie, le grandi strade, e altre
sì fatte.
Poiché è dimostrato quel che é il lusso, é ora da divi-
dersi così per rispetto alle cose, per le quali si alimenta,
come riguardo alla sua intensità ed estensione. Rispetto
alle cose che lo alimentano, dividesi in lusso di cose fore-
stiere e lusso di cose nostre. Quello si alimenta con der-
rate e manifatture straniere, questo colle paesane. Ri-
guardo air intensità, è o smoderato ed eccessivo, o modesto
e regolato. L'eccessivo è quello, che eccede l' entrate o il
ANTONIO GENOVESI. 2G1
guadagno, o si sostiene col credito : il moderato è quando
non eccedo le rendite o ò loro alquanto inferiore. Per
restcsnsione, si può dividere in lusso generale e particolare.
11 primo occupa la maggior parte delle classi del corpo ci-
vile : il secondo solo quelle, che vivono nobilmente e di
rendite. Le quali divisioni poste, veggiamo ora gli effetti
del lusso, cosi rispetto allo Stato in generale, come riguardo
a' particolari ; e appresso, quali ne sieno le leggi economiche.
\] in prima, il lusso sostenuto per materie esterne, prin-
cipalmente se è generale, è pernicioso ad ogni corpo civile,
nò può lungo tempo durare, come quello che consuma se
stesso. Le ragioni che dimostrano la prima parte, sono:
1" Perchè questo lusso vota di danaro continuamente la
nazione ; 2° perchè fa, che i prodotti delle proprie terre si
avviliscano ; 3" perchè è cagione, che si annichiliscano le
manifatture interne ; 4° perchè avvilisce e opprime lo spi-
rito della nazione ; 5° perchè la rende quasi serva delle
forestiere, dalle quali è forza che prenda lo materie di
lusso. Del non poter durare, la cagione è, che, impoverendo
ciascun anno la nazione, non troverà più che dare per so-
stenere sì fatto lusso. Supponiamo, per modo di esempio,
die noi di questo regno mettessimo della grandezza a man-
giare le fiirine Inglesi, le paste di Genova, i formaggi di
Olanda, gli olj greci o francesi, o bere de' vini esteri, a
vestire tutti di panni, sete, tele, forestiere ; chi può du-
bitare, che tutte le nostre arti non fossero fra poco per
esserne appassite ? Ma in non molto tempo, non trovando
più che dare per avere del forestiero, questo lusso avrebbe
consumato sé stesso, e noi ci troveremmo tutti ridotti al-
l' arti primitive. Tanto è vero, che non si può lungo tempo
gabbar la Natura!
Ala se questo lusso di robe forestiere non è che di qualche
cosa e di poche classi, né smoderato, anzi di nuocere, può
giovare ; perchè desta lo spirito di emulazione, e ciò vi per-
feziona r arti. Le classi inferiori, non potendo far uso delle
derrate e manifatture esterne, s'industrieranno di avere
dell'interne, cosi buone, o anche migliori che non sono le
forestiere. In oltre, la piccola (juantità delle cose straniere
cambiandosi colle proprie, questo commercio dà del moto
all' industria interna. In fatti, i nostri antichi Italiani, i quali
prendevano delle stoffe di seta dall'Oriente, per l'emula-
zione si svegliarono, e procurarono averne delle proprie,
cosi belle come quelle di Egitto, di Siria e di Persia. I Fia-
minghi imitarono gì' Italiani ; i Francesi i Fiaminghi ; e
gì' Inglesi i Francesi. Così questo spirito di emulazione sve-
glia gl'ingegni, e promuove Parti e la fatica. La quale
(occupando utilmente le persone, è un'azione recreativa
doli' ingegno e del corpo: fa gli uomini più socievoli, cioè
più virtuosi, e gli Stati più ricchi.
Ma il lusso di ciò, eh' è interno (dove non sia pazzo, né
2G2 SECOLO XVIII.
riesca in crapule, gliiottonerie, ubbriacliezze e stolta lus-
suria, elle non haii die far nulla coi lusso propriamente
(letto), benché a lungo andaie possa nuocere ad alcune (a-
niiglie e a certe classi di uomini, per la mancanza del giu-
dizio nel sapere spendere, nondimeno è utilissimo alla
nazione in generale ; del clie eccone le ragioni : 1*» perché
accresce il consumo de' nostri prodotti e delle nostre ma-
nifatture, e con ciò anima la fatica e la difTonde ; donde é
che le classi lavoratrici, base della repubblica, trovando a
faticare, trovano da vivere onestamente e da dilatarsi ;
2° perchè diffonde il danaro per tutte le classi delle per-
sone : e di qui avviene, che tutte le classi delle persone vi
abbiano de' mezzi da far valere le terre e l' industria ;
3" perchè multiplica il danaro medesimo ; conciossiacosaché
spendendosi spesso, giri più volte in un anno, e conseguen-
temente equivaglia a molto; 4° perchè sveglia gl'ingegni,
raffina lo spirito della nazione, fa migliorare le arti antiche,
e inventarne delle nuove.
Che se i nostri prodotti, e le nostre manifatture servono
a mantenere il lusso delle nazioni, siccome si fa ne' popoli
trafficanti, allora saranno di più una gran sorgente di ric-
chezze ; perchè, oltreché occuperanno i nostri manifattori e
agricoltori, saranno ancora cagione perchè la nazione ri-
cavi dagli altri popoli, quel che le manca, il che, vale a
dire, faranno che i forestieri ci alimentino : grandissimo,
anzi unico fine di tutte V arti di commercio. E questa era
una volta l' abilità de' Fenicj, i quali si avevano renduto
tribiitarj un' infinità di popoli ; ed è ora de' Genovesi, Fran-
cesi, Olandesi, Inglesi, nazioni arricchite per il lusso di
quegli stranieri, i quali si servono di quelle manifatture o
de' prodotti delle loro terre e colonie.
A questi effetti d' un lusso moderato, o sia d' una certa
proprietà di vivere delle nazioni ingentilite, si vogliono ag-
giungere i morali. Il primo è la politezza delle maniere : la
quale da chi può essere riputata un male, se non da un
selvaggio? II secondo l'umanità, una più ampia socialità,
e '1 conversare da uomini, e quello spirito gajo e brillante,
che non si trova in ninna nazione barbara, ma è sempre
congiunto con qualche proprietà del vivere. Il terzo, le
scienze e le beli' arti, le quali, siccome si vede per la storia
delle cose umane, vanno di pari passo coli' umanità, e con
la proprietà della vita. — (Dalle Lezioni cV Economia civile^
parte I, cap. IO, in Scrittori classici italiani di Economia
politica (raccolta del Custodi). Parte moderna, tomo VII,
Milano, MDCCCIII, pag. 222.)
li commercio marittimo e le forze navali. — Senza navi-
gazione non si può avere commercio vantaggioso né poco
né punto ; perocché senza navigazione non si può avere
utile smercio né di derrate né di manifatture né di ve-
ANTONIO GENOVESI. 263
run' altra cosa, che nel paese nasca o si taccia, e senza utile
smercio o non si può avere commercio, o non so ne può
avere vantaggioso. l*erchè, o voi non mandato nulla fuori, e
non ne avrete nò interno nò esterno; il che, oltreché è da
se manifesto, è stato più di una volta da me altrove dichia-
rato, in modo che chi ne può dubitare non ha ninna co-
gnizione di questa scienza. voi vel mandate sopra legni
esteri, e vi convien perdere tutto il nolo, che, non impor-
tando piccola spesa, sarii cagione che voi non facciate giam-
mai commercio vantaggioso. E se finalmente lasciate chi;
i forestieri vengano da sé a caricare le vostre derrate e
manifatture, primamente è necessario che perdiate tutto
il guadagno che voi potreste dalle vostre robe sperai*e ;
perchè il forestiere il vorrà per se, che è tanto (guanto dire
elle voi gli diate le vostro mercanzie a quel prezzo ch'egli
vorrà, e non a quello che vorrete voi. E poi, vi ò forza che
prendiate da lui in iscambio delle cose vostre quelle mer-
canzie che egli vi apporterà, o poco o molto che vi abbi-
sognino, e che le prendiate a quel prezzo a cui piaceragli
darvele, altrimenti voi non farete mercato delle vostre. Con
che è chiaro che senza navigazione, come voi non potete
avere commercio attivo, cosi non ne potete avere nessuno
che vi sia utile, vale a dire che a lungo andare non vi ca-
gioni la mina dello Stato.
Secondariamente, non è men chiaro che senza proteg-
gere la navigazione, ella non può esser gran cosa o non
può lungo tempo durare, perchè come vi sono delle nazioni
o gelose o nemiche, senza una marina armata esse possono
in mille modi attraversare la navigazione mercantile, la
(juale, se voi volete eh' ella s' armi da sé, ella troverà ninno
o poco guadagno nel suo commercio. Ma esse saranno più
ritenute, come una buona armata navale protegga il com-
mercio marittimo. Il signor Melon dice, che il commercio
di mare vuole avere libertà e protezione ; ma soggiunge :
se non può averle insieme tutte e due, convenendo scegliere,
è da preferire la libertà; perciocché la sola protezione, per
grande che sia, non può esser cagione che faccia nascere
il commercio dove non è, benché possa sostenerlo dove
ve n'ha; ma la libertà l'anima, il genera e l'alimenta in
guisa, che ella da sé medesima gli procaccia la protezione.
Per veriti'i (lualche esempio n'abbiamo ed in Italia e fuoi*
d' Italia, ma non in modo però che il governo non vi sia
in conto alcuno interessato. Egli è vero che i Genovesi, i
Pisani, i Veneziani coli' accrescere il commercio, accrebbero
altresì le armate navali che il protessero ; ma queste ar-
mate erano a conto del comune, e rade volte a spesa de' soli
mercatanti. Si vuole il medesimo dire degli Olandesi e degli
Inglesi. Cominciò quivi a prender vigore il commercio da
private compagnie; il guadagno le mise in istato d'armarsi ;
ma se il governo non vi si fosse immischiato e non n'avesse
2G4 SECOLO XVIII.
intrapresa la protezione, elleno non si sarebbero giammai
])i'otette da sé sole. Agf,qungo, clic poiché si conviene clic
una armata navale sia necessaria a proteg^^ere il commer-
cio, sia eh' ella sia equipaggiata a spese de' negozianti o flel
governo, egli non mi sembra sicuro nel governo lasciarla
nelle mani de' negozianti, massimamente in un paese le di
cui principali forze sieno le marittime. Per la qual cosa
conchiudo che, o il commercio non ha da avere protezione
nessuna, cosa che esponendolo a mille pericoli in breve é
per annientarlo, o se n' ha da avere, ella non gli può es-
sere accordata che dal governo.
Si può dire : qual prò può determinare il governo ad
imprendere la protezione del commercio marittimo? Se io
non avessi udito Tarmisi questa opposizione da uomini che
si stimano pensar bene su queste materie, l'avrei giudicata
indegna di esser qui proposta ; ma la filosofia, che dee es-
sere utile al comune degli uomini, si vuole adattare a quei
medesimi che meno intendono. Diciamo adunque che le uti-
lità di una rispettabile armata navale, per una nazione che
abbia del mare, sono molte e grandissime. 1« Ella é di gran-
dissima forza a farsi rispettare dalle nazioni vicine, e forse
maggiore che quella delle truppe terrestri. Si è veduto
questo negl'Inglesi, negli Olandesi ed altre nazioni, le quali
hanno dato legge all' Europa, quando sono stati signori del
mare ; e 1' hanno ricevuta, quando le loro armate navali
sono state deboli, come pare oggi addivenga agl'Inglesi.
2"" In una guerra, come ella sia perditrice in terra, é l'ul-
tima fortezza ove si possa ritirare e conservarsi ancora
lungo tempo. Temistocle, dopo la perdita della giornata di
Maratona, consigliò agli ateniesi di ritirarsi in una città di
legno come all' ultimo asilo, e salvò la repubblica. 3° Cre-
scendo per la sua protezione il commercio, lo Stato avrà
sempre bastante copia di marinari destri e dotti nell'arte
marinaresca per fornirne la sua armata, e n' avrà sempre
scarsezza come il commercio sia nullo o piccolo ; onde è
che nei bisogni non troverà come possa mettere in mare
le sue navi, perché non potrà fare in due giorni degli abili
marinari. 4** Come il commercio della nazione sia grande,
non potrà essere a meno che la nazione non sia ricca ; e
un sovrano di una nazione ricca, è sempre ricco anch' egli.
5*" La navigazione florida, il commercio sicuro e vantag-
gioso darà volentieri e con piacere parte dei suoi guadagni
per la sua protezione.
Di tutte poi le nazioni, quelle hanno maggior bisogno
di una buona armata navale, le quali sono o isole o peni-
sole. Perocché in queste tali nazioni, quelle parti voglion
essere più forti, onde può essere maggiore il pericolo : e
questo è il mare. Perchè se sia un'isola, ella non può es-
sere altronde attaccata che da mare, ciò che sarà difficile
come le sue armate navali sieno in buono stato ; e se sarà
J
ANTONIO GENOVESI. 2G5
una p(Miisola, qual ù il nostro regno, ella vuole aver mag-
gior timore dalla parte del mare clie da quello di terra ;
e perciò le conviene usar maggior diligenza ad avere una
buona armata navale, che de' grandi eserciti terrestri. Fra
gli antichi popoli, gli Ateniesi, che avevano un tal sito, nelle
difese e nelle imprese si trovarono sempre meglio con delle
lorze marittime, che con delle terrestri. E ne' secoli addietro
i Pisani, i Genovesi e sopra tutti gli altri i Veneziani al-
lora furono più sicuri, quanto furono meglio armati in mare.
Egli è succeduto il medesimo agli Olandesi, i quali come
dalla parte di terra per i gran liumi e paludi sono quasi
che inaccessibili, non si sono difesi nò ingranditi, che per
le forze marittime, e son decaduti poiché la loro potenza
marittima è andata giù. Il medesimo si vuol dire degli In-
glesi e de' Francesi, i (luali non hanno acquistata quella po-
tenza che hanno, che dopo avere avuto delle rispettabili
armate navali. Antonio Perez, savio spagnuolo, soleva dire
ad Enrico IV re di Francia, che quel regno sarebbe sempre
piccola cosa come non avesse mare. La Spagna non fu mai
tanto air Europa formidabile, (juanto allorché Filippo II si
studiò d'innalzare la marina. I principi Nornianni, fonda-
tori di questo regno, par che intendessero questa massima,
perclié essi in ninna cosa posero la maggior loro fortezza
(jiianto nelle armate navali, por le quali oltreché si fecero
l'ispettare da tutte le potenze d'Italia e da' Veneziani me-
desimi, essi repressero l'ordine de' barbareschi e li si fe-
cero tributar.), e misero dello spavento fin nell'imperio di
Costantinopoli. E certo i Turchi non furono mai sì formi-
dabili (juanto nel tempo che mantennero delle grandi ar-
mate, le (juali non cosi decaddero, che la potenza di quel-
r imperio non seguisse quasi colla medesima proporzione
(luel decadimento. Conchiudo dunque, che cosi gl'interessi
(lei commercio come quelli dello stato, ricercano che una
nazione, come è la nostra o qualunque altra a noi per sito
e per vigor di terra e d'ingegno simile, abbia le più gran
forze marittime ch'ella aver possa.
Vorrei io in questo luogo dire un pensiero clie ho sem-
pre meco d'intorno all'animo avuto, ed ho tuttavia; ma io
temo ch'egli non sia per incontrar male presso coloro, che
niun amore hanno e niun zelo nutriscono per l'Italia, co-
mune madre nostra; ma il dirò pure, in qualunque parte
sia per prendersi da chi non guarda più in h\ del proprio
utile. A voler considerare l'Italia nostra e dalla parte del
suo sito e da quella degl'ingegni, e per quello che ha ella
altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come dila-
cerata, si converrà di leggieri ch'ella tra tutte le nazioni
d' Europa sia fatta a dominare, perocché il suo clima non
può esser più bello, né più acconcio il suo sito rispetto alle
IK teri'c e al mare che la circondano, né più perspicaci e
200 SECOLO XVIII.
grilli l'aticlic, oltre a ciò più amanti della vera gloria i
suoi popoli, di quel che essi sono. Tjnd' è dunque eh' ella sia
non solo rimasta tanto addietro all'altre nazioni in tutto
ciò che par suo proprio, ma divenuta in certo modo serva
di tutte quelle che il vogliono? Ella non è stata di ciò causa
la sola mollezza, che le conquiste dei romani v'apporta-
rono, perochè questa morbidezza, che le ricchezze e la pace
v'avevano introdotta, non durò lungo tempo; ma la vera
cagione del suo avvilimento è stata quell'averla i suoi ligli
medesimi in tante e si piccole parti smembrata, eh' ella ne
ha perduto il suo primo nome e l'antico suo vigore. Gran
cagione è questa della ruina delle nazioni : pur nondimeno
ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti principati, de-
posta omai la non necessaria gelosia, la quale hanno spesse
volte e più ch'essi non vorrebbero sperimentata e al co-
mune d'Italia e a sé medesimi funesta, volessero meglio
considerare i proprj e i comuni interessi, e in qualche forma
di concordia e di unità, ridursi. Questa sarebbe la sola ma-
niera di veder rifiorire l'ingegno e il vigore degl'Italiani.
Potrebbe per questa via aver l' Italia nostra delle formi-
dabili armate navali, e tante truppe terrestri che la faces-
sero stimare e rispettare, non che dalle potenze d'oltre-
mare, che pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli
che sono in Europa. Ella non vorrebbe ambire altro im-
perio, che quello che la natura le ha circoscritto ; ma ella
dovrebbe e potrebbe difendersi il suo. Potrebbe veder ri-
nascere in tutti i suoi angoli le arti e l'industria, dilatarsi
il suo commercio, e tutta nuovo abito e la pristina bel-
lezza prendere. Se questi sensi s' inspirassero ai pastori di
tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto
platonico. E mi pare che i principati d' Italia non siano sì
gli uni degli altri gelosi, che per massime vecchie, che son
passate a' posteri più per costume che per sode ragioni.
Non son ora i tempi che erano ; e quelle cagioni di reci-
proci timori, che potevano essere una volta ragionevoli,
sono ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti,
se ben si considerano. Egli è per lo meno certo eh' ella
non può, come le cose sono al presente, sperare altronde
la sua salute, che dalla concordia e dall' unione de' suoi prin-
cipi. II. comune e vero interesse suol riunire anche i ne-
mici ; non avrà egli forza di riunire i gelosi ?
Rettor del cielo, io chieg-go,
Che la pietà, che ti condusse in terra,
Ti volga al tuo diletto almo paese.
{Ibidem, parte moderna, tomo X, pag. 113.)
267
FRANCESCO ALGAROTTI.
Di f:inii|^lì;i data .il coniniercio nac(nu; in Vciirzia l'il dicom-
bre 1712, e, fatti i primi stiulj Ji Konui, li prosey:ui ;i Jiulojjiia sotto
l:i direzione di Eustachio Manfredi e di F. M. Zanetti, che di tale
alunno si gloriavano, e alcune sue memorie astronomiche accol-
sero negli Atti delV Istituto Loìofjnese, mentre l'altro Zanotti, (Jiam-
pietro, a insaputa di lui, stampava un volumetto de' suoi versi.
Per lo studio delle scienze, che estese anche alla fisica e all'ana-
tomia fre(iueutando le lezioni del IJeccuri e del Caldani, non
abbandonò quelli delle lettere e delle arti. Dopo sei anni di sog-
giorno in Bologna, si recò per qualche tempo a Firenze ad appren-
dervi il bel parlare, esercitandosi intanto nel greco con A. M. Kicci;
indi visitò Roma. Andato poi,
nel 1735, a Parigi, ove lo aveva
già preceduto la fama, sicché
fu invitato dal Maupertuis ad
accompagnarlo in Svezia per
determinarvi la figura della
terra, ritiratosi dal fragore
della gran metropoli al Monte
Valeriano, ivi scrisse il Neicto-
nianistno per le dame (poi in-
titolato 7>i«/o///<i sopra Vottica
newtoniana) e lo lesse mano-
scritto al Voltaire, che stava
anch' egli scrivendo sullo stes-
so argomento, e che approvò ;
il lavoro del giovane poco '^
più che ventenne, giudicandolo
<i leggiadro, chiaro, gentile in
tal maniera, che le donne lo possono leggere con gran piacere,
t! che può anche servire all' istruzione degli uomini.» Mad. dii Chà-
telet, la dotta Emilia, colla quale allora il Voltaire conviveva,
avrebbe voluto che il libro fosse a lei dedicato, e che il suo ri-
tratto messovi in fronte facesse intendere esser lei la marchesa
introdotta nel dialogo: ma T Algarotti aveva già deliberato di
intitolarlo al Fontanelle, dalle lettere del quale sulla riuralità
dei mondi non le dottrine aveva appreso, ma il metodo di render
piane le asperità della scienza e trattare i più ardui veri con
vaghezza di forme e facilità come di conversazione. Pubblicata
l'opera, che ebbe traduzioni francesi, inglesi, portoghesi, tede-
sche e russe, Voltaire scrivevagli : « Parmi che, dopo Galileo,
non vi sia altri che voi che istruisca con diletto. » Dalla Francia
passò l'Algarotti a Londra, e dopo un nuovo soggiorno a Cirey e
in patria, ove alla tino del ';J7 curò a Milano la prima stampa dei
suoi />/a^or//u', tornato a riveder l'Inghilterra, intraprese nel 173S-39,
208 SECOLO XVIII.
])('A- invito e in compagnia di Lord Baltimore, un viaggio a Pietro-
l)iirgo. Entrato dalla Russia in Prussia, visitò a Dresda la corte
sassone, e a Keinsberg Federigo, allora principe reale, che l'ac-
colse benevolmente, e poi doveva mostrargli del suo amor più oltre
che le fronde. Di questi suoi viaggi abbiamo la descrizione nelle
Lettere sulla lìussia indirizzate a Lord Ilervey e a Scipione MafT'ci.
Federigo salito sul trono, ne die subito l'annunzio all'Algarotti,
che da lui aveva avuto l'incarico di curare in Londra una edi-
zione i\é\V Ilenriade con rami, e lo chiamò a sé. Nel giorno dell' in-
coronazione a Konisberg (1740), il giovane veneziano era al fianco
del re, che a lui volle conferito il titolo di conte, trasferibile alla
famiglia, aggiungendovi poi anche quelli di ciambellano e di ca-
valiere del merito. L'amicizia di Federig/) e di tutti i componenti
la famiglia reale, nonostante qualche nube passeggera, si man-
tenne per lui sempre viva e costante.^ Presso Federigo l'Algarotti
stette dapprima solo due anni, e al principio del 1742, dopo aver
sostenuta presso la corte di Torino, ma non troppo felicemente, una
missione diplomatica affidatagli dal re prussiano,* passava alla
corte polacca, ove Augusto III lo ebbe assai caro, gli die il titolo
di consigliere intimo di guerra e lo fece suo provveditore in Italia
per arricchire di quadri la galleria di Dresda. Tornò a Potsdam
nel 1745. Ma la vita eh' ei doveva condurre presso Federigo, e
che non era quella di ozioso cortigiano, non che il rigor del clima
gli fecero, nel principio del 1743, abbandonare per sempre la Ger-
mania. Del resto, anche quando viveva in straniere regioni onorato
e felice, lo pungeva il desiderio della patria: gli piacevano, al certo,
le « erudite cene » di Parigi, in che si mesce « lo spumante sciam-
pagna il qual poi desta I bei racconti ed i venusti risi: » ritornava
volentieri alla « fumosa Londra » dove non vedeva «nel vulgo schia-
vitù, ne' grandi orgoglio », e dove « delle leggi è il re custode e servo,
nato al bene comune » sicché, ammirato, chiedeva egli ad Apollo
« con leggi inglesi, attico cielo » ; ma vivo era tuttavia il ricordo
della sua Venezia, dove «in bruna gondoletta i furti D'amor ra-
pire inosservato; e intanto Canta l'armi pietose e il capitano L'ac-
corto gondolier, posato il remo (Epist. al Villiers). » E dell'onore
del suo paese si mostrò sempre zelantissimo, rivendicando all'Ita-
lia scoperte scientifiche, lingua e dottrina militare, primato nelle
arti e nelle lettere, ed augurandole anche unità di stato:
Ah Siene ancora, Italia mia, le belle
E disperse tue membra in uno accolte.
Nò l'Itala virtù fìa cosa antica!
Ma il quando chi '1 vedrà V forse il vedranno
Anche un giorno 1 nepoti. (Epist. al Voltaire.)
* .Sulle relazioni di Federigo cogli Italiani, e specie coli' A., vedi
P. D. Fischer nella Deutsche Rundschan del 1" dicembre 1888.
^ Vedi A. Neri, Fr. Ahjarotti diplomatico, in Arch. star, ital., XA'III, 5
(188G).
1
FRANCESCO ALGAROTTI. 2G9
Tornò (luiiqiie tli ([iia dalle Ali)i, i)riina sogfjiornaiulo in Vene-
zia (1753-'56), poi .1 Bologna (1756-'G2), ove raccolse intorno a se
alcnni {giovani studiosi, col nome di Accademia degli Jndoynili. Ma
il male al petto, che si dice avesse contratto nell'assidua compa-
{j^nia del pittore ed architetto Mauro Tesi (Maurino), che lo aiu-
tava ncffli studj d'arte, nel disegnare e nell'incidere, sempre più
progrediva. Il Voltaire Io invitava amicamente a Ferney, pro-
mettendogli il latte delle sue vacche e l'assistenza del medico
Tronchin. Prescelse invece Pisa (1702) e qui dimorò, scompartendo
la giornata fra i lavori artistici col Maurino (fra le altre inventò
e disegnò il proprio monumento scrivendovi per epigrafe: Alga-
roUns non oinnis), e la correzione della stampa delle sue opere,
riserbando la sera a trattenimenti musicali. « .l'ai jugé de l'état
de votre sante (scrivevagli Federigo), par la lettre (ine vous m'avez
écrite. Cette main tremblante m'a surpris et m'a fait une peine
infinie. Puissiez-vous remettre bientòt! Avec quel plaisir j'ap-
l)rendrois cette benne nouvelle! » Attese qui la sua fine, solo scla-
mando sovente: « Va bene morire, ma patir tanto! »; e l'ultimo
giorno, essendogli porto un berretto con nastri di bei colori, escla-
mò: « Capperi! mi volete fare un gran bel morto. > Mori ai .'> mag-
gio 17(54. Federigo ordinò per lui un monumento nel celebre Cam-
posanto coir iscrizione ch'egli stesso compose: Algarotto Ovidii
(Cììinlo, Xeìctoni discipnlo, Fridericus rex.
Molte e di vario genere sono le scritture dell'Algarotti, seb-
bene ei morisse a cinquantadue anni. Fra le poesie, sono più no-
tevoli le XVIII Epistole in sciolti, tutt' altro che «eccellenti»
come le battezzò il Bettinelli stampandole colle sue proprie e con
quelle del Frugoni insieme colle famose Lettere virgiliane. Ma
l'Algarotti protestò sempre che di tal fatto egli era assolutamente
ignaro, e replicatamente volle attestare la sua reverenza « al poeta
veramente sovrano » a cui con quelle lettere facevasi oltraggio. Come
nel Neictonianismo per le dame egli si era proposto di dare esempio
di una nuova prosa, libera della pompa cinquecentistica, sciolta
e vivace, così con queste Epistole, in versi generalmente monotoni
e tiosci, intendeva egli rinvigorire la stanca poesia del tempo,
augurando che « Italia anco un giorno d' un poeta filosofo sia
l)ella » (Epist. al Oorani): e con ciò eertamente alludeva a sé
medesimo. Però la riforma, ideata dall'Algarotti e divulgata dal
liettinelli, si riduceva all'introduzione di un nuovo metro lirico,
che fece sul principio non felici prove; ma ha la sua importanza,
se si ripensi alle contese di quel tempo sulla rima, e alla sorte
che ebbe lo sciolto presso gli Arcadi della fine del Settecento, e
a quelle ben diverse conseguite dipoi. Alla poesia, se non per la
forma, pel genere, appartengono anche la Sinopsi della Nereido-
logia e il Congresso di Citerà; scrittura satirica la prima contro
le vanità e le imposture erudite, ed erotica la seconda, in che
volle ritrarre l'indole e il costume donnesco presso le varie nazioni
270 J^F.COLO XVIII.
(li Europa, modellandosi sulla letteratura galante francese con-
temporanea e singolarmente sul Tempie de Onide del Montesqnien.
Al Voltaire quest'opera parve dettata «dalle grazie stesse, e
scritta con una penna delle ali d'Amore j^; ma è ben noto che
spesso lo spiritoso Francese esagerava, quando non burlavasi del
prossimo. Merito vero hanno, qual che ne sia la misura, fra i la-
vori in prosa i Saggi e le Lettere, che trattano svariati argo-
menti d'arti belle e di letteratura. Spettano alle arti, i Saggi
sopra r architettura, sopra la pittura, sopra l'opera in musica,
sopra l'Accademia di Francia in lioma, e le Lettere descrittive
de' monumenti di molte città d'Italia, in special modo della Ko-
magna. Nell'altra categoria sono da annoverare i Saggi sopra la
necessità di scrivere nella j^^opria lingua, sopra la lingua fran-
cese, dai quali derivò alcuna cosa il Napione ; sopra la rima,
sopra Orazio (il più ingegnoso forse di tutti, ove l'Algarotti intar-
siando i passi autobiografici del poeta ne racconta e commenta la
vita), e le Lettere sopra la traduzione dell'Eneide di A. Caro, so-
pra la ricchezza della lingua italiana nei termini militari: aggiun-
gansi anche 1 Discorsi militari (intorno alla scienza militare del
Segretario fiorentino, a quella di Virgilio ec); e i Saggi storici
e scientifici, su i re di Roma, sopra la Giornata di Zam.a, sul
Gentilesimo, sugli Incas, sul Commercio, su Cartesio ec. Fra tutte
le cose sue egli dava la preferenza alle Lettere sulla Russia, e,
dei Saggi, a quello sulla pittura. In tutte queste scritture è va-
rietà, se non profondità di dottrina, e vivezza, se non purità di
lìngua, e stile sciolto ma foggiato al tipo francese, come del resto
in tanti altri autori del tempo, a causa della diffusione della cul-
tura e della lingua francese. E in francese scrisse elegantemente,
come si vede i^sàVIphi genie en Aidide, opera, e da parecchie sue
lettere. Fu pubblicato postumo un Saggio del triumvirato di Crasso,
Pompeo, e Cesare, e non adoperati restarono molti importanti do-
cumenti, che dovevan servirgli a narrare le guerre di Federigo,
e che Federigo stesso gli aveva fornito a tal fine, conservati ora
nella Biblioteca del Re a Torino.*
Ebbe gran riputazione ai suoi di, confortata dall' amicizia
de' potenti d' Europa e de' dotti più in voga. Ma anche allora
sorsero detrattori alle sue lodi: primo il Baratti, che sentenziò
« esecrabile » la lingua e lo stile di lui (Disc, su Shakesj). e Vol-
taire). Il Foscolo poco dopo scriveva che egli si era « scroccato
fama di savant », e che lo stile aveva appreso dai gesuiti e adat-
tato alla maniera francese. Anche l'Ugoni gli si mostra severo,
accusandolo di superficialità nella dottrina e di lambiccata lezio-
sità nello stile; e sottomesse tutte le sue scritture a spietata ana-
lisi, conclude che « le opere dell'Algarotti sono più atte ad infem-
* Vedi L. Batlo, / mss, di F. A. e i priumi di Nticton, iu BiUiofìlo,
auno Y (1884), n. 2.
FKANCKSCO AIA;aU(J1 li. 271
minìre gli animi, che a rinfrancarli e rassodarli. » l'il Tommaseo
egli lu « nn ingegnino di quelli che, ripetendo, non condensano le
idee altrni, ma coagulano: un di que' troppi che nel secolo pas-
sato e nel nostro fecero l'Italia pedantescamente serva alle eso-
tiche leggerezze » {Storia civile nella letler., Torino, Loescher, 1872,
p. 345). Contro questi due ultimi critici, che dell' Algarotti giu-
dicavano « con tanto insensato disprezzo », si scagliò il Giordani,
scrivendo ad un amico: «Vorrei che tu conoscessi abbastanza la
prima metà del secolo passato, assai bene rappresentata dall'Al-
garotti. È scrittore secco e freddo, e un po' stentato; ma impor-
tantissimo per la copia e varietà delle cose.... Devi leggere tutta
l'edizione veneta.... Questa lettura (comprese le molte lettere)
t'insegnerà molte cose, senza fatica e con diletto.... Vedrai se non
è vergogna ignorare tutto quello ch'egli c'insegna» (Opere, VII,
131). Anche a noi sembra che da tal lettura non si esca digiuni,
e che ad ogni modo, giovi conoscere e studiare nell' Algarotti,
scrittore di spirito e amabil dotto, certe forme ben caratteristiche
del pensiero italiano nel secolo scorso.
Importante è senza dubbio la sua corrispondenza, che com-
prende nove interi volumi della raccolta delle sue opere. Vi figura
il carteggio vicendevole con sovrani (Benedetto XIV, Federigo II,
i |)rineipi reali di Prussia, il principe di Brunswick ee.) e con uomini
illustri d'Italia (il Manfredi, gli Zanetti, il Metastasio, il Bettinelli,
lo Spallanzani, il Mafl'ei ce), o di fuori (il card, di Bernls, Mauper-
tuis, mad. du Iiocage,mad. du Chàtelet, il Formey, il Voltaire ec.).
Per compiere questo carteggio sarebbe da cercare specialmente
l'epistolario Cicogna del museo Correr di Venezia, l' autografo-
teca Campori nell' Estense, la raccolta dei mss. llercolani della
comunale di Bologna; e qualche cosa resta forse ancora da spigo-
lare nelle carte algarottiane della liiblioteca di Treviso.*
L'edizione migliore e più copiosa delle sue Opere è quella
procurata dall'ACtLiETTi, Venezia, Palese, 17*.)1-U4, 17 voi. Tre vo-
lumi di Opere scelte raccolse per la collezione dei Classici Giov.
GilEUARDiNl, Milano, 1823; un volumetto di Lettere filologiche,
Bart. Gamba, Venezia, Alvisopoli, 1820.
[Per la biografia, veggansi quelle di V. C. Alberti, De vita
et scriptis F. A., Lucae, Kiccomini, 1771 ; di N. Dalle Laste
nel volume V delle Vitce Italor., p. 304 ; di G. B. GlOViO, in Opere
del C. F. A., Cremona, Manini, 1778, t. X; le Memorie intorno alla
* Vedi Alcune lettere di O. M. Ortea a F. A., pubblicate dal Cadori.v,
Venezia, Alvisopoli, 1S40; quattro biglietti inediti del Voltaire pulddicati
da A. FiAMMAZ'/o nella JliLIint. delle acnolc tini., Y, 120; e soprattutto la
Corrmpoìnl liner de Frfderic 11 nvec le e. A., l)ubl)licata dal MlNtTOM, Ber-
lin, Gropius, 1837. Altre diciotto lettere ai)partcnenti a questo carteggio
trovansi nei voi, II e IH della pubblicazione ofRciale della Con-enpondoìice
</.' Fif'il.Il, Berlin, iiupiini. royale, 18.')1.
272 SECOLO XVIII.
vita e afjli scritti di lui di D. MicliELESSi, che precedono la ci-
tata ediz. veneta, e il già ricordato articolo dell' Ugoni nella CW-
iinuazione ai secoli del CoiiNlANi, ediz. Pomba, V, 81.]
I più insigni pittori. -— Il celebre De Piles, clic tanto illu-
strò co' suoi scritti la pittura, si avvisò di formare una pit-
torica bilancia, con cui pesare sino a uno scrupolo il merito
di ciascun pittore. La parti in composizione, disegno, colo-
rito ed espressione : e in ciascuna di queste parti assegnò ad
ognuno quel grado che più credette se gli convenisse, secondo
che più meno andò vicino al vigesimo, che in ciascuna
parte è il segno dell' ultima perfezione, il grado delT ottimo:
di modo che dalla somma dei numeri, che nelle varie parti
della composizione, del disegno, del colorito e della espres-
sione, esprimono il valore di questo o di quel maestro, si
venisse a raccogliere il valor suo totale nell'arte, e quindi
veder si potesse in qual proporzione di eccellenza si stia
Tuno in verso dell'altro. Parecchie difficoltà intorno al modo
di calcolare tenuto dal De Piles furono mosse da un cele-
bre matematico de' nostri giorni, il quale vuole tra le altre
cose, che il prodotto dei sopraddetti numeri, non la somma,
sia la espression vera del valor del pittore. Non è questo
il luogo di entrare in simili materie, nò di gran profitto
sarebbe all' arte il minutamente considerarle. Quello che a
noi importa, è che in qualunque modo si proceda nel cal-
colo, i gradi che a ciascun pittore si assegnano nelle dif-
ferenti parti della bilancia, tali sieno veramente quali a lui
si competono né più né meno; che per ninno si parzialeggi,
come a favore del caposcuola de' Fiamminghi ha fatto il
De Piles : onde quello ne risulta che a tutti dovrà parere
assai strano ; e ciò è, che nella sua bilancia Raflaello e
Rubens tornano di un peso perfettamente eguale.
Raffaello per consentimento oramai universale ha ag-
giunto quel segno cui pare non sia lecito all' uomo di ol-
trepassare. La pittura risorta in qualche modo tra noi,
mercè la diligenza di Cimabue, verso il declinare del se-
colo decimo terzo, ricevè di non piccioli aumenti dall'inge-
gno di Giotto, di Masaccio e d'altri: tantoché in meno di
dugento anni arrivò a mostrare qualche bella fattezza nelle
opere del Ghirlandai, di Gian Bellino, del Mantegna, di Pie-
tro Perugino, di Lionardo da Vinci, il più fondato di tutti,
uomo di gran dottrina, e che il primo seppe dar rilievo ai
dipinti. Ma con tutto che in varie parti d' Italia avessero
questi differenti maestri portato innanzi l' arte, seguivano
però tutti a un dipresso la stessa maniera, e si risentivano,
chi più e chi meno, di quel fare duro e secco, che in tempi
ancor gotici ricevè la pittura dalle mani del suo restaura-
tor Cimabue : quando dalla scuola del Perugino uscì Raf-
faello Sanzio urbinate, e con lo studio eh' ei pose nelle opere
FRANCESCO ALGAROTTI. 273
dei greci, senza mai perder d'occhio la natura, venne a dar
perfezione air arte, e quasi V ultima mano. Ha costui, se
non in tutto, in parte grandissima almeno ottenuto i tini,
che nelle sue imitazioni ha da proporsi il pittore: ingannar
rocchio, appagar T intelletto e muovere il cuore. K tali sono
le sue fatture, che avviene assai volte a chi le contempla
di non lodar nò meno l'arte del maestro, e quasi non vi
por cura, standosi tutto intento e rapito neir azione da osso
imitata, a cui crede in fatti di trovarsi presente. Bene a
Uafl'aello si compete il titolo di divino, con cui viene da
ogni gente onorato. Chi per la nobiltà e aggiustatezza della
invenzione, per la castità del disegno, per la elegante na-
turalezza, per il fior della espressione lo meritò al pari di
lui, e per quella indicibile grazia sopra tutto, più bella an-
cora della bellezza istessa, con cui ha saputo condire ogni
cosa? Carlo Maratti in quella sua stampa della Scuola, dove
ha simboleggiato ciò che è necessario ad apprendersi dal
pittore, perchè e' divenga eccellente nelT arte sua, ha posto
le tre Grazie neir alto di quella col motto :
Senza di uoi ogni fatica ò vana.
In efìetto, senza di esse scuro è, per cosi dire, il lume della
pittura, insipida ogni attitudine, goffa ogni movenza ; esse
danno (luel non so che allo cose, (jucir attrattiva che è cosi
sicura di vincer sempre, come di non esser mai ben divi-
nità. In alto le ha poste il Maratti, e discendenti dal cielo,
a mostrare che la grazia è un dono effettivamente ch'esso
cielo fa all'uomo, e che quella gemma che di tanto impre-
ziosisce le cose, può bene dalla diligenza e dallo studio es-
ser ripulita, ma con tutto l'oro della diligenza e dello stu-
dio, come altri disse, non si potrà comperare giammai.
Benché Raffaello potesse vantarsi, come l'antico Apelle,
a cui fu simile in tante altre parti, che non fu chi lo egua-
gliasse nella grazia, vi ebbe nondimeno per rivali il Par-
nìigianino e il Coreggio. Ma 1' uno ha oltrepassato il più
delle volte i termini della giusta simmetria, l'altro nella
gastigatezza del dintorno non è giimto a toccare il segno;
e sogliono cadere amendue, massime il primo, nell'affet-
tazione. Se non che al Coreggio si può quasi perdonare ogni
cosa per la grandiosità delia maniera, per quell'anima cho
ha saputo infondere alle figure, per la soavità e armonia
del colorire, per una somma finitezza, che fa anche dalla
lungi il più grande effetto, per quella inimitabile facilità e
morbidezza di pennello, onde le sue opere pajono condotto
in un giorno e vedute in uno specchio: del che è la più
chiara riprova la tanto celebre tavola del San Girolamo, che
è in Parma; forse il più bel dipinto che uscisse mai di mano
di uomo. Ebbe fra tutti il vanto di essere stato il primo a
dipingere di sotto in su, al che non si ardi Raffaello; uomo
per altro di costumi cosi semplici, come ne fu rara la virtù.
274 SECOLO XVIII.
Dello stile del Coreggio traluce alcun raggio nelle opere
del Baroccio, benché egli facesse suoi studj in Roma. i\on
tirava segno senza vederlo dal naturale ; per non perder
le masse, accomodava in sul modello le pieghe con gran-
dissime piazze; ebbe un pennello do* più dolci, e mise fra" co-
lori un accordo grandissimo: cosi però, che da lui furono
alquanto alterate le tinte naturali con cinabri ed -azzurri,
e col troppo sfumare fece talvolta perder corpo alle cose.
Nel disegno la diligenza superò il valore di assai: e piut-
tosto che la eleganza de' greci e del suo compatriota Raf-
faello, cercò nelle arie delle teste la grazia lombarda.
Lontano da ogni graziosita fu Michelagnolo, disegnatore
dottissimo, profondo, pieno di severità, atteggiator fiero, e
apritore nella pittura della via più terribile.
Alla grande maniera di costui, piuttosto che alla ele-
gante naturalezza di Raffaello suo maestro, parve acco-
starsi Giulio Romano, spirito animoso e pieno di eruditi e
peregrini concetti.
E quella istessa grande maniera dandosi a seguire lo
Sprangher ed il Golzio, capisquadra tra i tedeschi, storsero
in istrani atteggiamenti le lor figure; ne fecero troppo ri-
sentiti i contorni, troppo alterate le forme ; diedero serio-
samente nel ridicolo della caricatura.
Con maggior discrizione di giudizio, dietro alle orme di
Michelagnolo, camminò la schiera de' fiorentini, a quel
maestro specialmente devoti. Da essa però si scompagna, e
si compiace andarsene solo, Andrea del Sarto. Fu del natu-
rale osservator diligentissimo, facile nel panneggiare, soave
nel dipinto ; e forse tra' toscani avrebbe la palma, se non
glie la contrastasse Fra Bartolommeo, discepolo e maestro
insieme di Raffaello. Alla gloria di costui basterebbe il
San Marco del palazzo Pitti, alla quale opera niuna manca
delle parti, o quasi niuna, che costituiscono uno eccellente
pittore.
Tiziano, a cui Giorgione apri gli occhi nel!' arte, è mae-
stro universale. Potè animosamente far fronte a qualunque
soggetto gli occorresse di trattare ; e in ogni cosa che ad
imitare intraprese, ha saputo imprimere la propria sua na-
turalezza. Che se nel disegno fu superato da alcuni, quantun-
que nei corpi delle femmine soglia essere assai corretto, e
i suoi puttini siano stati per le forme studiati dai più gran
maestri ; nella scienza del colorire, come nel fare i ritratti
e il paese, non fu da niuno uguagliato giammai. Grandis-
simi furono gli studj eh' ei fece sopra il vero, eh' ei non
perdette mai di vista ; grandissime le considerazioni per
giugnere a convertire in sostanza, dirò così, di carne i co-
lori della tavolozza; ma la maggior fatica eh' e' durava, era
quella di coprire, come diceva egli medesimo, e di nascon-
dere essa fatica. Non furono vani i suoi sforzi ; la seppe
talmente nascondere, che spirano le sue figure, pregne di
I
I
FRANCESCO ALGAROTTI. 275
succo veramente vitale; si direbbon nate, non fatte. Due fu-
rono le sue maniere, per non parlare di una terza tirata via
di p^rosso, a cui si diede già veceliio. Kstreniiimente condotta
ò la prima; non tanto la seconda ; l'una e l'altra preziose.
Capo d'opera della prima è il Cristo delia moneta, di cui si
veggono tante copie, e che dall' Italia è novellamente passato
ad arricchire la Germania. Tra le più insigni fatture della
seconda è la Venere della galleria di Fiorenza, rivale della
greca in marmo, che nel medesimo luogo si ammira; e
quello inestimabile quadro del Saii Pietro martire, in cui
confessarono i più gran maestri non ci aver saputo trovare
ombra di difetto. Eguale alla virtù ebbe Tiziano la fortuna ;
e fu da Carlo V grandemente onoi-ato, come da Leone X
il fu Raffaello, il Vinci da Francesco I, tra le cui braccia
mori, e da Enrico Vili TOlbenio, che, non inferiore nella
pratica dell'arte al Vinci, siede principe della scuola, tedesca.
In quel medesimo tempo tanto alla pittura propizio, si
distinse Jacopo Hassano per la forza del tignere. Pochissimi
seppero al pari di lui fare quella giusta dispensazione di
lumi dall'una all'altra cosa, e quelle felici contrapposizioni,
pei" cui gli oggetti dipinti vengono a realmente rilucere.
Egli si potè dar vanto di avere ingannato un Annit)ale Ca-
racci, come già Parrasio ingannò Zeusi ; ed ebbe la gloria
che non da altri che da lui volle Paolo Veronese che ap-
prendesse Carletto suo figliuolo i principi del colorire.
Paolo Veronese fu creatore di una nuova maniera, che
ben tosto ebbe in sé rivolti gli occhi di tutti. Scorretto nel
disegno, e più ancora nel costume, mostrò nelle sue opere
una facilitjì di dipingere da non dirsi, e un tocco che in-
namora. Quanto di vago gli veniva mai veduto, quanto di
bizzarro sapea concepir nella fantasia, tutto entrar dovea
ad ornare le sue composizioni : e niente lasciò egli da banda,
che straordinarie render le potesse, magnifiche, nobili, ric-
cl»e, degne de' più gran signori e de' principi, pe' quali sin-
golarmente pareva che egli maneggiasse il pennello. Quei
suoi quadri ornati sempre di belle e sontuose fabbriche,
uno non è contento solamente a vedergli ; vi vorrebbe, a
dir cosi, esser dentro, camminargli a suo talento, cercarne
ogni angolo più riposto. Ogni cosa nelle opere di Paolo è
come un incantesimo ; e ben di lui si può dire che piac-
ciono fino ai difetti. Ebbe in ogni tempo del suo valore am-
miratori grandissimi ; ma ò ben da credere che gli avriano
sopra tutte toccato il cuore le lodi colle quali era solito
esaltarlo Guido Reni.
A ninno tra' veneziani è inferiore il Tintoretto in quelle
opere che non ha tirato via di pratica, o strapazzate, per
dir meglio, ma nelle quali ha voluto mostrar quello che sa-
peva. Ciò ha egli fatto in parecchie di esse, e nel Martirio
singolarmente che è nella Scuola di San Marco, dove è di-
segno, colorito, composizione, effetti di lume, mossa, espres-
K
276 SECOLO XVIII.
Sion '., al sommo grado recato ogni cosa. Appena usci quel
quadro nel pubblico, che levò tutti in ammirazione. Lo stesso
Aretino, cosi grande amico di Tiziano, che presa ombra del
Tintoretto lo avea discacciato dalla sua scuola, non potè
contenersi dal metterlo in cielo. Scrive egli al Tintoretto,
avere quella pitticra forzato gli applausi di qualunque
persona si fosse ; non essere naso, per infreddalo che sia,
che non senta in qualche parte il fumo dell' incenso. Lo
spettacolo, aggiunge ^ pare piuttosto vero che fìnto: e beato
il nome vostro, se riduceste la prestezza del fatto in la
pazienza del fare.
Dopo questi sovrani maestri, che solo ebbero per guida
la natura, o, ciò che in essa fu imitato di più perfetto, le
greche statue, vennero quegli altri artefici, che non tanto si
fecero discepoli della natura, quanto di questi stessi maestri,
che poco tempo innanzi ristorato aveano Tarte della pittura e
rimessa nelF antico suo onore. Tali furono i Caracci, i quali
cercarono di riunire nella loro maniera i pregj delle più
celebri scuole d'Italia, e fondarne una nuova, che alla ro-
mana non la cedesse per la eleganza delle forme, alla fio-
rentina per la profondità del disegno, né per il colorito alla
veneziana e alla lombarda. Sono queste scuole a guisa, dirò
così, dei metalli primitivi nella pittura ; e i Caracci, fon-
dendogli insieme, composero il metallo corintio, nobile bensì
e vago a vedersi, ma che non ha né la duttilità né il peso
né la lucentezza de' suoi componenti. E la maggior lode che
diasi alle opere dei Caracci, non si ricava quasi mai da un
certo carattere di originalità che presentino, per avere imi-
tato la natura ; ma dalla somiglianza, che portano in fronte,
del fare di Tiziano, di Raffaello, del Parmigianino, del Co-
reggio d' altri, nel cui gusto siano condotte. Non man-
carono del rimanente i Caracci di munire la loro scuola
de' presidj tutti della scienza, ben persuasi che l' arte non
fa mai nulla di buono per benignità del caso o per impeto
di fantasia; ma è un abito che opera secondo scienza e
con vera ragione. Insegnavasi nella loro scuola prospettiva,
notomia e tutto quello che condur poteva nella strada più
sicura e più retta. E in ciò dee cercarsi principalmente la
cagione, perché da ninna altra scuola uscì una così nume-
rosa schiera di valentuomini, quanto da quella di Bologna.
Tra essi tengono il campo Domenichino e Guido, pro-
fondissimo l'uno nell'arte e dotto osservatore della natura;
r altro inventore di un vago e nobile suo stile, che risplende
singolarmente nell' affettuosa bellezza, che seppe dare ai
volti delle femmine. Questi ebbe il grido sopra gli stessi Ca-
racci ; e a quello venne fatto di superargli.
Del latte di quella medesima scuola fu nutrito da prima
Francesco Barbieri detto il Guercino ; ma si formò di poi
una particolar sua maniera tutta fondata sul naturale e
sul vero, senza elezione delle migliori forme, e caricata di
ì
FRANCESCO ALGAROTTI. '217
un chiaroscuro da dare alle cose il maggior rilievo e ren-
derle palpabili. Di tal maniera, che a questi ultimi tempi fu
rimessa in luce dal Piazzetta e dal Crespi, fu veramente
autore il Caravaggio, il Kemhrante dell' Italia. A1ju."<ò costui
del detto di quel greco, quando, domandatogli chi fosse il
suo maestro, mostrò la moltitudine che passava per via;
tale fu la magia del suo chiaroscuro, che, quantunque
egli copiasse la natura in ciò eh' ella ha di difettoso e d'igno-
bile, ebbe quasi forza di sedurre anche un Domenichino ed
un Guido. Del Caravaggio seguirono il fare due celebri spa-
gnuoli ; il Velasquez, tra esso loro caposcuola, e il Ribera
domiciliato tra noi, da cui appresero dipoi i principj del-
l'arte il bizzarro Salvator Rosa, e quel fecondissimo spirito,
proteo e fulmine nella pittura. Luca Giordano.
Di mezzo tra i maestri della scuola bolognese e i primi
delle altre scuole d' Italia, è il Rubens principe della fiam-
minga, uomo di spiriti elevati, il quale fu veduto pittore
e ambasciatore ad un tempo, in un paese, che non molti
anni dipoi innalzò uno de' maggiori suoi poeti a segretario
di Stato. Sorti il Rubens da natura uno ingegno somma-
mente vivace e una facilità di operare grandissima, a cui
venne in ajuto la coltura della dottrina. Studiò anch'esso
i r.ostri maestri, Tiziano, Tintoretto, Caravaggio e Paolo,
e tenne di tutti un poco ; cosi però che predomina la par-
ticolar sua maniera, una forza e una grandiosità, di stile,
che è sua propria. Fu nelle movenze più moderalo del Tin-
toretto, più dolce nel chiaroscuro del Caravaggio ; non fu
nelle composizioni cosi ricco, né cosi leggiadro nel tocco
come Paolo ; e nelle carnagioni fu sempre meno vero di
Tiziano, e meno delicato del suo proprio discepolo Vandike.
Con poche terre arrivò, come gli antichi maestri, a com-
porre una varietà di tinte incredibile; seppe dare a' colori
una maravigliosa lucidità, e non minore armonia, non ostante
l'altezza del suo tingere. Nel paese in cui dopo l'Italia al-
lignò maggiormente la pittura, egli si trova come alla testa
di uno esercito di professori di (juest'arte; e quivi il suo
nome risuona in ogni bocca, dà fiato, per così dii-e, ad ogni
tromba. In egual fama sarebbe salito anche tra noi, se la
natura gli avesse presentato in Fiandra oggetti più belli,
o se dietro agli esemplari dei greci avesse saputo purgar-
gli e correggergli.
Delle opere di costoro fu sovra ogni altro studioso il Pus-
sino, il primo tra i francesi : e sugli antichi marmi andò
a cercar l'arte del disegno, dove, per dar legge ai moderni,
dice un savio, ella siedo reina. Iviuna avvertenza, ninna
consider.izione, ninno studio fu da lui lasciato indietro nello
scegliere, nel comporre i suoi soggetti, nel dar loro anima,
nobiltà, erudizione. Avrebbe eguagliato RalVaello, di cui se-
guiva le vie, se con lo studio altri conseguir potesse natura-
lezza, grazia, disinvoltura e vivacità. Ma in clletto non giunse
278 SECOLO XVIII.
che a fatica ed istento ad operare quanto operava Raffaello
con facilità grandissima; e le figure dell'uno sembrano con-
trallare quello che fanno le figure dell' altro. — (Dal Saggio
sopra la Pittura, § 17 in Opere del conte Algarotti, edizione
novissima. Tomo III. In Venezia, MDCCXCI, presso Carlo
Palese, pp. 218-36.)
Da Londra e Helsingor, Lettera a Lord Hervey, 10 giu-
gno 1739. — Dopo diciannove giorni di fortunosa naviga-
zione, ecco finalmente che abbiam dato fondo nel Sund. E
già parmi esser certo, mylord, che per assai meno acci-
denti, che noi non incontrammo in questo nostro tragitto,
furono fatti e si faranno tuttavia dei giornali. Ogni viag-
giatore, Ella ben sa, facilmente si persuade, e sì vorrebbe
persuadere altrui, che i mari ch'egli ha corso sono i più
pericolosi : che le corti eh' egli ha veduto sono le più bril-
lanti del mondo ; e non manca di tenere di ogni cosa un
esatto registro.
10 potrei incominciare anch' io dal narrarle che il dì ven-
tuno del passato mese femmo vela da Gravesend sulla frega-
tina galea The Augusta, che, come il fascilo di Catullo, po-
trà dire, quando che sia, fuisse navium celerrimus. Il vento
era est ; brutto augurio per il nostro viaggio. L'augurio mi-
gliore era il mio mylord Baltimore padrone della nd.\e, anima
candidissima, come Ella sa ; e la compagnia che vi trovammo
a bordo. Era questa formata di un giovane Desaguliers, che
suo padre mandava in mare perchè apprendesse la pratica
della navigazione, e del signor King, rivale del Desaguliers
medesimo, che avea a mylord chiesto il passo per Petro-
burgo, sperando di far quivi un corso di fisica sperimen-
tale a quella imperadrice, che non so quanto avrà fantasia
di vederlo. Onde Ella può ben credere che non siamo senza
un bello apparato di macchine per dimostrare a tutte le
Russie il peso dell'aria, la forza centrifuga, le leggi del
moto, la elettricità, gì' inventi e i giocolini della filosofia.
Non siamo neppure, che è assai meglio, senza una buona
provvisione di limoni e di scelti vini : e, ciò che è il compo-
nimento d'ogni delizia, in nave inglese il cuoco è francese.
Da lì a poche ore dello aver salpato gittammo l'ancora,
potrei continuare, a due o tre miglia da Shirnesse, dove
gli Olandesi, nelle guerre eh' ebbero con Carlo II, vennero a
mettere il fuoco a' vascelli che ivi si trovavano. E mi ri-
cordai allora di quei versi di Barnwell, che paragonano
Nerone, che, mentre ardeva Roma, suonava la lira, e il
re Carlo, che suonava, vedendo arder la sua flotta, non so
che altra sonata.
11 dì ventidue convenne di nuovo gittar l'ancora in fac-
cia di Harwich non lontano dallo Spigwash, dove fecero
naufragio il re Jacopo e il duca di Malborough, e fu vicina
a perire la gloria del nome inglese, JShiUum sine nomine
FRANCESCO ALGAROTTI. 279
saxum si può dire di cotesti suoi mari, iu altro senso elio
si dice della campa^nia di Roma.
La più memorabil cosa che sino allora ci avvenisse, fu
di trovarci quasi in mezzo a una llottu di carbonaj, che fa-
cevano vela a Newcastle. La strana cosa, che è una simile
(lotta ! Le navi sono tutte nere, neri i marinaj, nere le vele,
of^ni cosa è nero. Si direbbe che è la flotta di Satanasso.
Ma il fatto è che cotesti vascelli carbonaj, che montano,
mi fu detto, per lo meno a quattrocento, non sono di mi-
nore importanza di quelli, che vanno alla pesca de' mer-
luzzi sul banco di Terranuova. Contendono il seminario
della marinaresca inglese ; e con saggio consiglio fu dal
loro Parlamento provveduto che il carbone non si dovesse
altrimenti dalle miniere di Newcastle carreggiare per terra.
Dalla quantità poi e dalla mole di simili vascelli ben si com-
prende il gran consumo, che se ne fa nelle parti meridio-
nali del regno ; e come, mercè T ajuto principalmente di
una tassa posta sul carbone, siasi nello spazio di soli tren-
tacinque anni edificato San Paolo, che costò poco meno di
un milione stcrliiio.
11 giorno ventitré lasciammo Yarmouth e la Inghilterra
per poppa: terrcrque, urbcsque recedunt; e in quel giorno
ebbi per la prima volta in mia vita, non so se dica il pia-
cere o il dispiacere, di vedermi come isolato nel mondo.
Altro non si vedeva intorno, nisi poìitus et acr. Il vento
venne sud-ouest verso la sera, che era un piacere : si gittò
il locj ; e domandato quanto cammin facessimo, mi fu ri-
sposto, due leghe l'ora. Mi accorsi che usciti in alto mare
non più si parlava a miglia, come nel Tamigi, ma a leghe.
K mi parve che i marinaj, che sono simili ai giuocatori per
le gran fortune che corrono, sono anche loro simili in que-
sto, che non si perdono a contare così per minuto.
In mezzo a tali rillessioni cangiò la scena, come era do-
vere. Chi va in mare, aspetti mal tempo. Io non le starò
a far la descrizione di una burrasca, che ci sbattè per sei
giorni continui. La potrà vedere in Omero o in Virgilio;
e creda pure, mylord, che non mancò il terque quaterque
beati per coloro ch'erano in terra; né mancò il que diable
alloit-il faire dans cette mavdite galère?- quando io mi
vedeva ora in cima, ora in fondo di una gran lama di acqua ;
(juando io vedeva l'oceano trasformato, per quanto arri-
vava l'occhio, in nove o dieci vastissime montagne, ben dif-
ferenti dalle collinette, dirò cosi, del nostro mediterraneo.
Basta, che dopo aver navigato qualche tempo per aflerrare
Newcastle, si mutò consiglio ; e il giorno trenta si venne
finalmente a surgere * all'isola di Schelling in Olanda, e il
dì seguente ad Harlinguen, assai meglio provvista delle cose
necessarie alla vita, che non è Schelling.
' Approdare,
h
280 SECOLO XYIII.
Della cifta (l<illa Olanda, VAÌa ben il sa, inylorJ, che si
può dire : Vedine una, vistele tutte ; casamenti per tutto
della stessa maniera, strade a tilo, alberate, canali, net-
tezza che va allo scrupolo, e i terrapieni delle mura tenuti
come un giardino in Inghilterra. Tale è Harlinguen, donde,
fatte nuove pi'ovvisioni, levammo l'ancora il primo di que-
sto mese. E con buon vento di sud-ouest usciti dalle sec-
cagne e da'bouys, che anche su quelle coste ne è dovizia,
femmo da tre buone leghe V ora lino alla mattina del se-
guente di. Quando in un subito (vegga anche (jui Virgilio
su bel principio)
slridena aquilone procella
Velum adveraa ferii ; tuni prora avertit, ci undis
Dai tatua insequitur cumulo prceriqìlus aqurn mons.
Il mare combattuto da due venti entrava per tutto e ci
assaliva da ogni parte. Uno dei pezzi di ferro di che è com-
posta la zavorra, per la grande agitazion del navilio, era
sdrucciolato a orza. Non ci era via di rimetterlo in suo nic-
chio ; ^ il bastimento orzava^ sempre, e riceveva più acqua
che non se ne potea trombare. Erasi già preso di tagliar la
metà dell'albero di maestra, che per la straordinaria sua
altezza dava al corpo della nave un grandissimo grezzo, ^
quando il mare ricominciò a rimettersi in calma, e divenne
quasiché spianato il dì quattro. Il dì cinque, buon vento ;
il sei, si giudicò da un'osservazione dell'altezza del sole,
non però molto esatta, che noi fossimo a cinquanta otto
gradi di latitudine ; e verso sera fu da noi veduta a sud-est
la terra di Jut ; ma non si potè dipoi a cagion della neb-
bia, da noi vedere il Scha-Rif. E cotesto Scha-Rif, che è la
punta del Jutland, la quale spartisce le acque dell'oceano
e del Cattegate, da noi si cercava, le so ben dire, e cogli
occhi e col cuore. Finalmente, averlo noi superato ce ne
avvertì jer 1' altro lo scandaglio. Jeri lasciammo dal lato
mancino, volli dire più propriamente all' est, le montagne
e la costa di Halland, tanto terribile a' naviganti, perchè si
fìcea giù a piombo in mare, senza lido e senza tenitore : *
e a quattr'ore dopo il mezzodì demmo fondo qui a Helsingor.
Tutte queste cose, mjdord, potrei narrarle, se io volessi
fare il giornale del nostro viaggio ; e non gli manchereb-
bono a un bisogno degli ornamenti o ricci scientifici. Potrei
dirle, per esempio, che il ventitré del passato mese, verso
la mezza notte apparve un' aurora boreale in guisa d' arco,
la cui sommità guardava l' ouest^ venendo, per quanto io
* Al suo posto. - Piegava a sinistra.
^ Forse, trasportando qui l'effetto alla causa, vuol significare che la
natura greggia dell' albero, piantato così coni' era nella nave, la faceva
pendere, strapiombare.
* Jjuogo opportuno a tenerci, a fermarci l'ancora.
FRANCESCO ALGAROTTI. 281
ne potei Iure stima, ad essere intersecata dallo azimutli
(lolla declinazione della bussola, che cade dall' ouest di dieci
a dodici gradi. K ciò consuona con quanto io udii già a Green-
\vicli dal vecchio loro Kudosso, dall' Ilallejo, che co' poli di
quel suo terrestre nòcciolo va trovando delle relazioni, cos'i
(iella direzione della calamita, come della emissione di quel
vapore, che forma le aurore boreali
Ma che le dirò io, mylord, di questa terra, di cui Ella
ha più vaghezza d'intendere, che delle venture e dei feno-
meni di mare? Io vorrei trovare qualche boi passo di Vir-
gilio per descriverle la bella situazione di Helsingor, come
gli ho avuti belli e trovati per descriverle le nostre bur-
rasche. Il mare qui si tìcca tra la Danimarca e la Svezia, ed
è largo da due miglia, appresso a poco come il Tamigi a
Gravesend ; non ha corrente veruna, come hanno gli altri
stretti ; salvo se spiri aorte o sud, eh' ei guarda per di-
ritto ; che allora rapidissima è la corrente, e va ora per
un verso ed ora per l' altro, secondo la balia del vento.
Le coste della Svezia sono assai selvagge ; domestiche al-
l' incontro e amene sono le coste danesi, o sia del Zeeland ;
e se tali fossero altre volte state, già non le avrebbono
abbandonato i Teutoni per cercar nuove sedi e dar briga
ai nostri Marii. La verità si è, che al di d' oggi potrebbono
quasi gareggiare con le campagne d' Inghilterra. Bei bo-
schetti, collinette dolci, prati che discendono sino al mare,
un verde smeraldino. Sorge pittorescamente sulla spiaggia
il magnifico castello di Cronembourg coperto di rame, che
in mezzo alla sua cittadella signoreggia il Sund, e guarda
come d'alto in basso la povera Heisenberg, che sulla riva
opposta rende anch'essa il saluto a' vascelli, ch'entrando
nel Sund salutano il Durdanello danese. Povera veramente ?
se non che di una cosa può gloriarsi, ed è, di aver veduto
dalle sue torri i veterani danesi disfatti da' contadini di
Svezia sotto la condotta dello Steinbofk, a' tempi di Carlo XII.
Quantità di legni, forse un centinajo, sono qui all'an-
cora insieme con noi, parte che vanno e parte che ven-
gono ; e ne arriva a ogni istante di nuovi
Si fa stima che un anno con l'altro ne passino da due
mila ; seicento svezzesi, e questi per 1' ultimo trattato con
la Danimarca pagano anch' essi, che altre volte non paga-
vano ; mille olandesi, i quali da' loro marosi vanno nel Nord
a cercar tavole, ferro, pece, canape, grano, quasi ogni cosa
che è necessaria alla vita; tre o quattrocento inglesi ; tre
o quattro francesi, non più ; alcuni pochi di Lubecca, città
ora molto decaduta^dair antico suo splendore; alcuni di
Danzica, che la ancora qualche figura ; e due o tre russi, i
quali, non molti anni fa, simili agli americani, ponevano
la nautica tra le arti d' un altro mondo.
Non lungi dalla nostra nave ha dato fondo questa mat-
tina un vascello appunto di quella nazione come un grosso
282 SECOLO xviir.
corpaccio alla olandese, il cui padrone è russo, e russa è
pure tutta la ciurma, a quello che ci ha detto il capitano
delia fregata danese, uomo molto pulito e molto instrutto
delle cose di questo emisfero boreale. Non posso dirle il
piacere che io sento, mylord, a veder questi nuovi oggetti,
che mi fanno credere di essere come trasportato in un altro
mondo. Ci siamo qui rifatti con buone provvisioni, e, a casa
il console inglese, d'ogni disagio patito; in somma
Excepto quod non simul ennes, caetera laetns.
Ma ecco che ci mettiamo in punto per salpare. Io chiudo
questa mia, e la mando al Console, che gliela farà sicura-
mente pervenire a Saint-James. Non si scordi, mylord, di chi
navigando al nord-est, pure di tanto in tanto rivolge gli
occhi a quel rombo della bussola, che a lei fra non molto
mi ricondurrà. -— (Dalle Opere, ec., tomo VI, p. 19.)
Pietroburgo, Lettera a Lord Hervey, 30 giugno 1730.
— Dal norte io vengo a lei, mylord, le più spesse volte
eh' io posso. Né lascerò andar certamente questo corriere
senza darle novella di me, aspettando pure di riaverne
quanto prima di lei. Ma qual cosa le dirò prima, qual
poi, di questa città, di questo gran finestrone, dirò così,
novellamente aperto nel norte, per cui la Russia guarda
in Europa? Noi arrivammo a Petroburgo questi passati
giorni, dopo passatine due a Cronstat appresso T ammi-
raglio Gordon. La nave ci convenne lasciarla a Cronstat,
come quella che pesca undici piedi in circa, e poco più là
avria potuto risalire di Peterhoff. Rimontammo adunque il
Neva in una bella e adorna barca dataci dall' ammiraglio.
Sette mesi dell'anno è il Neva una via per le barche, e
gli altri cinque per le slitte. Aveane il Czar una tra le altre
tagliata a guisa di schifo. Con essa quando il vento tirava
da esty ovvero da ouest, imboccando direttamente il letto
del fiume, andava e veniva sul ghiaccio a vela a far sue
marinaresche faccende da Petroburgo a Cronstat, e da Cron-
stat a Petroburgo. La slitta o schifo la governava con una
specie di timone, simile a quel bastone ferrato con che sul
Moncenis governano le ramazze.^ Così egli avea il piacere
di navigare anche in terra. Ma il maggior piacere che sen-
tisse di vita sua, fu quando egli rimontò il Neva trionfante,
dopo battuta a Gange nel 1714 l'armata svezzese, traendo-
sene dietro buona parte con l' ammiraglio prigioniero. Vide
egli allora consumata veramente l' opera sua. Una nazione
che alcuni anni innanzi non avea neppure una scialuppa
nel Baltico, divenne signora di quel mare ; e Pietro Mi-
chaeloff, già falegname in uno scoerro di Amsterdam, me-
ritò per tal vittoria di esser promosso a grado di vice-
* Nome delle slitte che si usauo nel discender il Cenisio,
FRANCESCO ALGAROTTI. 283
ammiraglio delle Russie : commedia piena d' instruzione,
come altri disse, e che avrebbe dovuto essere rappresentata
alla presenza di tutti i re della terra. Questa via trionfale
adunque, questa via sacra del Neva rimontammo ancor noi,
che non è per altro ornata nò di archi nò di tempj ; ma
da Cronstat sino a Petroburgo è di qua e di là fiancheg-
giata da un bosco ; e questo non di fronzuti elei o di vivi
allori, ma della più brutta generazione di alberi che vegga
il sole. Sono una specie di pioppi, ben differenti da quelli
in cui trasformate furono le sorelle di Fetonte, e che om-
brano le rive del Po. In vano stemmo noi in orecch; per
udire il melodioso canto di quelli uccelli, di cui giti volle
popolare il Czar
Questa selva selvaggia ed aspra e forte.
Ne fece trasportare quantità di colonie dalle parti meri-
dionali dell'imperio, le quali perirono ben presto qui senza
fare altrimenti nido :
i4t;»a non reaonant avìhus vìrgulta canoris.
Dopo aver vogato parecchie ore, non altro vedendoci
intorno che l'acciua e quel tacito e brutto bosco, ecco che
volta il fiume ; e nò più nò meno che all' Opera» ci si apre
dinanzi in un subito la scena di un' imperiai città. Sontuosi
edilìzj sull'una e l'altra riva del fiume, che gruppano in-
sieme ; torri con 1' aguglia dorata, che vanno qua e là pi-
ramidando ; navi che cogli alberi e colle loro sventolanti
banderuole, rompono co' casamenti e distinguono le masse
del (luadro. Quello è 1' ammiragliato, ci dicono, e l'arsenale ;
quella la cittadella; là ò l'accademia: da questa parte il
palagio d'inverno della Czarina. Arrivati a terra, venne a
riceverci il signor Grani mer, mercante inglese, appresso
cui alloggiammo ; uomo pulitissimo, e delle cose della Rus-
sia sommamente instrutto. E poco appresso avemmo la vi-
sita del signor Rondeau, ch^ da molti anni risiede qui per
la Inghilterra.
Entrati in Petroburgo, la non ci parve più quale la ci
pareva da lungi : forse perchè i viaggiatori son simili a' cac-
ciatori e agli amanti ; o forse perdio l' aspetto di lei non
era più ajutato dalla orridezza del bosco. A ogni modo, non
altro che bella può essere la situazione di una città posta
sulle rive di un gran fiume, e sopra varie isole che danno
campo ai varj punti di vista ed efi'etti di prospettiva. Assai
belle mostrano ancora di essere le fabbriche di Petroburgo,
chi ha negli occhi i casamenti di Revel e delle altre città
di questo settentrione. Ma il terreno su cui è fondata, è
basso, paludoso; l'immenso bosco dov' ella siede, non è
punto vivo ; non gran cosa buoni sono i materiali di che
ella è fabbricata ; e i disegni delle fabbriche non sono nò
di un Inigo Jones nò di un Palladio. Regna qui una ma-
284 SECOLO XVIII.
niera di architettura bastarda tra la italiana e la francioso
e la olandese; domina però la olandese. I-' non ò maravi-
^Vm. In Olanda fece il Czar, por cosi dire, i primi suoi
studj ; e a Sardam, quasi nuovo Prometeo, prese quel fuoco,
di cui animò dipoi la sua nazione. Pare in effetto che a
sola commemorazione della Olanda egli abbia trascelto di
fabbricare alla foggia di quel paese, di piantare albori a
lìlo nelle strade, di tagliar con canali la città, i quali non
hanno qui certamente queir uso, di che sono in Amsterdam
o in Utrecht.
Furono già dal Czar obbligati i hojardi e i signori del-
l' imperio a lasciare Moscou, non lungi dalla quale aveano
i loro poderi, a seguir la corte e a qua trasferire anch' essi
la sede. La più parte vi hanno fabbricato palagj lungo il
Neva ; e ben pare che sieno stati fondati per ordine sovrano,
piuttosto che per elezione, tanto le muraglie di essi fanno
pelo e corpo qua e là, e piene di scrupoli a mala pena si
reggono. Diceva non so chi, che le rovine si fanno altrove
di per sé ; qui si fabbricano. Conviene a ogni momento in
questa nuova metropoli rifondare edifizj, e per questa ca-
gione, e per le altre ancora di non buoni materiali e del
suolo infido. Che se fortunati hanno da dirsi coloro quorum
jam mcenia siirgunt, fortunatissimi dovranno dirsi i Russi,
che veggono risorgere le loro case più di una volta in vita
loro. La casa ove sianio alloggiati è delle meglio fabbricate
die sieno. Il signor Crammer, che se non l'ha edificata, è
volontariamente venuto ad abitarla in Petroburgo, se ne
prende ogni pensiero. Ella è situata sul lungarno, diciam
così, del Neva, e dentro ha tutta l'aria di un'abitazione
inglese — (Dalle Opere, ec, tomo VI, p. 70.)
Federigo Guglielmo I e la Prussia, Lettera a Lord Hervey,
30 agosto 1739. — Di Lipsia si passò al chiostro mi-
litare del re di Prussia, il famoso Posdammo. Si conserva
ivi quel reggimento di soldati che per la statura degli uo-
mini si può dire il fiore della specie umana. Sono cotesti
giganti, che, contando i soprannumerarj, montano al nu-
mero di quattromila, di ogni religione, di ogni paese. Non
vi ha però tra di loro disputa alcuna. Si è trovato il modo
di fare che gareggino soltanto fra loro chi fa meglio V eser-
cizio e le evoluzioni militari. Vedere a traverso un vetro
tagliato a faccette far 1' esercizio a un soldato, e vederlo
fare a costoro, egli è tutt' uno per la giustezza del tempo
e per la regolarità. Gli dicono occupati in troppe minuzie
nel maneggio delle armi ; belle un giorno di mostra, inu-
tili a una giornata. Autore della disciplina militare è il
principe di Aiihalt, che tanto brillò alla battaglia di To-
rino : benché quel reggimento é sempre sotto l' occhio del
padrone. Egli ne é propriamente il colonnello, come se ne
intitola egli medesimo, avendo egli detto anche a noi che
i
%
t^RANCESCO ALGAROTTI. 285
avremmo pranzato non alla tavola di un re, ma di un co-
lonnello elio sta presso al suo reggimento. Esso fa gran-
dissima parte de' suoi pensieri ; per esso arriva a profon-
dere. Como giù in Inghilterra non si guardava a molto
ghinee per un bel mezzo dito di margine più ilei consueto
in una edizione o in una stampa ; cosi lii non si guarda a
dieci e anche venti mila talleri per un palmo o due, che
abbia un uomo oltre la consueta misura. Il più bello in fo-
glio cho sia a Posdammo, è un certo Kaitland di sette piedi
e mezzo, impresso a Dublino, o in altra stamperia d' Irlanda
del mille settecento sedici. Quel reggimento in somma, è la
delizia del re : lo vede ogni mattina al caldo, al gelo mon-
tar la guardia, senza eh' egli slamai nimis longo satiatus
liccio. xUlora suol egli dare udienza, ammettere alla sua
presenza i forestieri. Onde fu chi disse il palco della sua
anticamera esser la terra, la volta il cielo. Come in alcuni
paesi s' impiccioliscono le razze dei cani, de' quali si fa traf-
lico, là s'ingrandisce la specie degli uomini che si vogliono
soldati ; e ciò con dare in moglie a quei giganti di Tosdammo
le donne più grandi, che si braccano, dirò cosi, a tal fine
in tutto il regno ; e unendo poi sempre insieme i più grandi
che ne vengono. Un palmo che abbia una donna più del
solito, e il re le dà la dote.
Oltre quel reggimento delle sue guardie, egli ha sessanta
e più mila uomini, tutti, se non cosi grandi, bellissima gente,
che pajono di una sola impronta. Gli arsenali di Stettino,
di Magdeburgo e di Wesel, le più importanti piazze ch'egli
abbia, ed anche quello della capitale, forniti di buonissima
artiglieria e nel miglior ordine : i cavalli per li traini già
belli e ammanniti da gran tempo e distribuiti alle vario
province, che in tanto non gli tengono oziosi ; pronti sem-
pre a mutare i lavori di Cerere con le fatiche di Marte.
Fatto ò, ch'egli può far marciare sulla frontiera un esercito
di cinciuanta mila uomini, con tutto quel che v'occorre, in
assai meno tempo che un nostro impresario in Italia non
mette in piedi un'opera in musica.
Riformatore fu veramente dello Stato, non altrimenti
che lo sarebbe del suo ordine un abate, il quale ricondu-
cesse i suoi monaci dagli ag.j della città a zappar la terra
su' campi. Sotto a Federigo suo padre il paese era dato alle
magnilicenze e alle gale, ed ei lo volle spartano. Con una
penna di ferro cassò gli stipendi inutili e le cariche di corte ;
pensando il lusso esser dannoso in un paese povero di de-
nari e non ricchissimo d'industria, e che senz' armi nume-
rose, ben disciplinate e proprie, non è il principe abba-
stanza rispettato in casa, ne ricercato fuori. Ila ottenuto
r uno e r altro. Ogni potenza vorrebbe averlo alleato ; e
ninno de' suoi sudditi, per grande che sia, vorrebbe aver
fallito innanzi a lui in un minimo che.
Quantunque la milizia sia il gagliardissimo suo pensiero,
h
28G SECOLO XVIIt.
e ogni cosa che lo circonda e lo seguita sia soldato, non
è però talmente intento alle cose di pura guerra, che non
lo occupi altro ancora. Le sue finanze sono regolate col
più perfetto contrappunto economico. Si parla per tutto del
suo erario, umore stiignante nel corpo politico, dicono i mer-
canti ; cassa militare, vita dello Stato, i soldati. K in un
vastissimo appartamento del palazzo di Berlino, quasi per
giunta dell'erario, si vedono talvolta sedie, lampadari d"ogni
sorta, balaustrate d'argento. Ogni cosa, per cosi dire, è
d' argento, come altre volte ne' palazzi dei re del Messico.
La Prussia e la Lituania eh' ei possiede, disfatte già dalla
peste, ei le ha rifatte, mandandovi colonie comperate ne'paesi
cattolici della Germania, dove i protestanti ch(3 ci ha, non
hanno libero esercizio della lor professione. E in quei climi
ha rilevate razze di cavalli, che hanno oramai gran riputa-
zione. Ha fabbricato quasi tutto Posdammo ; un tempio tra
le altre pei suoi soldati, dove vedesi la propria sua tomba
fiancheggiata a destra e a sinistra da Marte e da Bellona,
già da lungo tempo cacciati da' tempj. Ha accresciuto a di-
smisura Berlino, facendone di nuovo la metà, che dal suo
nome chiamasi Williewstat. Le case, a dir vero, non vi sono
così care né così abitate, come sono in Hannover' s Square.
Io preparo i nidi, die' egli ; quando che sia, ci verranno gli
uccelli a posare da sé. Peccato che questo principe avuto
non abbia a' suoi servigj un Palladio ! Il czar Pietro non lo
ebbe egli neppure ; e il defunto re di Sardegna, che tanto
ha fabbricato anch' egli la sua Torino, non sortì per archi-
tetto che un Giovara.
Non é poi r ultimo de' suoi pensieri l' agricoltura. A quel
modo che il Czar mandava ne'paesi forestieri i gentiluo-
mini ad impararvi la pulitezza o la marina, egli ne manda
in collegio alla campagna a studiarvi di fare fruttificar la
terra. Di vero, moltissimo egli ha promosso quest' arte, la
importantissima di tutte. E non maraviglia ; da che, oltre
al pane che ella dà a' soldati, egli possiede sotto titolo di
gentiluomo quantità di terre in ogni parte del suo regno,
che è tanto disseminato nella mappa. Ella sa, mylord, che
gli Ugonotti fuorusciti di Francia recarono anche a Berlino
le manifatture e le arti. Quella del lavorar l'acciajo vi è
portata a un grado eccellente ; e i panni altresì, sopra tutto
il bleu^ vi si fabbricano molto belli. Moltissimo incoraggisce
il re una tal manifattura. All'esempio della loro grande
Elisabetta, ha proibito sotto gravissime pene la sortita delle
lane dal paese. Ha fondato in oltre un gran magazzino di
lana, dando, se ne avanza, a' poveri operaj che non hanno
il modo di comperarla ; ed essi poi la scontano in tanti la-
vori per conto del re. Avanti eh' egli desse ricovero a Sta-
nislao in Konisberga, provvedeva in gran parte la Russia
di panni ; ma dopo quel fatto, arbitri son divenuti di quel
traffico i suoi compatrioti.
FRANCESCO ALGAROTTI. 287
Che le dirò poi, mylonl, del principe reale tanto amico
delie Muse? Appresso a lui noi stemmo nel suo palazzo di
Reinsberg molti giorni, che mi parvero poche ore. Furono
da noi vedute le sue virtù da privato. Quando egli salirà
sul trono, ammirerà il mondo le sue virtù principesche.
E vi è gran ragione di credere che saranno da lui cercati
gli uomini grandi, con quello stesso ardore che sono cercate
dal re suo padre le grandi persone — (Dalle Opere, ec,
tomo VI, p. 171.)
Delle invenzioni degli Italiani, Lettera all' ab. Frufjonì,
17 novembre 175i. — iNon mi giunge punto nuovo che si
debbano storcere cotesti signori ly^ncesi air udii-si rican-
tare come la lor nazione ha ogni cosa imparato da noi.
Farmi vedergli sogghignare, uscire a tal proposito in molti
bei motti vivi, frizzanti, piacevoli ; nel che ci superano ve-
ramente di gran lunga ; ma por tutto questo il ver non
cresce o scema, come dice colui.
Benché nulla io possa disdire a voi, lasciate ch'io vi di-
sdica sopra tal punto una dissertazione. E che vorreste?
che io mi facessi dal ridire, cose già tante volte dette, come
(\arlo Vili, Luigi XII e Francesco I condussero d' Italia ogni
maniera crartclici, che primi fecero assaggiare ai franzesi
il gusto delle buone arti ì La lor lingua piena di termini
italiani, per quanto si appartiene alla pittura, all' architet-
tura e altre simili facoltà, dice loro abbastanza da chi le
abbiano apprese. Benché e* credono averle perfezionate di
molto: come il Fluvinel, che dopo aver imparato quanto
sapea di cavallerizza nella scuola ilei celebre Fignatelli in
Napoli, si fece autore tra' suoi, atrermando di aver miglio-
rato di assai e in moltissimi punti corretta la dottrina ol-
tramontana.
Vorreste voi che io ridicessi come dal nostro Galilei, non
dal lor Cartesio, convenne finalmente a' francesi, volere o
non volere, apprender la vera fisica? E dico, volere o non
volere ; da che in niun paese sono state rigettate più che
in Francia le nuove scoperte filosofiche, quando non han
potuto ispacciarle per loro proprie. Pascal fu forse il solo,
che a' saoi compatrioti desse 1' esempio di ben accogliere le
verità, che venivan loro da paesi forestieri, confermando,
come egli fece, con nuove sperienze la bella scoperta del
nostro Torricelli. Coloro che in Francia davano {eàe a' tro-
vati dell' Arveo, erano chiamati circolatori ; ' e senza il ce-
lebre memoriale burlesco di Despreaux, il Parlamento di Pa-
rigi avrebbe decretato contro alla filosofia moderna. Quanti
travagli non ebbe a sostenere, non sono ancora molt* anni
passati, il Maupertuis per aver voluto trapiantare in Fran-
cia le dottrine inglesi ? E non era solito dire il Fontenelle
' Ciarìatani, medici di piftzza, cerretani amlmlanli.
1^
288 .SECOLO xviir.
che le convulsioni e T attrazione eran T obbrobrio del se-
colo? Contro l'ottica del Neutono insursero già Mariotte e
Dufay ; e vi si grida tuttavia contro, e quasi quasi con 1' ap-
provazione dell Accademia delle Scienze. Ma finalmente è
stato loro forza sottomettersi alle dottrine inglesi, come
dianzi a quelle del Galilei, che levò prima la insegna della
vera filosofìa, con tutto che abbia mostrato il ior Cartesio
di tener in così picciol conto i trovati del nostro Linceo.
Prima della filosofia aveano da noi appreso la medicina.
La scuola salernitana fu tra i popoli moderni la prima, come
sapete, a risuscitar quell'arte ; e Rogero Salernitano soprat-
tutto, che fu poi cementato da' famosi quattro maestri della
scuola di F^arigi. Bruno calabrese ed altri, fuorusciti di Ita-
lia per le fazioni de' guelfi e ghibellini, recarono in Fran-
cia negli andati secoli la chirurgia : e il famoso Herrj^ che
adorava la tomba di Carlo Vili, come datore delle sue ric-
chezze, recò di Roma in Parigi il secreto del nostro Carpi,
r amministrazione cioè di quel possente specifico alla più
sozza e alla più comune delle malattie.
Tali cose pur debbono ne' loro scritti confessare essi me-
desimi, niente dotti che sieno nell'istoria letteraria. Ed essa
dee insegnar loro come nel teatro eziandio, in cui tengono
il campo, hanno da riconoscere gì' italiani per maestri. Per-
chè finalmente il Trissino, e non il Cornelio, come comu-
nemente si crede oltremonti, introdusse nella tragedia al-
l' esempio de' greci le tre unità ; e il Segretario fiorentino
compose quella commedia a cui il Rolli mise in fronte e a
ragione, quel motto : qua non prcestantior.
Nella fortificazione istessamente, in cui tanto vaglion,
trovano gì' italiani già possessori, a dir così, nelle contrag-
guardie, negli orecchioni de' baloardi, nelle parallele, nelle
difese, nelle offese. Il Segretario fiorentino diede già loro
di buone istruzioni nell' arte della guerra, non meno che
nella politica. E un italiano per nome Federico Giambelli
fu nella artiglieria l'inventore della macchina infernale, che
si mostrò per la prima volta nell' ostinatissima difesa che
fece Anversa contro al duca di Parma, e di cui gli inglesi
tentarono di poi a San Malo di far provare a' francesi i ter-
ribili effetti.
Che più ? nelle delicatezze medesime della vita, dove e' sono
altrettanti Petronj Arbitri, è forza che i francesi ne salu-
tino precettori. Montaigne in uno de' suoi Saggi parla di uno
scalco del cardinal Caraffa, gran dottore nella scienza dei
manicaretti, delle salse e di ogni altro argomento, con cui
risvegliare l' appetito il più difiScile e il più erudito, e il
quale ben sapea
Quo gestii lepores, et quo gallina secetur.
E riferisce ancora in un altro luogo che i francesi al tempo
suo andavano in Italia ad imparare il ballo, i bei modi, ogni
FRANCESCO ALGAROTTI. 289
maniera di gentilezza ; come ci vengono ora gì' inglesi per
istiuliare lo opere del Palladio e le reli(iuie degli antichi
edilizj. K ben si può dire, quando e' spai-lan di noi, che il
fanciullo batte la balia, per servirmi di una loro espressione.
Fatto è che dopo la comune barbarie di Kuropa, gl'ita-
liani apriron gli occhi prima delle altre nazioni. Quando gli
altri dormivan ancora, noi eravam desti. Se ora si vada da
noi sonnacchiando così un poco, ora che gli altri vegliano,
non ò nostra colpa. I Zabbaglia, i Ferracina, i Tartini, i
Marcelli, i Manfredi, i Zanetti, i Canaletti, i Bonamici, gli
Stellini, i Metastasi, i Frugoni ben mostrano di che tempra
sia r ingegno italiano, e che né meno in questo secolo la
materia non sarebbe punto sorda a rispondere. Ma conso-
liamoci con lo passate cose, benché, a dir vero, la conso-
lazione sia alquanto magra. Le altre nazioni dominano ora ;
noi dominammo un tempo: e se nelle matematiche e nella
lìlosofìa gì' inglesi han tirato su e finito lo edifizio, noi 1' ab-
biamo incominciato e posato ne abbiam le pietre fondamen-
tali. Sani sempre vero che gl'italiani, dopo conquistato il
mondo con le armi, illuminato lo hanno con l'arti e con le
scienze. E ben disse quel chiaro spirito del Voltaire, ben-
ché ad altro intendimento :
Rome, dont le deatin dan» la p<tìx, dans la guerre
Est d'ttre en tona le» tema ma'itrease de la terre.
San Tommaso d'Aquino sarà un'epoca della teologia, come
il Tartaglia lo è delle matematiche, e singolarmente il Ca-
valieri, il quale ben merita il titolo che gli fu dato da un
grand' uomo, di precursore del metodo degV infinitamente
piccioli. Nella scienza naturale avranno sempre il primo
saggio Vesalio, Fallopio, Eustachio, Malpighi : e il nome del
Cesalpino andrà sempre innanzi a quel dell' Arveo, se per
avventura non fu fra Paolo, come voglion alcuni, il vero
scopritore della circolazione, del sangue. Sapete quanto egli
era nelle cose naturali versatissimo, quanto era amico del-
l'Acquapendente, per cui diede il disegno del teatro ana-
tomico di Padova ; e come non mancano argomenti per
credere che coli' Acquapendente egli conferisse la sua sco-
perta, da cui ne ebbe sentore e lume l'Arveo, che dell' istesso
Acquapendente era discepolo. Ma ad ogni caso non manca
un altro primo saggio anche a fra Paolo, da' cui scritti
niente più patirono i diritti della Chiesa gallicana, che dal-
l'amministrazione del Mazzarino scemasse la grandezza di
Francia.
La scienza dell'acque e del condurre i fiumi è nata in
Toscana, si è perfezionata in Bologna, é tutta nostra. No-
stro pur sono le jiiii belle scoperte nell'astronomia e nella
geografia. E in ciò ebbero una grandissima parto i geno-
vesi vostri, i quali, prima di sciogliere in traccia di un nuovo
mondo, trasportavano in Terra Santa i crociati di Francia,
IV. 19
200 SECOLO XVIII.
coprivano il mare di legni, a tal tempo clie 1 Colombi
francesi non altro facevano che radere le coste della Pro-
venza e della Bretagna. Né già stettero oziosi i veneziani :
un Zeno scoperse la Groenlandia; Cabotta alcuni tratti del-
TAmerica settentrionale, gittando i fondamenti di quel gran
trallìco che vi fanno ora gl'inglesi ; e quasi nel tempo me-
desimo un Foscarini, che si trovava in Inghilterra, gittò i
fondamenti del famoso banco di Londra.
Assai nuove saranno per riuscire molte di tali cose anche
agl'italiani medesimi: tanto è il clamore che levano anche
tra noi i libri francesi. Ad essi si ha ricorso per ogni ma-
niera di studio ; essi soli si leggono, ad essi si dà fede, ed
essi non mancano di decantare il più che possono la loro
nazione per inventrice di ogni cosa ; quando le sole sco-
perte, di che le abbiamo obbligo veramente, sono l'analisi
cartesiana e il condotto chilifero trovato già dal Pecquetto ;
chi non volesse per avventura anco annoverare tra le sco-
perte la legatura dei vasi, del qual metodo si servi il primo
nelle emorragie, in vece de' caustici, Ambrogio Pareo, e
cose simili : o annoverar non si volesse la coreografia, per
cui, come si fa d'una arietta per musica, si può scriver un
ballo e trasmetterlo alla più tarda posterità.
Lo starsene dei francesi nel beato lor regno senza vi-
sitare le altrui contrade, la ignoranza in cui sogliono es-
sere delle lingue forestiere, fa clie e' contano a modo loro,
e trovano chi sta a' loro conti. Non ha molto eh' io leggeva
in uno scritto di un celebre e spiritoso autore di quella na-
zione, come la pittura grottesca fu inventata quaranta anni
fa da Mr. Berrin famoso disegnatore. Ohsecro ; iuiim est,
vetus credicleram, io dissi tosto. Vedi granchio solenne ch'io
avea preso ! Io mi credeva che la pittura grottesca fosse
usata dagli antichi, descritta da Vitruvio e rinnovata in-
sieme con lo stucco da Giovan da Udine, e eh' ella appunto
di grottesca prendesse il nome dai sotterranei o dalle grotte
di Roma, dove a' tempi di Leon X si trovarono di simili
pitture. Non si direbbe egli che l'altezza dell'Alpi da cui
sono cinti i francesi, fa
Sì che il tìso va loro innanzi poco,
come si esprime il nostro Dante?— (Dalle Opere, ec, tomo IX,
pag. 232.)
GIAN CARLO PASSERONL
Da Nizza, ove nacque 1' 8 marzo 1713, recossi giovano, e già
prete, a Milano ; dove dì buon' ora, pe' saggi del suo valor poe-
tico, fu {iscritto all'Accademia de' Trasformati, alla quale ei fece
poi ammettere il Parini, Salvo il tempo in che segui il suo pro-
tettore Lucini a Roma e a Colonia, dove quegli era nunzio pon-
k
GIAN CARLO PASSERONI. 291
tifìcio, dimorò sempre a Milano. Fu onorato di illustri amicizie,
come quella del Firmian; caro allo Stern, che lo conobbe ; lodato
da G. ò. Rousseau e dal liarcttl nella Frusta (VI); ma visse po-
vero e modesto, rifiutando protezioni e doni e beneficando anzi
i più miseri di lui. Morì ai 2(j decembre 180:i.
L'opera sua principale ò il Cicerone (Milano, 1755 e segg.),
poema in centun canto e undicimila novantasette ottave, del quale
così dice in sul fine:
Cento canti gli ha fatti anche Beinarilo
Tasso, clie fu da 15cr}:aiM0 e assai dotto;
S'egli fu bergamasco, io son nizzardo
E tocca a quel da IJerganio a star sotto....
E il mio poema, a dirlo chiaro e tondo,
Il più lungo sarà che sia nel mondo.
La vita di Cicerone ò un pretesto, un accessorio, specialmente
ne' primi due terzi del poema ; soltanto ncU' ultima parto l'autore
si ticn più all'argomento. Il vero fino suo ù di deridere e biasi-
mare i corrotti costumi del tempo, e dar sfogo insieme al suo lepido
umore. Il verso scorre sempre fiuido, la forma è sempre gioconda,
S(; anche stemperata e prolissa. Nell'arte sua di poeta egli si ag-
guaglia a ciò che fu tra i jnttori il buon Marghcritone; ma il suo
stile non è rozzo ed inculto, se anche talvolta pedestre; tuttavia
ciò eh' ci pensa e dice è sempre dettato dal buon senso e da animo
retto. La lettura dell' intero poema è senza dubbio alquanto fati-
cosa; ma da qual parte si cominci, ferma l'attenzione, e piac(^
per la lepidezza delle invenzioni, pei graziosi anacronismi, per la
facilità dell'andatura e per la bontà delle dottrine e de' senti-
menti. Discorre di ogni cosa et de (juibiisdam aìiis, prendendo
dal soggetto appiglio a continue digressioni, intrattenendosi spe-
cialmente, nel toccar della gioventù del suo eroe, a dar savj i)re-
cetti educativi. Scrisse anche sette volumi di Favole eaopiane
(Milano, 1775), dettate colla stessa facilità e prolissità dell'opera
sua maggiore; e tradusse alcuni epigrammi greci (Milano, 178G).
[Vedi per la biografia, Y Elogio scritto da C. Galeazzo Scotti,
Cremona, Feraboli s. a.; e l'articolo a lui dedicato dall' U(;oni
nella Continuazione ai secoli della Ietterai, del CoRNlANI, ediz.
Pomba, V, 150; L. V., in Biografìa degli ital. ili. del sec. XVIII
del TiPALDO, VII, 277; G. Carcano in liiv. Europea, Milano,
Luglio, 184.'); e cfr. G. Caudi'CCI, V Accad. dei trasformati, in
.Y. Antologia, U) aprile ISOI, p. CIJO-Gu'J.J
I versi d' occasione.
Nasce Tullio, che fu l'amor di Roma,
(ìloria d'Arpino, onor degli oratori:
Nasce Tullio, che tanto ancor .«?i noma
292 SECOLO XVIII.
Tra i Tedesclii, i Francesi, ^'rindi e i Mori;
Ed in volgare od in latino idioma
Un verso non si fa tra tanti autori ?
Nasce Tullio, vo' dirlo un'altra volta,
E non si fa stampare una Raccolta ?
E non si fa stampare, a dire io torno,
Di versi una Raccolta; e all'età mia
Se ne vedono tante andar attorno.
Con poco onore della poesia:
Se ne vedono uscir quasi ogni giorno:
E non si trova a questa frenesia,
A questo impazzamento, a questo tedio,
A questa nova peste, alcun rimedio?
Oggi non si addottora alcun, che prima
La sua dottrina in versi non si canti :
Senza esser messo da più d'uno in rima,
Oggi non si marita un par d'amanti:
Senza sonetti sotto questo clima,
Non fassi uffizio alle anime purganti:
E monaca non fassi una ragazza,
Se in versi da più d'un non si strapazza.
Chi vergine, chi martire l'appella.
Chi dice che non sa quel che si faccia;
Chi dice eh' essa ha spento la facella
A Cupido, che torvo la minaccia:
Altri, quantunque non sia punto bella.
Lodano in versi la sua brutta faccia:
Chiaman nere le chiome che son rosse,
E ne sballan pur anche delle grosse.
Vuol versi, quando veste irsute lane
Una fanciulla, e quando si professa
E fa sonare a doppio le campane;
E vuol versi, quand' è madre badessa :
Vuol versi, quando muore, un gatto o un cane :
Vuol versi un prete, quando dice messa:
Voglion versi da noi le cantatrici,
I consanguinei, gli esteri, gli amici.
per dir meglio, sono cosi stolti
Oggi i poeti, e tanto poveretti
(Non dico tutti, ma ve ne son molti)
Che sopra magri, sterili soggetti
Compongon mille e mille versi sciolti,
Fan canzoni, capitoli e sonetti:
E tutto quel che a' nostri dì succede,
Lodato in versi subito si vede.
Se nasce un figlio a qualche gran signore,
Non v' è di lodi al mondo carestia :
Tutto Parnaso mettesi a remore
Per uno, il qual non sassi ancor chi sia:
Si profetizza che sarà dottore, ^
GIAN CARLO PASSERONI.
293
Che saprà vario lingue, e in poesia
San\ un novo Petrarca, un novo Dante,
Chi poi per sua disgrazia ò un ignorante.
Se prende moglie un ricco cavaliere,
Un Orlando, un Achille, un novo Aiace
Fan nascere i poeti : e aste e bandiere
Vedono tolte al già tremante trace ;
Additan di nepoti immense schiere:
I/un ^arìi chiaro in guerra, e l'altro in paco:
I*: laran gli uni e gli altri, in pace e in guerra,
Cose che star non puon nò in ciel nò in terra.
Nascerà, Italia, Italia, il tuo soccorso,
E fioriranno in te virtù novelle,
(^iridano i vati; e vendono dell'orso.
Prima che preso l'abbiano, la pelle:
E portano, di penne armati il dorso,
I nascituri eroi lino alle stelle :
E spesso accade poi, come Dio vuole,
Che muoiono gli sposi senza prole.
E voi, poeti, avete ancor coraggio
Di dir che penetrate enti'o il futuro;'
Di dir che in voi scendo un celeste raggio.
Che vi rischiara ciò che agli altri è oscuro?
Che parlate in profetico linguaggio,
E che un Dio rende il vostro dir securo?
Affò, se debbo anch' io far da indovino.
Credo che questo Dio, sia il Dio del vino.
(Dal Cicerone, parte I, cauto IV,)
Il lusso della vita italiana.
Italia, riconosci ornai te stessa.
Al petto per un poco una man pònti:
La tua condotta esamina, ed in essa
Ravvisa, Italia, de' tuoi mali i fonti:
8' esser ti pare da' disastri oppressa,
Apri ben gli occhi, e la' ben bene i conti:
Pensa a' tempi presenti ed a' preteriti,
E vedrai, che hai più ben, che non ti meriti
Pensa, che fosti alle bell'arti intonta.
Nate e cresciute già nel tuo bel seno :
Pensa, che fosti un dì paga e contenta
Di ciò, che produceva il tuo terreno :
Ora è l'antica tua virtute spenta,
sol ne resta un languido baleno:
L'antica parsimonia è andata in bando,
E vai di giorno in giorno peggiorando.
Tu fosti già di bei pensier d'onore
Accesa, e piena già d'alma dottrina.
Or nell'ozio ti perdi e nell'amore.
294 SECOLO XVIII.
E ne ha rossor la maestà latina:
Per disciijlina e marzial valore
Fosti temuta giù,, fosti regina:
Or se qual fosti, Italia, più non sei,
Incolpane te stessa, e non gli Dei.
Le bell'arti sbandite a te richiama,
Sveglia il sopito, neghittoso ingegno.
Onde tu già salisti in tanta fama ;
Il lusso da te scaccia e T ozio indegno :
Spegni d'ambizion l'ardente brama.
Ripiglia i tuoi costumi, il tuo contegno:
Torna alla temperanza ed al lavoro,
E in te ritornerà l'età dell'oro.
Caccia al bordello le cattive usanze,
E le mode, che a te d'altri paesi
Vengono, e in cui finor le tue sostanze
E i tuoi danari hai malamente spesi :
Togli da' gabinetti e dalle stanze
Tanti soverchi e non più visti arnesi :
In ridicoli addobbi, in cose vane
Non consumar quel poco, che rimane.
Svegliati ornai, vecchia oziosa e lenta
Dal grave sonno, anzi dal tuo letargo,
di Dio l'ira sopra te paventa;
Io te lo dico, Italia, in lungo e in largo :
E se a caso, il che '1 ciel mai non consenta,
Per te l'inchiostro inutilmente spargo,
Avrò questo conforto almen d'averti
Trattato, Italia, anch'io, come tu merti.
Or che ho fatto, siccome avete inteso,
Alla povera Italia un' invettiva,
Parmi d'essere scarco d'un gran peso,
E d'aver fatto quel, che conveniva;
Né temo già per questo esser ripreso,
Perchè i poeti hanno la privativa
Di malmenarla, e prenderla pel ciuffo,
E farle bruscamente un buon rabbufTo.
(Dal cicerone, parte I, cauto XV.)
GASPARE GOZZL
Nacque il 4 dicembre 1713 in Venezia da Antonio ed Angela
Tiepolo, primo di nove figliuoli: fu fratello di Carlo, del quale par-
leremo. Per cattiva amministrazione mal ridotto era il patrimonio
del padre. ^ Fece gli studj a Murano, poi a Venezia, ove si ascrisse,
^ G. Gozzi, G. e G. Gozzi e la loro famiglia, in Arch. veneto, tomo HI,
parte I, 1872, pag. 275 e segg. ; E. Masi, Sul teatro italiano del sto. XVIII,
Firenze, Sausoui, 1891, pag. 9 e segg.
GASPARE GOZZI.
205
^'\
come il fratello Carlo, ai Granellcschi, fautori del toscanesimo cin-
quecentistico. Nel 1738 sposò Luigia Bcrgalli, poetessa,' in Arcadia
(letta Iniiinda Partenide, e n'ebbe cimiue tìgli; ma, per la pin-
darica aviiìiinistrazione di lei, tini di rovinare il i)atrinionio pa-
terno, mentre non sapeva, per attendere all'economia domestica,
distaccarsi da' libri diletti. Dopo aver dimorato a Vicinale nel
Friuli, tornò a Venezia (1744), e vi peggiorò ancora le sue condi-
zioni finanziarie, allorché, stipendiando una compagnia di comici,
assunse l'impresa del teatro di Sant'Angelo (1758). Crebbero anche
le discordie domestiche; ed egli fu nella necessità, serbando tut-
tavia « nella miseria, altero
nome », di volgere a fin di gua-
dagno, traducendo affrettata-
mente e compilando, quegli
studj che tanto e così disinte-
ressatamente aveva amato e
coltivato. Nel 17«»0 chiese in-
vano (ma non sapeva il greco)
al suo protettore Marco Fo-
scarinl la cattedra di lettere
greche e latine nell'Univer-
.sità di Padova; ebbe, peraltro,
l'ufìicio di censore delle stam-
pe (170-2), soprintendente al-
l' arte de' libraj, e incaricato
della riforma delle scuole di
Padova (1704). Quando comin-
ciava ad assestare un poco le
sue condizioni di famiglia, aveva ormai molto indebolita la sa-
lute. Dimorò d'allora in poi quasi scr^pre in Padova, dove in un
accesso febbrile si gettò (1777) nel fiume Brenta:- ed ebbe con-
forti e soccorsi dalla sua protettrice Caterina Doltìn-Tron. Conti-
nuò a riscuotere Io stipendio, lasciando la maggior parte de' suoi
ufììcj. Mortagli la prima moglie nel 1770, si riammogliò con Gio-
vanna Cénet, assistito amorosamente dalla quale visse gli ultimi
anni. Morì in Padova il 25 dicembre 1786. Ai dì nostri gli fu posta,
a spese di paiccchi cittadini veneti, una lapide nel palazzo ducale,
con epigrafe di Luigi Carrer, dove si leggono queste i)arolc : Cor-
resse con arguzia e senz'astio i depravati costumi e il vxal gusto.
Delle opere del Gozzi, oltre le edizioni complete di Venezia,
Palese, 17Ó4, di Padova, Minerva, 1818-20, e di Milano, Pettoni, 18;«,
si hanno scelte varie, tra le quali quella del Tommaseo, Firenze,
* Vedi sulla Borgalli, P. Nurra, in Emporivm, IX, 195 Onarzo 1899).
* G. lilADKGO. G. G. n P'ìdovi, nel VOllimo Va liln-i e mnnoxcritti, Ve-
rona, Mtinstcr, 1883; C. Magno, Angelo VidmiKtro e il tentato «iiicirfio di
G. G., neWArch. veneto, 1837.
296 SECOLO XVIII.
Le Monnicr, 1848-49 in tre voi., e quella per le scuole di G. Me-
stica, Firenze, Barbèra, 187G-77, in due volumi. Di tutte le scritture
a stampa del Gozzi diede una bibliografia in fronte ad Alcune
operette di lui Bartolomeo Gaml>a, Venezia, Alvisopoli, 1824.
^q,\\q, Lettere di?;er*e (Venezia, Pasquali, 1750 e di nuovo, 175.5-56),
trattò soggetti varj di morale e letteratura; vedi anche Tre let-
tere inedite a M. Forcellini nel Cimento (1852) da aggiungersi alle
già conosciute delle familiari (Venezia, Palese, 1808). — La Di-
fesa di Dante, ossia 11 giudizio degli antichi poeti sopra la mo-
derna censura di Dante (Venezia, Zatta, 1758; e l'ediz. curata
da A. Galassini, Modena, 1893), confuta le famose Lettere di Vir-
fjilio del Bettinelli, con grazia d' invenzioni e non mediocre va-
lore d'argomenti. Si deve per non piccola parte a questo libro
quel risorgere e rinvigorirsi del culto di Dante, che fu pregio e
fortuna degli scrittori migliori del Settecento.' Al Gozzi replicò
il Bettinelli nelle Lettere inglesi (1767). — Il Mondo morale è una
specie di romanzo allegorico, che si fìnge letto nella Congrega
dei Pellegrini, sulla corruzione umana e su' suoi rimedj (Venezia,
Colombani, 1760). — La Gazzetta veneta fu pubblicata in 10,3 nu-
meri (8 febbraio 1760-28 gennaio 1761), e da questa si estrassero
le Novellette (Venezia, Pasquali, 1791-92). — h' Osservatore, la più
celebre opera del Gozzi, è un periodico per l'anno 1761 (104 nu-
meri dal 4 febbraio 1761 al 30 gennaio 1762), che fu con nuovo
ordine ripubblicato dallo stesso autore (Venezia, 1767-68, e l'ediz.
curata da E. Spagni, Firenze, Barbèra, 1897); tratta in varia forma
argomenti morali, letterarj e fanrliari, ed è imitazione libera dello
Spectator di G. Addison, conosciuto dal Gozzi nella traduzione
francese.- — Tra le cose sue sono notevolissimi i Sermoni (diciotto
nell'edizione del 1794); pregevoli pure per l'uso assai felice dello
sciolto e per finezza di satira, nella quale potè esser detto, pur
dopo i Sermoni del Chiabrera, che precorresse il Parini.^ Lasciò,
inoltre, rime di vario genere,'^ e specialmente 2y'i^c^^oli e burlesche
(Lucca, 1751, Venezia, Parolari, 1817), favole esopiane, traduzioni,
tra cui quella della Morte di Adamo del Klopstock, voltata però
dal francese e che è inserita nella seconda parte del Mondo mo-
rale. Alcune favole di soggetto orientale che disse d'aver tratto
' A. Torre, nel Gìorn. dantesco, voi. IV, pag. 145 e seg.
2 G. Zanella, G. Addison e G.G., ne' Paralleli letterarj. Verona, Miin-
ster, 1884; Gkmma Zambler, G. Gozzi e i suoi giornali; estr. d^ìV Ateneo
veneto, XIX (1897).
^ A. Giannini, Sermoni di G. G. illustrati e commentati, Palermo, Tip.
del Boccone del povero, 1893, e // sermone di G. G. sxdla sacra eloquenza,
Siracusa, tip. del Tamburo, 1894 ; E. Sfagni, / sermoni di G. G. illustrati,
Venezia, Ferrari, 1875; E. Sfagni, Un sermone ined. di G. G., nella Bill.
d. sc.itaì.,\, 9. Nelle Osservazioni intorno ad Orazio, di Cl.Vannetti {Opere,
Venezia, Alvisopoli, 1827, voi. IV, pag. 77 e segg.), si può vedere quanto
il Gozzi attinse al poeta latino.
* Ygdi G. Amalfi, Due componimenti di G, G., Napoli, Priore, 1891,
\
GASPARE GOZZI. 297
da diversi manoscritti arahi (piuttosto, (ìirrnio, da traduzioni fran-
cesi) * non escono dalla mediocrità, e così le tradotte come le ori-
ginali produzioni drammatiche.* Compose anche orazioni, cicalate,
cantate ec. Parecchie sue scritture in materia di scuole e di studj
furono pubblicate per occasione : Sulla riforma df(/li studj, scrit-
ture due (Udine, Vendrame, 1835) ; Sulla sostituzione alle scuole
di Venezia prima am7ninistrate dalla Comi^agnia di (ìesù (Vene-
zia, Alvisopoli, 18.i()) ; Sulle scuole che dovevano in Padova esser
sostituite a quelle dei Gesuiti (San Vito, Pascato, 183G); Relazione
sulle pubbliche scuole (Padova, Seminario, 18G4) ; Tre relazioni
inedite (Venezia, Merlo, 18G7).
Nocque al Gozzi l'alìbondanza della produzione e la mancanza
della quiete così amica agli studj. Ma lasciò, soprattutto in prosa,
alcune scritture veramente esemplari per grazia e leggiadria, tra
greca e trecentistica, non disgiunte da certa dignità e gravità
tradizionale nella buona prosa italiana; ed è suo gran merito esser
riuscito a tenersi nel giusto mezzo tra le forme paesane e quelle
che alla letteratura nostra venivano proi)oste, e quasi imposte,
dalle opere straniere più celebri e più vulgate. L'ingegno suose
non profondo, vario e naturalmente elegante e brioso, si mostra
meglio in piccole cose, ritratte con esattezza d' osservazione, co-
lorite con giusta misura e ravvivate da un amabile istinto satirico.
Egli ed il Goldoni ben ritraggono la festività tutta veneziana, ricca
di acume tradizionale, ma senza acerbezza, dell'ultima generazione
di cittadini della Serenissima. Una delle molte prove poi del suo
giudizio retto, equilibrato e scevro di passione, oltre quella princi-
palissima del culto che sentì per Dante, è il favore che dimostrò
per la riforma goldoniana, nel tempo delle note fiere polemiche.
[Vedi I. PlNDEMONTE negli Elogi di letterati italiani; C. Ugo-
Ni, continuaz. del Corni ani, ediz. Pomba, V, 110; il Proemio
del Tommaseo agli Scritti di G. G. scelti ed ordinati, Firenze,
Le Monnier, 1849, ripubblicato nella Storia civile nella lettera-
ria^ Torino, Locscher, 1872; A. Malmignati, G. G. e i suoi tempi,
Padova, Prosperini, 18iX); V. Malamani, (r. (3^., nel Nuovo Archi-
vio veneto, I, 1891.]
Le smanie delia villeggiatura.
Al signor Pietro Fuòri.
Se iiobil donna che d'antica stirpo
Ila preminenza, e buona e ricca dote,
Lautamente villeggia, onor ne acquista,
• Cfr. I. Pizzi, Riscontri orientali, nel Giorn. «^ d. Ictf. itnl., 1893,
XXII, 220.
' F. FoFFANO, 0. 0. poeta drammatico, nel Giorn. ìiauit,, aiiny XX,
1893, fase. I.
298 SECOLO XVIII.
Splendida è detta : se lo stesso fanno
La Giannetta, la Cecca o la Mattea,
Spose a banchieri o a bottegai, son pazze.
Non è tutto per tutti. Uom destro e lieve
Sia di danza maestro ; il zoppo, sarto,
Industria da sedili : ogni uom che vive,
Sé medesmo misuri, e si conosca.
Ma dir che giova? a concorrenza, vanno
Degli uccelli del ciel minute mosche.
Somigliar vuol la sciocca rana al bue ;
Si gonfia, e scoppia. gentil Fabri, io scrivo
Di ciò fra' salci, sulle ricche sponde
Della Brenta felice : e mentre ognuno
Corre ad uscio o a finestra a veder carri,
Cavalli e barche, qui celato io detto,
Notomista di teste.* Or mano a' ferri.
Dalle faccende e da' lavori cessa
Qui la gente, e trionfa.''' Oh miglior aria,
Quanti ne ingrassi, e ne dimagri ! A molti
Più prò farebbe un diroccato albergo
Delle antiche casipole in Mazzorbo ^
Fra le murene, i cefali e le triglie.
Se punto di cervello avete ancora.
Mezzane genti, io vi ricordo, è bello
Commendare alle mogli il bosco e l'ombra
Ed il canto de' grilli. Ivi migliore
È il villeggiar, dove s'appiatta il loco,
E dove scinta la villana e scalza,
Mostri chioccia, pulcini, anitra e porco.
Quivi nell'alma delle mogli dorme
L'acuta invidia: ove sien sole, poco
Bramar le vedi; confrontate, molto.
Da natura ciò nasce. Appena tieni
Col fren la debil rozza, che sdegnosa
L'animoso corsier andarsi avanti
Vede, ne sbuffa, e trottar vuole anch'essa
Spallata e bolsa; e tu che la cavalchi,
Ti rompi intanto il codrione e il dosso.
Viene il giugno o il settembre. —Olà, che pensi?-
Dice la sposa : — ognun la città lascia ;
Tempo è da villa. — Bene sta, risponde
Il compagno: or n'andiamo. — A che si dorme,-
Essa — dunque ? — ripiglia : — andrem fra tante
Splendide genti, quai lingani ed Ussi,
Disutil razza e pretto bulicame?*
* Scrutatore dei varj cervelli ed umori degli uomini.
- Sta in allegria.
2 Povero luogo da pescatori nell'estuario veneto.
* Oente da poco, inarmacjliu.
GASPARE GOZZI. 209
Noi i)ui' Siam vivi, e di ^^rantlezzii e d'a^^a
Siamo intendenti; e questi corpi sono
Fatti come altri ; nò virtù celato
A noi coltura o pulitezza sieno. —
La Sibilla ha parlato. Ecco si vedo
Sulle scale una fiera : * capoletti
Intagliati e dipinti, di cornici
Fabbriche illustri ; sedie ove poltrisca
Morbido il corpo : e alfin pieno è l'albergo
Di merci nuove e fornimenti e fregi.
Omai t' imbarca, o capitano accorto :
Kcco il provvedimento e V abbondanza.
Ali, se il suocero adesso fuor mettesse
Di qualche arca comune il capo industre.
Ammassando,* sepolto : — Oh ! che ? — direbbe,
— Dove ne va tal barca? alla campagna
Sì ripiena e sì ricca? Il bastoncello,
Un valigiotto era il mio arredo ; e trenta
Soldi, nolo al nocchiero, e men talvolta ;
E incogniti compagni, allegra ciurma.
Se la moglie era meco, io dal piloto
Comperava un cantuccio, ove la culla
Stava e il pitale, ed uova sode e pane.
Parca prebenda, nell'umil canestro.
Donde uscì tanta boria ? e quale ha grado
La mia famiglia, che la Brenta solchi
Con tal trionfo, e sì vóti lo scrigno ? —
Ma parli a' morti. Va scorrendo intanto
Il burchiello per l'acque; e il lungo corso
La sposa annoja. — L'ultima fjata
Questa fia ch'io m'im])archi: in poste, in poste
Un'altra volta. pigro timoniere.
Perchè sì taci ? e perchè i due cavalli,'
Che pur due sono, ({uel villan non batte ?
— Avanti, — grida il timoniere : — avanti, —
Ella con sottil voce anco risponde, —
Se vuoi la mancia; e se non vuoi, va' lento :
Ostinata ple1)aglia! Or alle carte
Mano, ch'io più non posso. Ah! v'ha chi guardi
Qui r orinolo ?— E chi più saggio il guarda,
Porche melissa o polvere non chiegga,
Con le parole fa più breve il tempo.
La beata regina alfine è giunta
Fra gli aranci e i limoni. Odi bertuccia,
Ch'anime umane imita. — tu, castaido.
Dove se', pigro ? a che ne' tempi lieti
' Una quantità di robe di verse, come in una fiera.
- Noi mentre stava accumulando danari.
■^ 1 cavalli coi quali dalla sponda si aiutava il corso del burchiello.
300 SECOLO xviir.
Non aprir le finestre? Ecco di mufla
Le pareti grommate ! A che nel verno
Col tepor del carbone non riscaldi
L'aria agli agrumi? — Giura il servo :— apersi,
Riscaldai; non e' ò muffa : ecco le piante
Verdi e cardie di frutte. — Indocil capo,
Tutto è muffato. Io non son cieca, ed ogni
Pianta gialleggia. — K, se s'ostina, odore
Di muffa sente in ogni luogo, e ducisi
In ogni luogo delle smorte piante.
A' suoi mille capricci, uomo infelice,
Il salario ti vende. Essa cinguetta
Quel eh' udì altrove : e sé gentile e grande
Stimar non può, se non quistiona teco
Per traverso e per dritto. Or taci e mira
Per tuo conforto: col marito stesso
Per nonnulla garrisce : -- Oh poco cauto
Nelle accoglienze ! La brigata venne,
E la cera era al verde. Ah, tardo giunse
E freddo il cioccolatte. Occhio infingardo,
Nulla vedi o non curi. — E se balcone
benigna fessura di parete
Mi lasciasse veder quel che si cela,
Per tal misfatto io vedrei forse il goffo
Di sua pace pregarla, e che conceda
Al desio maritai giocondo scherzo.
Ma tu frattanto, o vettural, trabocca
L'orzo e la vena, perchè sotto al cocchio
Sbuffi Bajardo e Brigliadoro, quando
Solennemente verso il dolo corre,
della Mira al popoloso borgo,
Nido di febbri pel notturno guazzo.
Già nel suo cocchio pettoruta e salda
La signora s'adagia; e a cavai monti.
Lo scalpitar de' due ronzoni, il corno,
E della frusta il ripetuto scoppio
Chiama le genti. L'uno all'altro chiede:
Chi va ? Se ignoto è il nome, ed il cognome
Nato in quel punto,* la risata s'ode,
E il salutarla motteggiando intuona.
Beata sé, che onor sei crede, e intanto
Gonfia pel suon delle correnti ruote :
Chiama in suo core il vettural poltrone,
Che la curata- per cornar non rompe.
Giunge, smonta, é a sedere. — bottegaio.
Caffè ! Ma vedi !, in porcellana. Lava,
Frega, risciacqua. Il delicato labbro,
' Cominciato da poco tempo ad esser noto.
2 La coratella : non soffia troppo forte noi corno.
GASPARE GOZZI.
301
Morbida pellicina invizia tosto,
Non custodito.* — La faconda lingua
Comincia intanto: e che d'udir s'aspetta?
Grossezza o parto, la dorata culla,
La miglior levatrice, il ricco letto,
E il vietato consorte alla nutrita
Balia di polli, e suo feconde poppe.
Se più s'inoltra, de' maligni servi,
Delle fanti si lagna, e i liberali
Salar.) e i doni vi ricorda e il vitto.
Kè si diparte; che, se in pace ascolti,
Sai quant'ha di ricchezza entro all'albergo
Di cucchiaj, di forchette e vasi e coppe.
Ma già l'aria notturna umida e grave
I capelli minaccia, e la ricciuta
Chioma, se più dimora, oh Dio ! si stende.
— Cocchiere, avanti. — Sta sul grande, e parte.
Fabri, che vuoi eh' io ti ridica come
La brigata che resta, addenta e morde?
rietà mi prende; e sol fra mio cor dico:
Di sua salita, boriosa, gode
La zucca in alto, e le più salde pianto
Imita come può : ma boriando,
Pensi alle sue radici, e tema il verno.
[Sermone IX.)
Di sé stesso.
A Sua Eccellenza Bartolommeo Vii turi.
Se mai vedesti in limpid'acqua un pesce
Trascorrere, guizzar, girarsi intorno
Velocemente ; còlto indi a la rete,
Contrastando balzar, e steso alfine.
Agonizzare e boccheggiar sul lido ;
('redi, Vitturi, somigliante ad esso
Fatto ò l'ingegno mio. Libero un tempo,
Vivace, giubilando, aperto mare
Lievemente scorrea : fortuna tutto
Di rete il cinse. Dibattendo ei fece
Lunga battaglia per fuggir servaggio.
Non giovò: giaco, e a poco a poco manca
Vigor di vita ; onde si stende, e pére
Spossato e vinto su l'asciutta arena.
Non poetica fiamma o Genio amico
Ha che più lo ravvivi, e per lo giro
Di beato argomento^ intorno il guidi
A studiar circostanze, a tragger versi,
Che faccian bello e grazioso il canto.
' Qii:\iulo non si abbia cura di lui.
' hi uu buouo e fecondo soggetto poetico.
302 SECOLO XVIIT.
Malinconico umor salo da/ /lancili
Qual negro nembo, e con vapori iniqui
L'offusca sì, che intorno altro non vede
Che immensa oscurità, grandine e lampi.
Sommo Dio, vera luco, infin ch'io veggio
Alma tra noi che le bell'arti onori,
Onorata da quelle ; * e infin cir io seco
Spesso mi trovo, e che benigna ascolti
Il mio parlar; perchè timor cotanto
Mi farà guerra? Oh nel mio petto un raggio
Sorger non dee di graziosa speme?
Tu vedi pur quali aniorose cure
L'accendan sempre. È il suo felice albergo
Di bell'arti custodia: ovunque movi
In esso il pie, greche e romane impronte
Miri, di storia e antichi usi maestre.
Quivi raccolte, contro al tempo, serba
De' più felici e pellegrini ingegni
Sacri a Minerva le divine carte ;
Né serba sol, ma se ne pasce, e prende
Grato alimento, e altrui spesso il concede.
Tal è in vita privata. Or l'occhio volgi
A' suoi pubblici affari : è padre, e vero
Nutritor di mortali. Insin eh' ei siede
Al governo di genti, ei la quiete
Seco adduce e la copia ; alme discordi
Annoda insieme : e s' ei si parte, ha seco
Mille e miU'alme ; e mille lingue e mille
Fan di lui ricordanza. Oh statua eterna
Ne' petti eretta, ed immutabil bronzo 1
Quali indizi son questi? buon Vitturi,
Spirto che in tali e in si bell'opre agli occhi
De' mortali si spiega e si palesa,
Qual esser può, se non cortese e grande?
Odimi dunque, e sofferente orecchio
Porgi a colui ch'era già il Gozzi, ed ombra
Ora è di lui che tal nome conserva.
Misero me ! di non ignota stirpe
Nacqui ; e d'amici e servi era il mio albergo
Ricovero una volta. Io ne"prim"anni
Speranza avea di fortunata vita.
In dolce ozio fra' libri i dì passai
E gli anni più fioriti. Allor credea
Dar cultura allo spirto, e a tal guidarlo,
Che di vergogna al mio nascer non fosse.
Questa sì bella e sì dolce speranza
Sfiorì del tutto. Fra' miei pochi beni
Sol uno è quel che a me pace promette
^ Allude qui al suo protettore e mecenate Bartolomiueo Vitturi.
GASPARE GOZZI. 303
E ricchezza sicura. Io di to parlo,
Uif?ido sasso, in cui scolpito è il nomo
Infelice de' miei. Te sol rimiro
Con fiso sguardo ; e desioso piango,
Che per me tu non t'apri. Oh padre, oh padre
Qui ten giaci quieto, e non soccorri
Il desolato figlio, e non lo vedi
Coni' ei s' allligge e si martira i oh hi-accia
Paterne, a me v'aprite e m'accogliete
Altìn tra voi; che tal quiete è a tempo.*
Qual durezza di vita! Ov' è chi ciancia
Che sì fragile e hreve è il viver nostro?
Poco non dura, se fra tanti mali
Ostinato si serba. E non so come
Alma possa stanziar, dove la strazj
Chiovo, spina, tanaglia, e orrihil hamma.
Mecenate, da Dio dato a 1' etade
Nostra ; che più dirò ? Perchè narrarti
Che questa penna e l'intelletto mio.
Liberi nati, più volar non ponno
Dove li invita naturale alletto?
Non è picciolo male ad oncia ad oncia
Metter l'alma in bilance,^ ed il cervello
Vendere a dramme : e peggior mal è ancora,
Ch' a minor prezzo l'anima e il cervello
Vendansi, che di bue carne o di ciacco.
Oh mio dolore! oh mia vergogna eternai
l'ur, poich' altro sperar più non mi lice,
Almen potessi non indegna, e alquanto
Meli oscura opra far, che tragger carte
Dal gallico idioma, o ignote o vili,
Alla lingua d'Italia. Ho la testui'a
Di grand' opra intrapresa. In quanti lati
Scorre eloquenza io , dimostrar volca.
Volgarizzando ben eletti esemp.j
Di Latini e di Oreci. Anzi una parte
Ho dell'opra condotta. A cui non sono
Palesi i casi miei, par eh' io V indugi
Oltre il dover; e tu medesmo forse
Infingardo mi chiami, e tal mi credi.
Ah ! si discopra il vero. Io, paziente
Giobbe, tal nome sojl'orii molt'anni,
Pure tacendo altrui che in vili carte
E in ignote scritture io m'affatico
Con sudor cotidiano ; e già son pieni
I banchi de' librai di mille e mille
Fogli e di carte, ammassamento enorme
' Verrebbe, sarebbe ormai al suo tempo opportuno.
' Come si fa di cosa di che dcbbasi trafficare e trarne lucro.
304 SECOLO xvin.
Di mia mano apprestato ai men gentili
Popolari intelletti : e perciò tardo
Sembro a' migliori clie lo ver non sanno,
Ma che far posso? Rondine che al nido
K a' rondinini suoi portar dee cibo,
Non può per Tarla spaziar invano,
dov' essa desia : però che intanto
Le bocche vote de' figliuoli suoi.
Dopo molto gridare e ingoiar vento,
Sarebber chiuse, e in sepoltura il nido
Si cambierebbe a' non possenti corpi.
Ma che chiedi, importuno? — Io non ardisco
Di più oltre parlar. Fra le tue lodi
Forse non la minor sarebbe un giorno,
Che sotto a l'ombra tua tal opra uscisse ;
Ch' ei si dirla : Vedi cultor d' ingegni 1
Nel giardin di Minerva egli una pianta,
Quasi del tutto inaridita e secca.
Si prese in cura, e con amica destra
Sì la soccorse, che germogli verdi
Riprodusse, e di nuovo all'aura sparse
Rami con frutti. — Ah troppo bramo. E forse
Vuol fortuna eh' io péra ; e non a tempo
Son le mie preci : né giovar mi puote
L'alma che a tanti giova, ed a me tante
Volte giovò, sì generosa e bella.
[Sermone XIV.)
Virtù necessarie all' uomo di lettere. — A passo a passo
io me ne andava camminando a piede di una certa mon-
tagna, la quale con un erto e difficilissimo giogo parca che
salisse fino alle stelle ; e tutto d'intorno così vestita di folti
alberi, e qua e colà renduta scoscesa, dirupata e rotta da
massi, da non potervi andar sopra se non con le ale. Io
non so qual desiderio mi stimolasse di voler salire; ma mi
parca di struggermi, e andava da ogni lato esaminando e
spiando qualche luogo facile e qualche adito da potermi, se
non altro, aggrappare. Quando in un certo viottolo mezzo
coperto dalle ortiche e dalle spine, vidi sopra un greppo a
sedere un uomo canuto con una prolissa barba, il quale te-
nendo una sua cetra in collo, e movendo con gran prestezza
le dita, soavemente accompagnava la voce, che proferiva
cantando questi versi :
Chi cerca di salire all'alto loco,
Di qua venga ov' io sono; è questo il passo.
Ratto andarvi non può, ma a poco a poco
Vedrà la terra piccioletta a basso.
L'ozio abbandoni, la lascivia, il giuoco;
Perchè lungo è il cammino ed erto il sasso.
In fin vedrà piaggia felice e aprica;
Ma a gloria non si va senza fatica.
GASPARE GOZZr. 305
Sarà boato, se negli ultimi anni
Della sua vita al colino i,'iuii{,'er puote.
Molti sono i sudor, molti ^'!i affanni
Che sostengon lo a Febo almo devoto.
Eterna fama poi compensa i danni ;
Kè potrà volger di celesti ruoto
Toglior la gloria a chi sull'erto monto
Di ghirlanda d'alloro orna sua fronte.
Ma non s'inganni chi prendo il viaggio;
Ei molte donne troverà tra via,
Che incoronan di salcio, d'oppio o faggio,
Mostrando ai viandanti cortesia.
Conoscerà chi veramente ò saggio
Che son Superbia, Vanità, Pazzia;
Nò prenderà per lauro eterno e verde
Foglia che in breve tempo il vigor perdo.
In questa guisa cantava con dolcissima armonia il ve-
nerando vecchione, a cui accostatomi con grande atto di
umiltà, e temendo di sturbare la sua canzone, me gli posi
dinanzi, quasi volessi ascoltare s'egli l'osse andato più oltre
cantando. Ma egli, lasciato stare il suono ed il cantare, e
voltatosi a me con benigna taccia, mi domandò chi fossi, e
donde venissi ; ed io gli risposi : Desiderio di salire sopra
(luesta montagna mi ha qui condotto, per modo che non mi
parca più di poter vivere se non mi concedeva fortuna di
fare questo viaggio: ma, poiché sono avventurato di tanto,
che in questo luogo ti ho riti'ovato, e tu hai, a quello ch'io
udii, gran pratica del monte, io ti prego quanto so e posso,
che tu mi dia quegli utili avvertimenti, co' quali io mi possa
all'alta cima condurre. Lascia, rispose il buon vecchio, ch'io
ti vegga ; e poscia cominciò a considerare : Magro, aria
astratta, malinconico, non molto coltivato in corpo; ' a quc-
st'indizj tu potresti benissimo incamminarti, e mi sembri
uomo da ciò; ma prima è da vedersi se con queste cose
estrinseche si congiungono anche le tue operazioni. Alza la
faccia, parlami chiaro. In che hai tu consumato il tempo
tuo fino al presente? Da' primi anni miei, risposi, abban-
donata ogni altra occupazione, e latto il tesoro mio di un
calamajo e di certi pochi libri, non mi sono spiccato mai
da essi, parendomi di godere l'ambrosia e il nettare degli
Dei quando io posso pacirtcamente attendere agli studj.
Quale acquisto, ripigliò il buon vecchio, facesti delle tue
lunghe fatiche e vigilie? Acquisto? diss' io. Quanto è alle
lettere, io non so, perchè io non ho mai fatto sopra ciò i
calcoli miei, per timore, vedendo tanti altri ingegni antichi
e moderni andati innanzi al mio, che mi par di essere ancora
nel guscio;' quanto è poi ad avere e alle ricchezze, non solo
questa vita non mi ha fruttato nulla, ma ne ho avuto di-
* Senza soverchia cura di coltivare la propria persona.
- Per tema che ho di essere tuttavia piccolo e debole appetto a tanti-
altri eo.
IV. liO
300 SECOLO xviir.
scapito. E questo discapito, diss'egli, come ti è doluto? Se
io, dissi, avessi a vivere eterno su la terra, io ti confesso
che ne avrei un profondo rammarico; ma, avendo io fino
al presente passato più che la metà delia vita, e vedendo
che poco andrà eh' io sarò uscito di ogni impaccio, mi vo
confortando con la brevità del tempo avvenire, e me ne
curo poco. Tu hai, ripigliò il vecchio, quel ramo di pazzia,
eh' è surfìciente a poter andare allo insù di questo monte,
e sappi che questo è uno de' bei principj da sperare di
giungere alla cima. Oh ! se tu avessi forza d* ingegno cor-
rispondente a ciò, io ti prometto che tu saresti nato eterno.
Imperciocché io ti potrei noverare che tutti coloro, i quali
giunsero ad avere la ghirlanda dell' alloro dalle mani di
Apollo, come io poco fa dissi nella mia canzone, incomin-
ciarono dall'abbandonare ogni desiderio di mondano bene,
e ogni modo di vivere parve loro buono, purché tirassero
innanzi come potevano la vita. Io medesimo fui uno di quelli.
chiunque tu ti sia, che sei qui giunto, sappi che io sono
colui che cantai l' ira d'Achille e gli errori di Ulisse ; tu dèi
sapere chi sono. Udendo che quegli, al quale io favellava,
era il divino Omero, incominciai a tremare a nervo a nervo,
la voce mi si arrestava nella gola, e dall' un lato la curio-
sità mi spronava a mirarlo bene in faccia, mentre che dal-
l' altro il rispetto mi sforzava ad abbassare gli occhi. Pur
finalmente ripigliando gli smarriti spiriti, gli chiesi scusa
se non l'avea conosciuto prima; imperciocché, avendo io
udito a dire eh' egli era stato cieco, non avrei potuto mai
imaginarmi eh' egli fosse quel desso, dappoiché io lo vedea
ora con due occhi risplendenti, e molto più di quello che si
richiedesse ad un' età cotanto avanzata. Io fui cieco, mi
rispose, è vero; ma tu dèi però sapere che non fui cosi
per tutto il corso della mia vita ; di che ti narrerò una
storia, che non avrai forse udita giammai, come quella che
non fu saputa da uomo veruno.
Io fui negli anni della mia fanciullezza cieco, ed essendo
dalla povertà consumato, vissi delle limosine, che mi faceano
j greci di città in città, cantando io nelle piazze diverse
canzoni da me composte in lode di quelle genti, che stavano
intorno ad udirmi. Questa mia cetera, che porto ancora al
collo, una buona voce ed un incendio di passioni, che mi arde-
vano nel petto, aggiunte ad un ingegno subitane e perspi-
cace, mi rendevano uno squisito poeta; maravigliandosi ogni
uomo che senza luce degli occhi potessi tanto sapere. Ma
non essendo io. sviato dalla varietà degli oggetti, ch'entrano
a sturbare l'intelletto per gli occhi, passava il mio tempo in
continue meditazioni; e vivendo nelle pubbliche vie, negli
alberghi pubblici e qua e colà per le botteghe, ebbi occasione
di udire a favellare ogni genere di genti, le quali di varie
cose ragionando gittavano nella mia mente quelle sementi,
che con la meditazione poi germogliavano, e facevano frutto.
GASPARE GOZZI. 307
Non ti potrei dire qual concetto avessi in me formato però
degli uomini; perchè, non vedendo punto le loro opei-azioni,
ed in elVetto essendo da quelli sostenuto con le ìdv^ìwzze,
che mi usavano, diceva fra me: Oh che buona, anzi divina
pasta sono costoro! Vedi con quanto amore e con quale beni-
gnità mi prestano nelle mie occorrenze assistenza! Ma co-
nobbi tìnalmente che tutto ciò facevano per le canzoni, ch'io
cantava in lode loro. Imperciocché, essendo io giunto un
giorno al tempio di Esculapio, e fatto quivi una cordiale
preghiera acciocché egli mi facesse grazia di concedere agli
occhi miei quella luce, che non aveano avuta mai, udì le
mie preghiere il pietoso nume, ed ebbi per la prima volta
la vista. Oh non avessi mai pregato il cielo di favore si
fatto ! Che, non sì tosto ebbi ricevuta la facoltà di vedere,
conobbi a poco a poco quello che non avea saputo giammai ;
e quegli uomini, ch'io avrei prima giurato che fossero tanti
mansueti agnelli, compresi che erano lupi, tigi'i e lioni, che
si mangiavano le carni del corpo l'uno con l'altro. Quello
fu il punto, che non mi lasciò più aver bene, perchè mosso
da compassione del mio prossimo, incominciai, secondo che
vedeva certe male operazioni, a volere ammonire ora questo,
ora quello, e, credendomi di far bene, a cantar per le vie
qualche buon pezzo di morale; onde mi avvenne il contrario
di quel che credea. Tutti mi voltavano le spalle, e vi erano
di quelli che dicevano mille mali del fatto mio, e altri, non
contenti di ciò, me lo dicevano in faccia, e vi furono alcuni,
che mi discacciarono dal paese loro; tanto eh' io fui obbli-
gato ad andarmene ramingo ora in questo luogo ed ora in
quello, quasi senza più saper dove ricoverarmi. Giunto final-
mente a questo luogo, dove al presente mi vedi, posimi per
istracco a sedere sopra questo sasso, considerando fra me
quello che dovessi fare, parte sdegnato contro alla perver-
sità delle genti, e parte volonteroso di ricondurle, per quanto
a me era conceduto, al cammino della verità e ad un umano
costume. Allora dall'alto di questa montagna udii un'altis-
sima voce, che a sé mi chiamò, e mi disse : Omero, la tua
buona intenzione è veduta e commendata dagl'Iddii, ai quali
sei caro. Incomincia il tuo cammino, e non temere di nulla;
che la maldicenza non ti potrà punto nuocere, e si disper-
derà da' venti, che seco portano le cose leggiere. S' egli ti
dà l'animo di vivere con parsimonia e di non curarti punto
di agj e di abbondanza di corporei beni, avrai quassù, dove
io sono, immortalità di nome, e sarai maraviglia di quanti
dopo di te verranno. Questa magnitìca promessa mi empiè
tutto l'animo di sé; e promisi alla sconosciuta voce di fare
ogni suo volere, dimenticandomi di tutte le cose terrene;
e incontanente vidi un luminoso raggio, che mi dimostrava
il cammino a salire. Con tutto che io avessi l' invisibile ajuto
degr Iddìi, non ti potrei dire a mezzo quanto fu il mio su-
dore e lo stento prima che pervenissi alla pommità della
308 SECOLO XVIII.
montagna; ma finalmente, superato ogni ostacolo, a capo
(li parecchi anni mi trovai su la cima di quella. Io non ti
narrerò le accoglienze che n' ebbi, né i bene armonizzati
suoni e i balli delle leggiadre Muse, che costassù alber-
gano, ma solo ti dirò ch'egli mi parve di essere divenuto
altr'uomo da quello ch'io era prima; i pensieri miei si fe-
cero più vigorosi e più maschi, la voce più gagliarda, e
questa mia cetera, tócca da me costassù, parca un incan-
tesimo a me stesso. Quivi appresi ogni bella dottrina alla
sua fonte, e nelle selve abitate dalle deità mi venne voglia
un giorno di domandare ad una delle Muse, che mi dicesse
« lo sdegno orrendo del Pelide Achille, che diede infiniti tra-
vagli agli Achivi, e mandò molte generose vite di eroi a
Pluto prima del tempo, e gli fece preda a' cani e agli uccelli
del cielo. » Al che ella rispose, « che questo era stato vo-
lere di Giove. » E così dicendo mi empiè il capo di tante
imagini e di tanti pensieri, eh' ebbi materia da riempiere
ventiquattro libri ; nei quali feci vedere gli effetti delle
umane passioni, lodai la virtù, dimostrai i segreti delle
deità, la nobiltà del valore, il potere dell' eloquenza e tante
altre cose, che a me medesimo parve impossibile di averne
tante sapute, e certo io non le sapea, se non fossi stato dal
cielo ispirato. Anzi per non riuscire spiacevole agli uomini,
cantai di coloro ch'erano già morti, acciocché le mie lodi
non si acquistassero la taccia di adulazione e i biasimi di
satira, ma nelle persone già uscite di vita si vedesse uno
specchio delle virtù e de' vizj che vivono, senza insuper-
birsi o sdegnarsi di quello che si legge, perchè non toccando
punto il leggitore, nascesse in lui semplicemente l'amore
alla virtù e l'abborrimento del vizio. Né parendomi ancora
di aver fatto tutto quel bene, che avrei potuto fare, termi-
nato eh' ebbi la Iliade posi mano a raccontare gli errori di
Ulisse e i varj casi e pericoli, ne' quali egli era incorso, per
far conoscere in qual forma si dovessero gli uomini dipor-
tare ne' male avventurati punti della vita loro, e provare
che la sofferenza è il superlativo rimedio di ogni cosa. Quando
io ebbi terminate queste due opere, fui dalle ]\Iuse accettato
nella compagnia loro per sempre, e mi fu dato l' uffizio di
guidar quassù coloro, che fossero amanti della sommità di
questa montagna. E quanti, diss' io, sono in qua passati dap-
poiché tu ci se', Omero? Pochi, rispose ; ma non mi fare
entrare in questa briga, perchè sarebbe una lunga inteme-
rata* a dire le ragioni, per le quali così picciol numero è
privilegiato. Oltre di che mi viene anche fatta da Apollo
proibizione di palesare questo segreto, prendendosi egli
spasso nel vedere continuamente un gran numero di per-
sone, le quali si credono di essere in su la cima, e si di-
guazzano colà fra le pozzanghere di quella valle, chiamando
* Filastrocca, e dicesi dei discorsi lunghi.
I
I
GASPARE GOZZI. 309
anitre e oche i candidissimi cij^ni, che nuotano nelle puris-
sime onde del rermèsso ; di c!ie Apollo si la spettacolo o
commedia, e non vuole che gli infangati ricevano di ciò av-
viso veruno, ma si stiano a guisa di mignatte e di tinche
nel loro pantano, stimando di batter lo ale per l'immenso
circuito dell' Olimpo. ISla non ne ragioniamo più, e dimmi
se vuoi dar principio al tuo viaggio. Ben sai che io mi
struggo di voglia, rispos' io. E già lo pregava ch'egli mi
andasse innanzi, e mi parca di vedere.... Madie? Le mat-
tutine voci de' venditori di frasche e ciarpe, altamente gri-
dando per la via, mi destarono, e non vidi più nò Onieio
né la montagna, ma mi trovai nel letto con lo stampatore
all' uscio, che mi sollecitava per avere il foglio. — (Dall'Oó-
servatore veneto, ed. Spagni, pag. 303 e segg.)
La gloria umana, Dialogo. — Alessandro Magno. Egli è bene
il vero che, se io avessi potuto vivere più a lungo nel mondo,
avrei accresciuta la mia fama, e sarei trascorso dall' un capo
all'altro della terra con l'esercito mio, abbattendo città e sog-
giogando nazioni ; di che avrei avuto maggior gloria che qua-
liintiue altro re della terra. Ma che s' ha a fare? Quel gran
cuore, eh' io ebbi nell' assalire città e nelT attaccare eserciti,
egli è bene che lo porti meco anche in questo bujo della se-
conda vita. Io non era però immortale. Quanto è alla favola
dell'essere ligliuolo di Giove, basta ch'io la dessi ad inten-
dere a' soldati miei, acciocché si animassero nelle zufle, e a
(pie' golii popoli, contro a' quali io movea l'armi, acciocché
riputando d' avere a contrastare con la prole del sommo
Giove, venissero sbigottiti e con le mani mozze dallo spa-
vento ad azzuffarsi meco. Quello che mi duole si é, ch'es-
sendo accostumato Alessandro ad avere un gi'ande accompa-
gnamento intorno e una calca di condottieri d'armi, d'amici,
(li servi, di schiavi, egli sia ora stato gittate sopra questa
riva da Caronte, nudo e solo, tanto ch'io non vegga alcuno
(la potergli chieiJere la via ; e qui é un' aria cosi grassa e
nuvolosa, che non so da qual parte debba andare.
Diogene. Alessandro.
Alessandro. Chi mi chiama?
Biogene. Colui che, standosi una volta nella botte a suo
grandissimo agio, ti domandò che non gli togliessi quello
che non gli potevi dare. Vedi tu ora s'io ti diceva il vero?
Qui non c'è sole, e tutta la possanza tua non ce ne potrebbe
far entrare un raggio.
Alessandro. Tu sei dunque Diogene? Oh quanto m' è caro
il rivederti! Io ti giuro che, quando mi partii da te, tanto
mi piacque la sapienza tua, che dissi a coloro che meco erano,
che, da Alessandro in fuori, io avrei voluto essere Diogei:©..
Diogene. E io non avrei voluto essere altri che cuhjìjIì!
ch'io ei'a, perchè sapeva che tanto era infine l'essere Dio»'
gene, quanto Alessandro. Vedi tu questi luoghi? Qui £Ce::.;Iò
I
310 SECOLO XVIII.
ogni uomo; e tanto gli è Tessere stato con un robone reale
intorno e con lo scettro in mimo, (jujinto con un mantelletto
logoro e con un bastoncello. Ad ogni modo, e tu ed io ab-
biamo lasciato costassù ogni cosa; tu la grandezza e son-
tuosità dnlJe tue ricamate vesti, ed io il mio rappezzato
mantello. Non abbiamo più cencio clie ci copra; il che non
pare a me strano, essendo stato al mondo più vicino alla
nudità di quello che tu fossi tu, il quale, non contento de'tuoi
vestiti alla greca, ti volesti anche coprire il corpo all' usanza
di que" paesi, ne' quali entravi vittorioso.
Alessandro. Diogene, io avrei però creduto che ad Ales-
sandro anche uscito del mondo s'avesse a favellare con mi-
glior garbo. Non ho lasciato costassù cosi poca fama delle
opere mie, che non se n' abbia a sapere qualche cosa fra
queste tenebre.
Diogene. Ben sai che si, che la fama tua deve essere
giunta in questi luoghi. Tu hai con lo sterminio delle tue
battaglie fatte fioccare tante anime su questa riva, eh' io ti
so dire che il nome tuo risuona da ogni lato. Non vi ha can-
tuccio in tutte queste contrade, dove tu non sia altamente
commendato dell' avere spiccati i giovanetti figliuoli dalle
braccia de' padri, e lasciati quegli infelici vecchi privi del
sussidio della gioventù, che dovea loro giovare; sei messo
in cielo da' mariti, a' quali convenne lasciar le mogli sposate
di fresco in mano de' tuoi soldati; benedetto da' tuoi soldati
medesimi, che per servire alla tua albagia sono discesi
quaggiù neir età loro più verde e fiorita.
Alessandro. Quasi quasi a questo modo io crederei di
non poter aver conversazione con ombra veruna. Dovrò io
dunque stare cosi da me solo a guisa d' un arrabbiato, e fug-
gito da ognuno?
Biogene. Di questo non dubitare. Ci sono rigide leggi di
Radamanto, le quali vietano al tutto di fare vendetta. Anzi
voglio che tu sappia che, quando uno è uscito di vita, i suoi
più sfidati nemici gli perdonano ogni cosa, e non si ragiona
più di quanto è stato al mondo. Sicché vieni pure sicura-
mente, che tu sarai il ben veduto, quando io dirò loro chi
tu sei, e verrai conosciuto. Che hai tu? Perchè taci? A che
pensi così attonito e uscito quasi di te medesimo?
Alessandro. Come? Avrò io dunque bisogno per essere
conosciuto dagli amici o da' nemici miei che tu dica loro chi
io sono, e che tu mi faccia loro conoscere? Sarebbe mai
anche ignoto Alessandro in queste contrade?
Biogene. Se tu non ti fossi nominato da te medesimo da
principio, credi tu che Diogene t' avrebbe ratìSgurato ? Buono
per mia fé ! E che sì, che tu credi di avere ancora quel viso
che avevi al mondo? E, se tu pensi d'essere riconosciuto
per monarca, io vorrei che tu considerassi in qual modo e
a quali insegne si possa conoscere qual fosse la dignità di
un uomo, che non ha neppure la camicia indosso. Hai tu la
GASPARE GOZZI. 311
corona? Hai tu lo scettro? Qiial differenza è ora da te ad
ogni altro uomo del mondo? Se non di' che tu se' Alessandro,
che tu eri il re de' Macedoni, chi l'ha a indovinare?
Alessandro. Misero me ! Sono io dunque cotanto trasfi-
gurato da quello che soleva essere? Ma s'io non ho quella
prima faccia, se qui sono disceso senza le mie insegne di re,
e egli però possibile che, non conoscendomi alcuno per Ales-
sandro, non si avvegga almeno ch'io fui uomo daiiualche cosa?
Diof/ene. Quanto è poi a questo, tu sarai riconosciuto
secondo quello che comprenderanno l'ombre dal tuo i-agio-
nare. Kpperò abbi cervello, e ragiona da uomo ; perchè cosi
al primo si giudicherà di te secondo quello che t' uscirà della
lingua. Sai tu che ti potrebbero uscire parole, che così nudo,
benché fossi Alessandro Magno, potresti essere creduto un
villano, un portatore di pesi a prezzo, un ladrone, o cos' al-
tra somigliante?
Alessandro. Diogene, tu hai perduta la vita, ma non
l'usanza tua. Ora m'avveggo io che tu mi dai ad intendere
una cosa impossibile, per aver campo d'esercitare la tua
maldicenza ed essere in questi luoghi quel medesimo cane,
che andava mordendo ogni uomo sopra la terra.
Diof/ene. Non la crederesti già tu cosa impossibile, se
non fossi ancora gonfiato i polmoni da quel vento d'amore
di te medesimo, che ti sollìò nel corpo quel tuo gran mae-
stro delle adulazioni, Aristotile. Ma odi me : se tu non pre-
sti fede al mio ragionare, voglio che tu ti chiarisca da te
medesimo. Io ho poco fa lasciato Dario a ragionamento con
un pecorajo. Vien meco. Io voglio che, appiattati dietro ad
un cespuglio, stiamo ad udire quello di che favellano. Quando
avrai udito, dimmi tu : Questi è Dario, e quegli è il peco-
rajo. Ne lascio l'impaccio a te, dappoiché tu hai tanto acuto
discernimento.
Alessandro. Della buonavoglia!^ Non potrebb' essere che
i sentimenti del pecorajo avessero in sé la grandezza di quelli
d'un re, o che quelli del tq fossero vili come quelli d'un
pecorajo. Andiamo.
Diogene. Non importano le parole, dov'è vicina la spe-
rienza. A' latti. Quanto c'è di buono, si è che l'ombre non
indugiano troppo a camminare per la loro leggerezza. Ec-
coci. Appiattati dietro a questo macchione. Vedi tu? L'uno
ò Dario, e l'altro il pecorajo. Esaminagli prima bene, e dimmi
se tu sai stabilire a veduta (lual di essi sia il re e quale il
custode delle pecore.
Alessandro. A dirti il vero, io non so fare questa distin-
zione. Ninno d'essi ha panni intorno; né veggo negli aspetti
loro segno veruno che me ne avvisi.
Diogene. Zitto dunque, e ascolta.
Pecorajo. Non è cos'i gran cosa il signoreggiare i popoli,
• Più comunemente di buona vofjUa: orsù.
312 SECOLO XVIII.
credimi, quale tu di' eli" olla è. Io non saprei teco meglio
esprimere la mia intenzione, che dipingendoti innanzi agli
occhi un branco di pecore. Se tu imagini che le genti sieno
quasi le tue pecorelle, eccole sotto ad un governo felice.
Incontanente tu avrai cura di custodirle per modo, che i
lupi non le trafughino, che i ladroni non tendano ad esse
insidie; con grandissima cautela le condurrai poco da lungi
dall'ovile ; tutte tutte le conoscerai, tutte le avrai care. Le
guiderai per le vie più sicure e fuori d'ogni pericolo; ren-
derai pieghevoli alla tua voce i cani, sicché, quasi secondi
pastori, ubbidiscano a' comandamenti tuoi. Pensa, e vedrai
che in questa imagine io ho spiegato in breve quello che
debba essere un buon pastore di popolo.
Bario. Bene. Ma tu, a quanto mi pare, vorresti che gli
nomi fossero vóti d'ogni pensiero di sé medesimi. È egli
mai possibile che in tanta grandezza non pensino a pren-
dersi ogni sollazzo? Egli è però un bel che, quel vedersi a
nuotare, per così dire, nell'oro, essere attorniati da una
schiera di femmine, far laute cene, tracannare in tazzoni
d'oro e d'argento; quando un povero guardiano di capre
appena ha di che cavarsi la più menoma vogliuzza, e a
stento ritrova di che vivere, ed ha sempre a pensare e a
storiare per mantenere un branco di bestie.
Diogene. Hai tu udito, Alessandro? Che ti pare? Gli hai
tu conosciuti?
Alessandro. Ben sai che si. Non udisti tu come quel
primo, avendo a fare con un pecorajo, seppe ingegnosamente
accomodarsi alla sua intelligenza, e con la comparazione
delle pecore descrivergli molto bene la forma del reggere
i popoli? All'incontro l'altro, il quale, vivendo in una po-
vera vita, non ha mai potuto cavarsi una voglia, ripieno
ancora di tutte quelle che avea quando era su nel mondo,
non ha altro pensiero che le riccliezze ed i passatempi. Il
jjrimo è Dario, il secondo è il pecorajo.
Diogene. Dario !
Dario. Chi è di qua, che mi chiama?
Alessandro. Ohi oh! maraviglia eh' è questa! Quel primo
fu il pecorajo.
Diogene. Non è già maraviglia a chi é accostumato a s'i
fatte usanze. Vieni, eh' io non ho ora voglia d' entrar qui in
altri ragionamenti. A me basta che tu abbia fino al presente
potuto comprendere che, deposti i vestiti ricchi e risplen-
denti, è difficile che l'uomo si faccia altrui conoscere per
quello che egli era manifesto al mondo. Ma sta', sta', ch'io
odo a parlare di qua. Udiamo.
Un Poeta. chete ombre e felici, in voi ritrovo
Quel ben, che innanzi a me, dov' era luce,
Metteva l'ale, e mi sparìa dagli occhi.
Non ha qui alcun del mio più vago aspetto,
Né per felicità d'oro o di stato
GASPARE GOZZI. 313
Ila più di me clii innanzi a lui s' inchini.
Oh eterna bilancia delia Morte,
Che tutti eguagli ! Kd io misero e cieco
Pur tremar mi sentia lo vene e i polsi
Sol quando udiva a ricordar tuo nome.
Ora, signor di questo spazio immenso,
Dove m'aggrada più, volgo i miei passi,
E solo a me ritrovo ombre simili.
Ben era il ver che l'u mia vita un nodo
Di nervi e d'ossa, onde ristretto e avvinto
In career giacqui ; e tu che mi sciogliesti,
Estremo dì, mia libertà mi désti.
Biogene. Chi ti pare che sia costui ?
Alessandro. A me pare che sia un poeta.
Diogene. E non t'inganni. Eppure, tu vedi, egli se ne va
nudo, come tutte le altre ombre. Ma io voglio che tu sap-
])ia appunto essere questa di (ina la diflerenza che passa
Ira tutte l'altre condizioni degli uomini e (luella che in sua
vita attese alle scienze, alle buone arti. Quantunque tu vegga
così fatte ombre andarsene senza panni indosso, né buoni
nò tristi, appena tu le avrai udite a favellare, tu conoscerai
benissimo qual fosse la loro professione; e, se non saprai
particolarmente i nomi, si intenderai, al primo aprire di
bocca che laranno, qual d'essi su la terra i nobilissimi
studj della lìlosolia nella sua mente ricevesse, quale delle
passate azioni degli uomini la memoria si riompiesse, chi
di eloquenza si fornisse, e in somma chi l'una parte o chi
l'altra dei doni delle santissime Muse eleggesse per guer-
nii'sene l' intelletto. Il che non avviene delle altre ombre,
che quaggiù discendono, le quali prima d'essere note, quan-
tuncjue sieno state al mondo celebrate, debbono palesare il
nomo, il casato e dire tutt' i fatti loro.
Alessandro. Diogene, io mi ti confesso molto obbligato,
che, essendo io venuto in un paese nuovo, tu sia stato il
primo ad avvisarmi delle sue costumanze. Tu mi scacciasti
dinanzi a te nel mondo; ma, io ti prego, non ispiccarti mai,
in questo, dal mio lato.
Biogene. Volentieri. Andiamo, eh' io ti faccia conoscere
all'altre ombre, acciocché tu possa avere conversazione. —
{DixìV Osservatore veneto, ed. Spagni, pag. 524 e segg.)
Dante e il suo Poema.
Dialogo,
fi Doni. Virgilio I
Virgilio. Antonfrancesco !
Il Doni. Tu ci fai di queste beffe! mandi su la terra le
censure,* le fai stampare, e non ci dici nulla?
* Lo censure alle Lettere di Vinjilio agli Arcadi scritte dal Bettinelli
contro Dante.
314 SECOLO XVIII.
Virgilio. Hai tu letto? Tu hai dunque letto eh?
Il boni. Sì, e con molta diligenza.
Virgilio. Se tu hai letto, non potrai credere eh' io sia
stato autore di questi fogli.
Il Boni. Io ci veggo in fronte il tuo nome, non ne vo-
glio saper altro.
Virgilio. Se io non fossi pacifico, tu mi faresti diventare
un aspide. Si può dare fortunaccia somigliante alla mia?
Quando era vivo, vi furono di quelli che davano fuori i miei
versi per frutti del loro capo, e si facevano onore del mio ;
e, ora che son morto, mi appiccano composizioni, eh' io non
ho mai sognato di farle, e mi fanno quell'onore che vedi.
Il Boni. Non è forse onore V esser critico ?
Virgilio. Si, quando la critica è scritta dopo un diligente
esame; ma, quando si censura per dir male solamente, non
si dà lume alle arti, e si acquista nome di satirico.
Il Boni. Siedi qui meco.
Virgilio. Volentieri.
Il Boni. Ombra benedetta, se tu non fossi e io non fossi
ombra, io ti abbraccerei e ti bacerei. Sappi eh' io fui sem-
pre di parere che tu non avessi mano in quella satira, e
n'ebbi questa persuasione a' primi fogli da me letti. Io non
ci vidi quel pie di piombo, col quale andò sempre Virgilio.
Virgilio. Ti ringrazio. Tu di' il vero. Quando vedi una
censura fatta con una filza di opposizioni tutte ad un fiato,
con un certo che di capriccioso, dove la facezia e l'ironia
tenga luogo di ragioni, puoi dire in buona coscienza ch'essa
non viene da quell'arte, che cerca d'illuminare le persone,
ma da capriccio o da voglia di scherzare, per non dire
altro. Qual componimento poetico di qualunque tu voglia
più celebrato scrittore non si potrebbe mettere in burla
con questo metodo? In questa forma, per non dire di altro
poema, che sarebbe Y Iliade? Che altro è dessa, fuor che
un poema di due re di scacchi, che vanno in collera l'uno
contro l'altro per conto di una schiava? E l'uno di essi per
così grave cagione si ostina a non voler combattere, e piange
come un fanciullo più volte. Finalmente per far la vendetta
di un suo amico stato ammazzato, uccide un uomo, che com-
batte seco tremando. In esso poema poi vi entra un vecchio,
che parla come le cicale, un certo gobbuzzo e guercio e
zoppo da un piede, col capo aguzzo e calvo, bastonato come
un tappeto; e i più bei paragoni son tratti dalle mosche.
Ti pare che sia però così fatta V Iliade, Doni mio, se tu la
leggi ?
Il Boni. Non a me ; che anzi si vede eh' essa è l' opera
appunto, come disse Dante,
Di quel signor dell' altissimo canto.
Io non ho però veduto che di Dante in quelle carte si parli
in tal guisa.
Jl
GASPARE GOZZI. 315
Virgilio. Come no? Vedi qua come tutto vi si biasima
ad un tratto. - Si cliiama Divina Cotnmedin per derisione ;
prendo la noja a leg^^erla. Il poeta ha fatto male a faro un
poema dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. Ha di-
viso il poema in parti ripugnanti e lontane. Ha fatto venir
Beatrice a cercarlo, Beatrice, la quale era stata chiamata
da Lucia, che sedeva, non si sa dove, con la bella Rachele.
Oh, un poema in foglio, e bisognoso ad ogni verso di tradu-
zione e spiegazione, d'allegoria, eccetera! — Credi tu però,
che sì fatta censura, cos'i nuda di ragioni, basti ad iscaval-
lare un poema per tanti anni ricevuto e ammirato?
FI Doni. Non io, non lo credo; e, quanto a me, penso
elle si fatto censurare sia da conversazione, e faccia onore
in una bottega o in qualche cerchio d'ingegnetti, fra i quali
lo scherzare e il motteggiare con una certa vivacità, che
frizzi, basta a persuadere. Io però saprei come rispondere
a tutta questa censura in poche parole.
Virgilio. In poche parole no ; perchè il dir male lia
questo vantaggio, eh' ò penetrativo e in breve è creduto,
benché sia detto per dritto e per traverso; ma chi vuol
difendere dalle imputazioni è necessitato a spendere molte
parole e la canna dei polmoni, prima che gli si presti fede.
Versa un po' d'olio sopra un panno, eccoti la macchia in
un batter d'occhio; ma se tu vuoi cacciamela di là, ti va
terra, fatica e sole, e ancora il panno ti resta adombrato.
Tu sai quel che disse Pindaro, che a rovinare una cittìi è
sullìciente un uomo anche debole ; ma a rifarla ci vuole un
gran tempo e la mano di Dio.
Il Doni. Poiché il censore non adduce altre ragioni, fuor
quelle che abbiamo udito, quando egli avesse terminato di
parlare, comincerei dall'altro lato. — Oh com'è dolce e sa-
porita cosa il leggere il poema di Dante, che veramente Di-
viìia Commedia si può chiamare! Oh invenzione maravi-
gliosa e da cervello maschio, un poema dell' Inferno, del
Purgatorio e del Paradiso! Sì potea egli meglio cominciare
che Ungendosi addormentato in quella selva di errori ? E
quella lonza, lione e lupa! si potea egli trovare più bella
allegoria? Bellissimo ingegno a ridurre ad un filo cos'i unito,
parti fra sé cos'i ripugnanti e lontane. E quella Beatrice e
Lucia e Rachele, quando si ha pratica della nostra religione
e delle scritture degli antichi Padri della Chiesa, si poteano
adattar meglio? Se il poema é in foglio, trovasi anclie in
quarto, in ottavo e in dodici. Le traduzioni e spiegazioni
non sono necessarie al poema, ma a chi non ha conoscenza
di un linguaggio, che si usava ora fa trecent'anni, e della
storia di que' tempi, e le interpretazioni delle allegorie ab-
bisognano, perchè il poema è allegorico, avendo sempre
Dante fatto professione e detto egli medesimo di avere
scritto allegoricamente. — Questa è la risposta mia, la quale
io so bene altro non essere che un carro di ciance ; ma è
310 SECOLO XVIII.
forse altra cosa l'opposizione! A chi non adduce ragioni
del suo censurare mi parrebbe di avere risposto abbastanza.
Yirgilio. Doni mio, non basta. Tu sai il tuo proverbio:
Chi ode non disode poi. Quando la censura ha messo nel
cuore degli ascoltanti quanto è largo un dito di radice,
fa' conto che trova un fondo fruttifero, e che vi fa una ga-
gliarda prova, e si allarga subitamente; tanto che per isra-
dicare quell'opinione si dee adoperare le mani e appuntare
i piedi. Come mai potresti tu rispondere in poche parole,
per esempio, laddove il censore ti dice&se che quello non
è il vero Inferno, ne il Purgatorio, nò il Paradiso, con queste
poche parole; vedi qua alle carte dieci: « Oh che dannate
e purganti e beate anime son quelle! e in qual Inferno, in
qual Purgatorio, in qual Paradiso son collocate!... Tutti poi,
quanti sono, ciarlieri e loquacissimi di mezzo ai tormenti o
alla beatitudine, e non mai stanchi di raccontare le loro
strane avventure, in risolvere dubbj teologici o in domandar
novelle di mille Toscani loro amici o nemici, e che so io ! »
Il Doni. A' poeti, direi, è lecito di fingere molte cose,
quando non si partano dal verisimile. Oh ! non vi sono stati
di quelli, che hanno detto che una parte di persone hanno
il loro purgatorio a questo mondo? e pure non furono
poeti. Ed egli mi ricorda eh' io lessi già in un picciolo li-
bricciuolo assai raro, intitolato Apoftemnii degli Ebrei e
degli Arabi, un parere di quegli antichi dottori in legge, ed
è questo, che tre sorte di persone non anderanno nel fuoco
del Purgatorio : prima le persone, che vivono nel mondo a
stento, e hanno sempre a' fianchi la necessità e la fame ; in
secondo, coloro che hanno pubblici ufficj ; e in terzo luogo
i mal maritati. Chi ha bisogno, diceva queir autore, ha un
fuoco addosso, che cuoce, purga e netta ogni ruggine, che
tu avessi intorno, d'iniquità : quelli, che hanno pubblici uf-
ficj, hanno tanto a soflferire dalle lingue e dalla malignità
altrui, che si purgano di ogni macula, se hanno pazienza
di sofferire ; e i mal maritati hanno anch'essi il fuoco alle
calcagna continuo. Il trovato di Dante sarà simile a questo ;
io non ne voglio cercar altro.
Virgilio. A un di presso tu hai tócco il segno cosi scher-
zando, che Dante volesse intendere de' mali e de' beni, che
hanno gli uomini su la terra, e non in questo mondo di qua. ^la
non voglio però che tu risponda con ischerzi in una materia
di cotanta importanza. Vuoi tu sapere il pensiero di Dante ?
Il Boni. Io r avrei caro quanto si potesse avere ogni al-
tra cosa.
Yirgilio. Sta' ad udir me. Il censore biasima prima che
quell'Inferno non sia Inferno, quel Purgatorio non sia Pur-
gatorio, e quel Paradiso non sia Paradiso. E qui sono io
del suo parere ; ma ti dico io bene che allegoricamente
quello è lo stato de' viziosi ostinati, di quelli che si emen-
dano, e de' giusti su la terra.
GASPARE GOZZI. 317
Il Doni. Oh allegoricamente ! dii\à il censore. Ecco di
que' miracoli, che i glossatori trovano in Dante ; ecco i sogni
di coloro, che lo vogliono esaltare !
Virgilio. Se quello scrittore ha detto sempre che le opere
sue hanno più sensi, uno letterale e uno allegorico, perchè
saranno invenzioni e sogni d' altrui interpretarlo secondo la
sua volontà^ e s'egli mai lo disse di verun' altra cosa sua,
r alYermò pure di questa sua Coniìnedia. Tu sai bene eh' egli
dedicò quella parte di essa, che Paradiso è intitolata, a Can
(Jrande della Scala, e che, dopo avergli detto diverse parole
intorno alla sua Commedia, gli dichiara eh' è moltisensa,
cioè di più sensi, e che secondo il litterale, preso semplice-
mente, s' intende lo stato delle anime dopo la morte, ma
che a raccogliere il senso allegorico il poeta tratta del-
rinferno del mondo, in cui gli uomini, come pellegrini, me-
ritano bene o male. A ([uesto modo dunque il censore non
mi può negare ch'io possa interpretare il senso allegorico
di quel poema secondo la volontà, del poeta, e dire che quei
tre luoghi cosi descritti vogliano signilicare lo stato delle
anime, mentre che sono nel corpo loro.
Il Doni. Bene. Andiamo avanti.
Xirgilio. Per dare però un buon fondamento alla sua al-
legoria non pensare ch'egli la traesse dal suo capriccio, e
che quelle pene infernali non abbiano un principio tratto da
origini delle più nobili e maestose, che avesse la divina
poesia nel mondo.
Il Doni. Da quale poesia?
Virgilio. Da quella de' Profeti.
Il Doni. Ah taci, Virgilio, che il censore non vuole che
tocchi a te il ragionare di certe cose. Non sai tu ch'egli si
ride che tu nella Commedia di Dante parli di teologia, e
dici ìnaladetto lupo a Pluto, che tu avevi messo in un trono,
mentre che vivevi nel mondo?
Virgilio. Fratel mio, dappoiché venni di qua, ho cam-
biato parere, e non son più pagano come già fui, onde con
ottima convenienza di costume potè farmi parlar Dante se-
condo la sua religione ; benché di teologia, come afl'erma il
censore. Dante non mi facesse parlare o poco, e quasi sem-
pre io mi rimetteva a quello che gliene avrebbe detto Bea-
trice : se ti ricordi del Canto diciottesimo del Purgatorio,
eh' io gli dissi a proposito di una sua domanda :
Quanto ragion qui vetìc
Dir ti poss' io ; da indi in là t'aspetta
Pure a Beatrice, eh' è opra di fede.
i; COSI feci più volte.
Il Doni. Allega dunque i Profeti quanto vuoi, che tu mi
hai fatto capace.
Virgilio. Dai Profeti dunque egli trasse per lo più l'ori-
gine di quelle sue pene ; e fra gli altri te ne voglio fur
L
318 SECOLO XVIII.
vedere un esempio a proposito dei golosi. « Guai a voi, o
vigorose genti nel bere vino (dice Isaia, capo V), e uomini
massicci a mescere ebbrezza I » E poco dopo : « Si contur-
bano i monti, e i corpi degli uomini caduti morti da se diven-
tarono quasi sterco nel mezzo delle piazze. » E al capo XXVIII
contra gli stessi : « Ecco Iddio valido e forte come impeto
di grandine ; procella che frange, come impeto di molte
inondatrici acque sparse su la spaziosa terra. La corona di
superbia degli ebbri d' Efraim sarà da' piedi conculcata. »
E spesso questo gastigo lo chiama flagello inondatore. Sovra
tal fondamento dunque posò Dante, come colui che di tali
scritture peritissimo era, la sua invenzione. Odi come son
trattati i golosi nel suo Inferno :
lo sono al terzo ceixhio della piova,
Eterna, maledetta, fredda e greve :
Regola e qualità mai non I' è nuova.
Grandine grossa, e acqua tinta e neve
Per r aere tenebroso si riversa ;
Pute la terra, che questo riceve.
Sicché eccoti la grandine, T acqua di ogni qualità e il
fetore del terreno; e se vai più oltre, son si fatte genti
distese in terra, nel fango e strapazzate. E però vedi, se-
condo il senso litterale, che tal può essere fra' morti la pu-
nizione de' dediti alla gola, quale la dipinsero i Profeti.
Il Doni. Bene sta ; ma vorrei che tu mi cavassi da questa
pittura il senso allegorico dello stato, che in questo mondo
hanno i ghiotti, perchè io veggo eh' essi vivono sempre
lieti, e si ungono la gola benissimo ; e, se nessuno ha rubi-
condo il viso ed è senza pensieri, sono essi. E giungivi che
per Io più sono persone liete, facete, motteggiatrici, ben ve-
dute per tutto, e dicono novelle, e sanno mille cose de' fatti
degli altri. Perlo più ho veduti tutti costoro grassi, ch'erano
una bellezza, e non so quello che abbia a fare la grandine
e la pioggia o la neve, né quel terreno puzzolente, che hanno
sotto, perchè gli odori delle salse non puzzano, né i vini
della Grecia, delle Canarie e di tanti altri luoghi della terra
offendono le narici.
Yirgilio. Tu mi di' appunto tutto quello eli' è vizio ; e vi
potevi anche aggiungere che cotesti tali hanno quasi sem-
pre una nuvola nel capo, che gli fa dormire ; onde non sen-
tono la metà delle disgrazie, e siedono volentieri su i mor-
bidi sedili, che hanno preso il nome da Canòpo ; onde si
stanno agiati; e altri vantaggi, che hanno per qualche tempo.
Ma egli si deve vedere gli effetti di questo continuo trionfare,
e là vedrai il gastigo accennato da Dante : « Oh quanti son
mai que'mali, che nascono dalla delizia delle mense; che
tramutano gli uomini in porci e peggiori de' porci ! Volto-
lasi il porco nel fango, e dello sterco si nutrisce.... e fa
pella bocca, degli occhi e delle narici fogne e cloache. Guar-
GASPARE GOZZI. 319
dagli dentro, vedrai anima gelata da verno e freddo, istu-
pidita, che per lo furore della procella non può la nave
ajutare. »
Il Doni. Quall'altezza di stile hai tu trovata, Virgilio!
Virgilio. Non ti ho detto cosa di mio capo ; queste sono pa-
role di un vostro santo Padre (San Giangrisostomo, tom. VII,
e. 582) ; il quale più volte parla del vizio della gola, e sem-
pre con questo tòno, e dice tutti i mali dell'animo e del
corpo, eh' essa fa, che molto somigliano alla punizione in-
ventata da Dante. Per la qual cosa, se sono reumatici, apo-
pletici, entìati il ventre, lividi o rossi gli occhi e pieni di
altre magagne, tu gli darai ragione eh' egli dicesse poi :
Urlar gli fa la pioggia come cani;
Dell' un de' lati fanno all'altro schermo;
Volgonsi spesso i miseri profani.
Il Doni. A me pare che questo supplizio de' golosi sia
pensato benissimo. E ora mi viene a memoria la spiega-
zione, che a questo passo fa il Boccaccio nel suo Comento
sopra Dante (Lez. XXV), che si accorda molto a quanto tu
hai detto. Virgilio, essa è scritta assai bene. Odila.
« Pare convenirsi che contro a loro voglia, in male e
in pena di loro, senza levarsi giacciono in eterno distesi,
col loro spesso volgersi testificando i dolorosi movimenti,
i quali per lo soperchio cibo già di diverse torsioni loro
furono cagione ; e, com' essi di diversi liquori e di varj vini
il misero gusto appagarono, così qui sieno da varie qualità,
di piova percossi ed afllitti ; intendendo per la grandine
grossa che gli percuote, la crudità degl'indigesti cibi, la
quale per non potere essi per lo soperchio dallo stomaco
esser cotti, generò ne' miseri T aggroppamento de' nervi
nelle giunture ; e per 1' acqua tinta non solamente rivocare
nella memoria i vini esquisiti, il soperchio de' quali simil-
mente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe,
per gli occhi e per altri parti del corpo sozzi e fastidiosi
vivendo versarono ; e per la neve, il male condensato nutri-
mento, per lo quale non lucidi, ma invetriati e spesso di
vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati ; e così,
com' essi non furono contenti solamente alle dilicate vivande,
né a'savorosi vini, né eziandio a'salsamenti spesso eccitanti
il pigro e addormentato appetito, ma gli vollono dalle in-
diane spezie e dalle sabee odoriferi, vuole la divina Giu-
stizia eh' essi sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra
offesi, e abbiano in luogo delle mense il fastidioso letto, che
r autore descrive. »
Virgilio. Dice il Boccaccio quello stesso, che di questo
vizio dissero le Scritture, i Santi Padri e Dante. Piglialo per
l'Inferno di qua o per quello che i golosi hanno al mondo,
il siipjUizio loro sembra a me pensato benissimo, se vi
aggiungi anche Cerbero, specchio dell' ingordigia, che tutto
320 SECOLO xviir.
trangugia, e strale della coscienza, che punge, e verme,
perchè è in quel fango, e verme, perchè cosi fu da Isaia la
coscienza chiamata. Ne vuoi tu più?
Il Doni. Quanto ad una parte delTopposizione, questa è
buona risposta; ma quanto all'altra, che tutte queir «anime
sono ciarliere e loquacissime di mezzo ai tormenti o alla
beatitudine», che si avrebbe a dire?
Virgilio. Che ti pare che voglia insegnar Dante nel suo
poema ?
Il Doni. La morale e le virtù cristiane.
Yirgilio. E che ti pare che Omero neìV Iliade ^ e che vo-
lessi insegnare io neir Eneide ?
Il Doni. A me pare Tarte dell'assediar le città, del com-
battere, del regger popoli, de' riti gentili e si fatte cose.
Yirgilio. E perciò tu avrai spesso trovato che i perso-
naggi da noi introdotti parlavano di tali faccende, come i
personaggi introdotti da Dante parlano di morale e di cri-
stiane virtù. E, se questi favellano di mezzo a' tormenti,
spesso due guerrieri pieni di furore e di rabbia si arrestano
neìV Iliade per ragionare ; perchè un poema di persone mu-
tole non fu ancora chi imaginasse di farlo. — (Dal Giudizio
degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante.)
Invito in villa. Lettera ad A. F. Seghezzi. — Oh come sono
stanco e sazio che ci facciamo all' amore da lontano con
letteruzze spasimate, come gì' innamorati che non possono
vedersi ! Consolatemi una volta, consolatemi. Questa vil-
letta si terrebbe da qualche cosa, se un di la voleste ono-
rare con la presenza vostra ; e se il mio piccioletto ospizio
vi potesse raccogliere, che allegrezza sarebbe la mia 1 Oh
che canzonette profumate vorrei che noi andassimo alter-
nativamente recitando a mezza voce sulla riva di questa
Metuna ! Sappiate, che per li poeti queste sono arie bene-
dette, e che un miglio lontano da casa mia v' è quel Non-
cello, sulle rive del quale camminò un tempo il Navagero.
Non v' accerto che vi sieno più dentro le ninfe, come a
que' di ; ma vi sono però trotto e temoli che vagliene una
ninfa l' uno. Orsù via, una barchetta fino alla Fossetta, e poi
mettetevi, al nome del Signore, nelle mani d' un vetturale,
il quale, quando sarete giunto alla Motta, vi consegnerà a
un altro suo collega, e di là a due ore poco più ritrove-
rete questa villetta di eh' io vi parlo. E vero che la strada
è alquanto fastidiosa, perchè a voi che siete accostumato
alla gloriosa e magnifica Brenta, dove a ogni passo vedete
un palagio, parrà facilmente strano il vedere ora casacce
diroccate, ora una fila d'alberi lunga lunga e terra terra,
senza un cristiano ; ma fra 'l dormire un pochette, la scu-
riada,^ e forse i campanelli al collo de' cavalli, potete pas-
^ I colpi di frusta ai cavalli.
I
PROSPERO MANARA. 321
sare il tempo. Quando poi sarete giunto qui, dieci o dodici
l'osignuoli nascosti in una siepe vi l'aranno la prima acco-
glienza, elio mai non avrete udito gole più soavi. Io sarò
all' uscio, vi correrò incontro a braccia aperte cantando
un alleluja. Sarete subito corteggiato da capponi, da anitre,
<la pollastri e da polli d' India, che vi faranno la ruota in-
torno come i pavoni. Forse questo vi darò, noja ; ma biso-
gnerà aver pazienza, perchè sarebbe impossibile che questt^
bestie non volessero venire a dirvi, che vi saranno ubbi-
dienti e fedeli, e che hanno voglia di dar la vita per voi,
che si lasceranno l)olliro, infilzare e tagliare a quarti e ji
squarci. Condottiera di questo esercito è una zoppettina vil-
lanella, che mai non vedeste la miglior pasta, perdi' ella
ama così di cuore questi suoi allievi, che ad ogni tirar di
collo s' intenerisce, e accompagna la morte de' suoi pollastri
figliuoli con qualclie lagrimetta. Il bere sarà d' un vino co-
lorito come i rubini, che va in un momento e appena in-
gozzato, dal collo alla vescica, e poi in terra. Pane abbiamo
bianchissimo, come neve che fiocchi allora ; ma sopra tutto
un'allegrezza di cuore, che non si canta sempre, perchè la
voce manca più presto della contentezza. Se queste cosette
nulla' possono in voi, invitate una gondola, entratevi col
valigino o col baule, e tirate Via alla distesa, ch'io vi de-
sidero come un ammalato la sua salute.
PROSPERO MANARA.
Di Borgo Taro nel Parmigiano, e di famiglia niarcluoualc, nac-
(luo ai 14 aprilo 1714. Trasferitosi a Parma durante il reggimento
borbonico, venne dal Dii Tillot introdotto In corte, ove fu, succes-
sivamente, vice-ajo, maggiordomo, consiglier di Stato, gentiluomo
di camera, maestro dell'infante Lodovico, e tinalmente, ormai vec-
chio, primo ministro dall' '81 fino al 1787: morì ai 18 febbraio 1800.
Tradusse le Egloghe di Virgilio in terza rima e poi la Cìcorgica
in sciolti ; può vedersi il giudizio di questo versioni, raffrontate eoi
testo e con altre, nella biografìa del Manara data dall' Ugoni nella
Continuazione al CORNIANI ; e scrisse anche parecchie liriche, rac-
colte poi da mons. Cerati, che vi prepose V Elogio dell' autore
(Parma, Bodoni, 1801, 4 volumi).
[Oltre i cit, aut., vedi, per la biografia, A. Pezzana, Memorie
degli scrittori parmigiani, Parma, Tipogr. ducale, 1833, voi. VII, "231 ,
e A. AvOLEDO, La vita e le opere di F. Manara, Piacenza, Sta-
bilim. tipografico, 1899.)
' Punto punto,
IV. £1
■
822 8EC0L0 XVIII.
Alle Campane.
Nel giorno della commemorazione dei morii.
Cessa, bronzo lugubre, il tristo metro.
Che il ferreo eterno sonno ahi ! mi ricorda.
Ecco già col pensier vivo penetro
Nella tomba del mio cenere ingorda.
Già mi stese nelT orrido feretro
Morte, del sangue de' miei padri lorda ;
E le pallide cere ardon di tetro
Lume, e 1" inno funebre il tempio assorda.
Sola, e divisa dalla spoglia algente
La vedova consorte in bruno velo
Geme, e 1 tetto già mio pietà ne sente.
Ma il nudo spirto intanto esulta in cielo
neir èrebo smania, ombra dolente?
Taci, bronzo lugubre ; io tremo, e gelo.
GIOVAN LODOVICO BIANCONI.
Di famiglia veronese, nacque il 30 settembre 1717 in Bologna,
dove si laureò in medicina. Ascritto all'Istituto e fattosi cono-
scere pe'suoi lavori, nel '44 fu chiamato alla propria corte dal lan-
gravio di Assia-Darmstadt, principe-vescovo di Augusta, e vi restò
sei anni. Non dimentico della patria, negli anni 1748-49 mandò
fuori a Lipsia in francese un Giornale delle novità letterarie dJ Ita-
lia, e indirizzò Lettere di fisica a Scipione Mafifei e allAlgarotti.
Nel 1750, raccomandato da Benedetto XIV, si recò alla corte dAu-
gusto III, duca di Sassonia e re di Polonia, che lo fece suo con-
sigliere. A Dresda, nel '53, sposò Eleonora von Essen, figlia del
consigliere di giustizia di Augusto III. Mandato nel '60 in missione
diplomatica a Parigi, ove ebbe benevoli accoglienze, accompagnò
poi la profuga corte elettorale a Praga e a Monaco: indi dal suo
signore fu inviato nel '64 residente presso la Santa Sede. A Roma
cooperò al giornale V Antologia, diede il primo impulso alle Effe-
meridi letterarie, e attese indefessamente a scritture d'arte e di
erudizione archeologica e letteraria, in che la varietà e copia della
dottrina va congiunta con la facilità ed amenità della forma. Morì
a Perugia, il 1° gennaio 1781.
Le opere simj furono raccolte a Milano, 1802, dalla Tipografia
dei Classici italiani in 4 volumi, che contengono, precedute dal-
VElogio scritto da Ann. MarioTTI, le Lettere su Cornelio Celso,
dirette al Tiraboschi; altre di varj argomenti, specie archeologici,
quelle al march. Hercolani su alcune particolarità della Baviera
ed altri paesi della Germania, e le notizie su Fisa e Firenze al
É
GIOVAN LODOVICO BIANCONI. 323
principe Enrico di Prussia, lettere d'arte e di critica che furono
stampate fra le Lettere pittoriche del iJottari, voi. Vili, gli FAoyj
del Tiranesi e del Mcngs, scritti medici {ii,w\V idrofobia, sull't/io-
culazione del vainolo ec), e l'opera postuma, né finita ne ripulita
(\;\\V a., Descrizione de' circhi, lìarticolarmente di quello di Cara-
calla ce. Alcuni suoi liicordi scritti in francese fu occasione del
matrimonio di sua figlia Federica col e. B.Ansidei, vennero nel 1872
stampati per nozze a Perugia. Il meglio de'suoi scritti, col nome
di Operette scelte, fu raccolto in un volumetto da li. Gamica, Ve-
nezia, Alvisopoli, 1824.
[Per la biografia, oltre il cit. Elogio, vedi Mazzuciielli, Scrit-
tori d' Italia j voi. II, p. II, 1197; Faxtizzi, Scrittori bolognesi, II,
101 ; Cenni biografici, per nozze Hianconi-Fingarezzi, IJologna,
tip. Felsinea, 18G7, con ritr. ; E. Sa.ssOLI, Vita e opere di O. L. B.,
Bologna, Fava e Garagnani, 1885.J
La Baviera, Lettera al marchese Ilercnlani, 18 novem-
bre \l('ì2. — Eccovi, amabilissimo sig. marchese, parte
delle cose singolari ciie voi incontrerete in Baviera, o al-
meno di quelle che tali mi parvero, (juando con occhio fo-
restiere le guardai la prima volta. E giacché scrivo a gentile
e giovane cavaliere, avrei dovuto aggiungere qualche pa-
rola ancora delle belle dame che in Monaco ammirerete, e
che all'età vostra importano almeno al pari delle belle pit-
ture e delle statue ; ma lascerò a voi il piacere di formarne
giudizio. Non saranno poche quelle, crediatemelo pure, che
lo avran favorevole, massimamente dopo conosciute e trat-
tate. Le vedrete tutte vestite colla dignità che una gran
corte richiede e d'un ottimo gusto, lo che è sempre un con-
trassegno di buona educazione e di gentile cultura. Molte
ne troverete che parlano la nostra lingua, ma tutte gene-
ralmente, e benissimo, quella delle corti, voglio dir la fran-
cese. La corte di Baviera è stata da lungo tempo fra le
cattoliche della Germania un'ottima scuola di nobile galan-
teria, perchè in essa la cortesia, l'amore, e in conseguenza
la voglia di piacere, v' hanno sempre regnato al pari di
Versailles e di Dresda. Non vi maravigliaste di questa di-
stinzione, che sembra aver l'aria quasi ecclesiastica! Voi
dovreste aver osservato nel vostro viaggio, che grandissima
è la dilferenza che nelle maniere passa fra le corti della
nostra religione e le protestanti. Se foste curioso d' inda-
gare la ragione di una tanto sensibile stravaganza, io non
saprei qual' altra incolparne se non questa, e a voi starà
il crederla, se vi piace. Dopo che Carlo d'Austria col nome
di Carlo V fu eletto imperadore, egli portò in Germania, e
sparse pel resto dell' Europa, i costumi, la gravità e le ma-
niere spagnuole. Quelle corti che restarono cattoliche di-
L
^24 SECOLO XVIir.
chiararonsi quasi tutte per Carlo, ed imitandolo adottarono
la serietà spagnuola, come fecero ancora le corti d' Italia,
che r hanno conservata sino a' nostri giorni. Quelle che ab-
bracciarono il cangiamento di religione, fecero quasi con-
fraternita fra di loro, e gelosamente unirono agli antichi
costumi nazionali le maniere facili e galanti di Francesco I,
il quale, come emulo di Carlo, fu mai sempre loro amico
e collegato. Questa differenza ha durato per quasi due se-
coli, cioè altiere le prime, e disinvolte le seconde ; ed in-
tanto che alcuni principi della Germania soli niangiavanr>
al suono di tetra musica, e che i più piccoli duchi dell'Italia
facevansi servire a tavola sotto al baldacchino dalle dame,
vedevansi ali" incontro queste alla corte di Carlo II coman-
dare air Inghilterra, e a quella di Dresda far nascere le
giostre ed i tornei più splendidi, e farsi corteggiare dal re
Augusto. Presentemente le cose cominciano a cangiare
d'aspetto, e colla memoria di Carlo V si vanno ogni dì più
obliando le etichette e la sostenutezza della corte di Bor-
gogna, come voi medesimo avrete veduto costi nella corte,
alla quale avete presentemente V onore di appartenere.
Giova lo sperare che in pochi anni tutto sarà a livello,
almeno su questo articolo. Volesse Iddio che fossimo anche
nel resto, ma pare, pur troppo, che sì bella ventura sia ri-
serbata a secoli più felici dei nostri.
I Francesi, che a guisa degli antichi Romani portano
dappertutto la loro lingua, le mode e l'allegria, hanno colle
frequenti invasioni in Germania ed in Italia, non poco con-
tribuito a questo cangiamento. Le corti ecclesiastiche an-
ch' esse di qua dai monti paiono al secolo nostro ingentilirsi ;
ed io ne ho conosciute alcune che in galanteria ed in buon
gusto non la cedevano a verun' altra, per quanto secolare
si fosse, e v' ho veduto feste da ballo reali
Che se poi mi domandaste notizie dell' interno della Ba-
viera e delle sue ricchezze, io non potrei dirvi se non che
questa provincia è assai pingue, e quasi in ogni cosa agia-
tissima. Le carni vi sono squisitissime ; e poco o nulla ce-
dono alla famosa vitella mongana, o a quella di Soriento.
I pesci di lago sono di cento specie, tali che non ho mai
veduto altrove, e nulla hanno da invidiare alla delicatezza
di quelli del lago di Garda. Il pane non è men bello di
quello di Vienna, che passa per lo migliore d'Europa. Non
posso dire lo stesso dei vini che vi nascono, ma in iscambio
potete averne dei forestieri a prezzo ragionevole.
Non credeste però che codesti comodi derivassero dal-
l' industria degli abitanti, piuttosto che dalla fertilità del
terreno e delle acque. Pochissimo è il commercio che fassi
in Baviera, né v' entra altro danaro straniero, che quello
che produce la vendita dei legnami, del sale, dei cuoi crudi
e conci, e dei grani, che quasi spontaneamente sorgono da
uno de' migliori suoli della Germania
J
GIOVAN LODOVICO JilAMJONI. 325
Del resto surdìbo ultra cosa la Baviera, S(^ la nazione
fosse mi poco più attiva. Giudicatelo voi considerando clic
questo stato, pieno di buone città, è a portata dell'Italia,
della F'rancia, dell'Austria e dell'Impero; ch'è balenato dal-
l' Iser, dal Teck, dall' Inn e traversato dal Danubio; e clic
dalle porte di Monaco, e da varie altre città, potrete andar
per acqua e con sicurezza sino al Mar Nero. Le foreste ba-
vare mandano i loro legni legati in zattere a Vienna, e con
(luesti fabbricano poi navi e case gli austriaci. In somma,
il paese si arriccliisce coi soli nazionali prodotti terrestri ;
e da (luesto conoscerete sempre più la massima d'eterna
verità,, cioè, che la prima sorgente delle ricchezze d'una
nazione dee essere la cultura diligentissima del proprio ter-
reno. 1/ Inghilterra, la Danimarca, da che seriamente vi
badano, hanno il piacere di mangiare alle loro mense i
frutti dell' Indie cresciuti nei loro campi ; e quasi raddop-
piate veggendo Io loro entrate terrestri, vanno adesso a
vender biade a quo' popoli, da' quali a gran prezzo ne com-
pero vano gli anni passati. Con (luesto poi tanto più agevol-
mente possono sostenere il commercio esterno, e andare a
dar leggi per tino nelle corti dei re dell'Indie e dell'AlVrica,
e comandare nello colonie dell' altre nazioni in America.
Volesse il cielo, che alcune provincia della nostra Italia
adottassero questo principio! Molti de' nostri nazionali abi-
tano un paese felicissimo per il clima, per la situazione e per
il suolo ; eppure talvolta appena si cava da alimentare lo
scarso numero degli abitatori che lo coltivano, e de' citta-
dini che lo posseggono. Qui in Sassonia, dove in alcune con-
trade da qualche anno in qua l'agricoltura è totalmente
l'innovata, raccogliesi tino a quindici volte più del seminato,
benché per lo prima non fossero più fertili delle altre. Due
armate immense e straniere sono da sei anni state nudritc
co' loro grani dai Sassoni ; eppure il pane (che che si dicano
alcuni) ha sempre abbondato. Quai fiumi d' oro forestiero
non riceverebbe in seno l' Italia, so sapesse far miglior uso
de' suoi porti, de' suoi prodotti e massime delle uve, che
forse in copia soverchia da noi si vendemmiano! Si fareb-
bero allora vini più generosi, più durabili, e come tant' altri,
capaci di sostenere il tumulto del mare e '1 cangiamento dei
climi. Ve Io diranno non solo la Francia, la Spagna, il Por-
togallo, l'Isole Canarie, il Capo di Buona Speranza, che ca-
vano annualmente immense somme dai paesi settentrionali ;
ma le fredde rive del Reno e quelle dell' Elba, che a tut-
t' altro fuorché a produr vini parevano nate. Qual de' nostri
antenati avrebbe mai creduto che l' Ungheria produrrebbe
oggidì il vino più delizioso e più caro delle tavole dei re,
un vino per cui Orazio certo dimenticherebbe il suo Falerno
ed il Chio ? Non istate a dirmi che le nostr' uve non sono
capaci, e ricordatevi che gli antichi romani bevevano alle
loro solenni cene i vini riposti in cantina sotto i consoli dei
I
326 SECOLO XVIIT.
loro avi. Riflettete elio la Toscana industre manda il suo
(irtimino e il cartuifjnano sino a Pietrobur^^o e a Costanti-
nopoli ; ma per lìir questo non bisogna ostinatamente cac-
ciarsi in capo, che il nietodo di fare il vino dei nostri vecchi
castaidi sia il solo praticabile da noi, — (Dalle Lettere sopra
la Baviera, lett. VII, in Opere, tomo II, pag. 77, Milano,
tip. dei Classici italiani, 1802.)
Costumi germanici del secolo XVIII, Lettera al marchese
Hercolani, 25 novembre 1702. — Voi, caro marchese,
avete viaggiato giorno e notte per la Germania nel tempo
della più rabbiosa guerra, il più delle volte solo, per contrade
desolate o inondate da vagabondi, da disertori, per foreste
orride e solitarie. Ditemi, in fede vostra : avete voi mai
corso verun pericolo? V è mai succeduto alcun sinistro ac-
cidente per r audacia o petulanza degli abitanti ? Benché
io non lo sappia, ardisco dirvi francamente di no, perchè
rarissime volte questi casi succedono, e quando che si, se
ne parla per tutta la provincia come di cosa straordinaria;
anzi il governo non riposa, finché non sieno interamente
sterminati i perturbatori della pubblica sicurezza. In prova
di ciò, qual è quella dama in Italia che ardirebbe sola in-
traprendere un viaggio di quattro o cinquecento miglia,
come tante volte T ho veduto io fare alle dame della nostra
regina, belle e ricche, quando andavano sole da Dresda a
Varsavia?
Avete voi mai udito che qui, o altrove in Germania, nel
tempo del vostro soggiorno, siasi commesso uno di que' neri
omicidj proditorj, che pur troppo sono tanto in uso altrove,
una violenza, una vile superchieria? Qui pure io suppongo
fermamente di no, perchè, in tredici anni ormai che sto in
Sassonia, non ne potrei citare qui fra noi che una sola. Ma
donde, ditemi, vi prego, donde nasce codesta inalterabile
tranquillità, tanto sospirata in altri paesi e tanto necessaria
air umana società ? Non sono gli uomini qui della stessa
specie degli altri ? Non sono que' medesimi che quando colle
armate tedesche calano in Italia, portan con loro il terrore
e lo spavento ne' lor burberi ceffi ? In Germania non v' è
alcun' arme proibita, non v' è pistola né corta né lunga, non
v' è pugnale, che non possiate portare a qualunque ora e
dovunque, benché nessuno ne porti mai. Qui dal minuto
popolo si beve abbondantemente, qui gli amori plebei e
grossolani sono egualmente conosciuti e forse più che al-
trove. Qui ballasi a voglia d' ognuno tutta la notte nelle
bettole, qui parla ognuno a suo talento. Non si può dire
che gli sbirri, i bargelli tengano in timore la plebe, perché
questa specie di galantuomini non è conosciuta in Germa-
nia. Donde adunque, vi replico, codesta pubblica sicurezza?
Ve lo dirò io, signor marchese, e non temo questa volta
d' ingannarmi.
GIOVAN LODOVICO BIANCONI. 327
Sappiate adiiiKiue, elio qui non è permesso in venni
modo alla genta^'lia di vivere in ozio, o i vagabondi sono
indiirerentemente arrestati ed esiliati. Potrebbe portar armi,
è vero, eliiiUKine avesse (luesta vigliacca vocazione da
sgherro, ma guai a colui che ardisse di farne uso. L'omi-
cidio, anche semplicemente tentato, è irremissibilmente pu-
nito di morte, ne v' è somma di danaro, per quanto grande
sia, per cui possasi riscattar la vita d' un reo di simil de-
litto. E chi non vede che altrimenti sarebbe lecito ai ricchi
l' ammazzare ? Non v' è protezione, non v' è patente, non
v'è livrea, non t' è condizione che possa infirmare la san-
tità delle leggi. Le case de' potenti o le chiese del Signore
non servono ([ui d'asilo e di ricovero agli scellerati; la spe-
ranza di fuggire e salvarsi in altro territorio è vana. Non
v' è principe che non ceda un reo straniero al suo naturale
sovrano offeso. Nemmeno le guerre le più vive sospendono
fra le potenze nemiche questa vicendevole protezione della
giustizia, eh' è il nerbo della loro autoritii e T anima della
società. Saranno in guerra fra loro i principi, ma non sono
mai in guerra i magistrati. In somma, i delitti che offen-
dono l'umanità e la vita sono qui causa comune. Qui sono
i soldati che arrestano i rei, e non è commessa l'esecu-
zione della giustizia a certa gentaglia, che sovente è più
colpevole dei delinquenti medesimi, e in conseguenza quasi
sempre loro protettrice e compagna. Non v' è cittadino, per
(juanto nobile sia, che non facciasi una gloria d'ubbidire alle
leggi, e che non conosca come, altrimenti facendo, turberebbe
la pace dello Stato e farebbe torto a sé stesso. È manifesto
esservi un non so che di vergognoso, di vile a voler pro-
teggere la scelleraggine e l'ingiustizia. L'esperienza ha so-
vente mostrato, che l'aver compassione d'un reo fu lo stesso
che sottoscrivere l'arresto di morte d'alcuni innocenti. Al-
trove i cittadini si fanno una mal intesa gloria di celarlo
a danno della givistizia, e qui ognuno si farebbe un dovere
di palesarlo. Dall'altro canto, delitto imperdonabile sarebbe
r usurpare il diritto del principe, facendosi con violenza e
privata autorità rendere conto del menomo aggravio. Le
leggi, che vegliano a difesa del cittadino, gli danno piena
ragione, e l'aggravio o l'insolenza sono senza dubbio re-
spinti e puniti. Chi vorrebbe aduiKiue prendersi una vile
soddisfazione, se al fianco del principe trovate sempre vi-
gilante la giustizia ad assistervi ì
Ma qui vi sento, e con ragione, domandarmi : Dunque
non si fanno delitti in Germania? sono eglino i Tedeschi
impeccabili^ Non signore; l'uomo è lo stesso da per tutto,
ma la sicurezza del più severo gastigo vale a raffrenarlo.
È un piacere, per noi forestieri, il veder qui diventati trat-
tabili que' facinorosi indomiti Italiani, que' malviventi me-
desimi, i quali in Germania dappoi per qualche delitto sonosi
rifuggiti. Voi sapete la Sassonia essere paese di libertii, o
I
328 SECOLO xvrii.
che qni egualmente clie nel F^randebiirt^o, nell'Hannoverese,
nel l.uneburgo ed altrove, raccogliesi quella fipuma, ohe di
tempo in tempo per alleggerirsi vanno vomitando l'Italia
e la Francia, e che veggiamo i fuggiaschi e gii apostati, per
paura di peggio, diventar qui tutto ad un tratto laboriosi
e civili. Chi fa il maestro di scherma, chi di ballo o di
lingue, chi il soldato, chi il correttore di stampe o l'edi-
tore, chi il locandiere e chi forse peggio; ma nessuno ar-
disce turbare con violenze la società, né vivere ozioso. Li
vedete nascondere tutti, alla meglio che possono, quel reo
talento che qui li condusse, e fare ogni sforzo per darsi
ai'ia di galantuomini perseguitati dalla fortuna. Mi venne
da ridere una volta in Lipsia, che parlando con un certo
frate romagnuolo fuoruscito, e narrandomi costui una lite
che avea col suo padrone di casa, auguravasi le belle ven-
dette del suo paese, e pentivasi di essere venuto iìn qui
a far penitenza, coni' ei diceva, de' suoi peccati. Bisogna
che si pentisse davvero, perchè una notte all' improvviso,
fatto un solenne furto ad un divoto artigiano, che, come pro-
selita, lo proteggeva, sua paternità molto reverenda spari,
né se n' è mai saputa novella.
Del resto poi qui ancora si sentono, benché rarissime
volte omicidj accidentali o rissosi, e in tredici anni che
sono in Sassonia potrei citarvene due a mia memoria,
de' quali forse parlasi ancora, e che furono immediatamente
puniti. Si ruba, è vero, benché di rado ; si fanno contrab-
bandi, fallimenti fraudolenti ; ma questi delitti sono an-
ch' essi puniti a proporzione. Avrete in fatti veduto lavo-
rare per Dresda colla catena al piede i condannati, giacché
una delle massime del governo tedesco é l'ottimo instituto
di far servire al comodo de' buoni cittadini ed al quotidiano
esempio del popolo, coloro che l' hanno con delitti scanda-
lezzato.
Eccovi la ragione assai chiara della tranquillità, che regna
nei governi tedeschi, come l' opposto di tutto ciò vi mo-
strerà donde nasca il tumulto, che pur troppo s'osserva in
alcuni altri paesi, che sono sì spesso e miseramente mac-
chiati di sangue cittadinesco. Sotto il pontificato di Gre-
gorio XIII erasi riempiuto lo stato ecclesiastico di ribaldi
e traditori, ma Sisto V in pochi mesi lo ridusse tale, quali
sono i paesi ben governati, cioè tranquillo e sicuro. L' unica
cosa che resterebbe da desiderarsi in Germania, sarebbe la
sollecitudine ne' giudicj, i quali ne' piccoli delitti sono tal-
volta un po' lenti, e forse non tanto incorrotti quanto
ne' gravi. Ma felice troppo sarebbe quel paese, al governo
del quale nulla vi fosse da opporre. — (Dalle Lettere sopra
la Baviera, lett. IX, Ibid., pag. 101.)
I
329
SAVERIO HKTTINKLLI.
Nncquo in Mantova ai is lii;,'li<) 171S. Dopo avere studiato Rotto
i gesuiti, entrò nel loro ordine nel ':i»», e insegnò lettere succes-
sivamente a Brescia, a Bologna, a Venezia, finché nel '52 fu man-
dato, fino al 'óO, a Parma, Accadeviico, cioè prefetto dell'Accade-
mia degli Scelli, professore di storia, e poeta, insieme, del teatro
del collegio de' nobili. Viaggiò nel frattempo in Italia,' e anche
fuori come ajo de' figli del principe di Ilohenlohe; soggiornò a
l'arigi, e visitò in Lorena il re Stanislao. Questi lo inviò con una
sua ambasciata al Voltaire, che lo accolse sclamando: « Un ita-
liano, un gesuita, un Bettinelli onorano troppo le mie capanne! »
Il racconto di questa visita (175S), fatto dal Bettinelli stesso nelle
sue Lettere a Lesbia Cidonia,^
quantunque assai fantastico è
pur curioso. Il Voltaire gli ap-
parve come una « rara figura
e grottesca, con un gran ber-
rettone di velluto nero sugli
occhi, sotto il quale era una
parrucca ben folta, che serra-
vagli il volto, onde spuntavano
fuori il naso o il mento, più
acuti assai che non sono nei
ritratti; il corpo era impellic-
ciato da cima a fondo. » Aveva
« gli occhi scintillanti come
due stelle ; non saprei dirvi
bene di qual luce, ma era un
misto di lepore e maligniti,
come nelle sue parole. » Por-
tava in mano un bastoncello « che alle due estremità aveva una
piccola ronca e una piccola zappa.... frammischiava V italiano al
francese, e citavami Tasso e Ariosto, benché con pronunzia fran-
cese. * Il Bettinelli presentò al Voltaire una copia dei Versi
sciolti di tre eccellenti autori moderni, scrivendo sotto al fron-
tespizio una quartina di dedica : il dì dopo gli venivano in re-
galo i sette volumi i\c\V Ilistoire generale del Voltaire, scrittovi
sopra: Compatriote de Virgile Et son secrétaire aujourd'hui, C'est
à voiis d'écrire sous lui, Vous avez son tìme et son stìjle. Era una
esagerazione di gentilezza, o una corbellatura del maligno filosofo
* VcJi A. Nkrt, S. lì. n Genova, in Giorn. ligust., ottobio ISSI.
' Vedi anche Scard, liettincUi mix Délicen, in E. Assk, Lettre» de mail,
de Gra/jìgnìf etc, Paris, Charpcntier. 1879, pap. 285. Vedi anche le no-
tizie tratto da uu diario del Bettinelli inedito fra i niss. della Comun. di
Mantova, e comunicate da L. Ff.ruari, iti Jtass. libi. d. kit. itol., VI, UOO.
1
330 SECOLO XVIir.
al padio gCHuitn'? Fatto è, clic dopo ripetuti colloquj, ne' quali am-
bedue fecer scherma d'ironia e di bei motti, si Kcpararono amici,
e la relazione continuò per lettera, ricercata dai liettinelli, clic,
quantunque fatto segno agli scherzi sarcastici del filosofo francese
e da lui lasciato più volte senza risposta, continuò a sollecitarne i
favori inviandogli con una lettera il suo Entuniasmo (edito nel 17G9),
e facendo omaggio a mad. Denis della prima stampa delle Tra-
gedie (1771). Tornato in Italia, il Bettinelli lasciò l'udicio di l*arm;i,
e si fermò qualche tempo a Verona, convertendo, dice il Tinde-
monte, la gioventù a Dio nelle chiese, e al buon gusto in sua casa.
Quando nel '73 vennero soppressi i Gesuiti, egli era prefetto delle
scuole a Modena e, dal '72, professore di eloquenza italiana in quella
università. Tornò a Mantova, ed ivi attese alla stampa delle opere
iìn allora composte (Venezia, Zatta, 1780). Alla discesa de' fran-
cesi e durante la guerra, riparò a Verona, tornando poi in patria
quando Mantova nel '93 sì arrese alle armi di Francia, e comin-
ciò un'altra più copiosa collezione de' suoi scritti (V^enezia, Ce-
sare, 1799-1801, 24 voi.). Nei nuovi tempi divenne cavaliere della
corona di ferro, membro dell' Istituto nazionale e del collegio elet-
torale dei dotti; la lunga vita, l'amabilità dell'indole, la sua di-
mestichezza col bel sesso, la familiarità con tanti dotti d'Italia
e di fuori, fors' anche l'esser egli un singolare e contraddittorio
impasto di gesuita e di volteriano, di uomo dotto e di abate ga-
lante, l'innegabile operosità di scrittore e la stessa audacia sua
di andar contro corrente, gli avevano col tempo conciliato l'uni-
versale ossequio: e il titolo arcadico di T^iocZoro Delfico e quello
appostogli, dopo le Lettere virgiliane^ di padre Totila, dieder luogo
alla rispettosa qualifica di Nestore della letteratura italiana. Mori
il 13 settembre 1808, ed ebbe onorata sepoltura, a pubbliche spese,
nel Panteon mantovano.^
Molto scrisse in prosa e in versi. L'opera sua migliore, pel
disegno e pel modo ond' è questo eseguito, è il Risorgimento
d'Italia negli studj nelle arti e nei costumi dopo il Mille (1* edi-
zione 1773), colla quale, sulle orme de' lavori storici del Voltaire,
volle riassumere, come in un quadro di giuste e armonizzate di-
mensioni, un ampio e vario periodo della vita italiana, cercata e
studiata non tanto nelle vicende esteriori, quanto ne' mutamenti
e progressi del pensiero e del costume, indagandone le cagioni.
Meritano pure esser ricordati i Discorsi delle arti e delle lettere
mantovane (1774), con i quali illustrò la patria cultura. Ricordiamo
anche i Ragionamenti filosofici sopra l'uomo, lezioni scritturali
tenute durante il soggiorno fatto a Verona; V Entusiasmo delle
belle arti, tentativo di teorie retoriche fondate sull'esame del-
* Prose e Poesie in morte del cav. S. B. recitate dai soci della IL Ac-
cad. di Mantova e dai pastori Arcadi della Colonia Virgiliana, Mantova,
Agazzi, 1808,
à
SAVERIO BETTINELLI. 331
r isi»ir;i/.i()iif e (Icll'estro poetico; lo XX lettere d'una dama ad
vna sua amica sulle bilie arti (17*.K^); le Lettere a Lesbia Cidonia
ncfjli Ejnyramvii (17.S7), notevoli pei molti e arf,Miti epij^ramiiii
orì^Munli, che l'autore innesta alla storia «lei ^'enere; il Saggio
salV eloquenza (1782), che è il frutto delle lezioni tenute all' uni-
versità di Modena. Dai due volumi di Lettere d^ uu' amica tratte
dall'originale e scritte a penna corrente, benché di soverchio pro-
lisse, si possono trar fuori curiosi particolari sulla storia del co-
stume. Dedicati « alle dame viennesi » sono pur due volumi di
Dialoghi sidVamore (170(1;, i)iù letti^rarj f(»rse che erotici, ed ove
addenta un po' tutti, specialmente il Metastasi©, l'Altieri (assalito
anche nella Lettera al can. De (ìiovanni),' e il Monti, detto per
la sua Bassviliiana « Spartaco e Masaniello di poesia ». Molto
rumore e scandalo levarono le Lettere di Virgilio, pubblicate
senza nome a Venezia nel 1758, ma già stampate nel 1707,^ ch'cf^li
tìnse scritte dagli Elisi a vitupero di Dante e de' suoi ammiratori ed
imitatori. Con esse eccitò subito un gran vespaio, e tentò di serbare
l'anonimo, raccomandandosi agli amici perchè non lo svelassero, per
tema di « poter avere dei fastidj. ' > Il liltro suscitò risposti; del Gozzi,
del Paradisi e del Gennari,* lasciando di se e del criterio del suo
autore non buona riputazione ai posteri. ■• he Lettere inglesi (\HM)
sono in parte una apologia delle virgiliane, ma allargano la trat-
tazione a tutta la letteratura italiana passata e presente, after-
mando per bocca di un immaginario inglese che « voialtri ita-
liani non avete letteratura italiana » {Lelt. IV). La causa di ciò ei
la ritrova, oltreché nella pedanteria e nella tradizione accademica,
nel non esservi fra noi come in Francia « un centro di tutto il
regno.... un mercato universale; » sicché in Italia, ogni provincia
«alza il suo tribunale, ha il suo parlamento letterario e comanda
nel suo distretto quanto Londra all' Inghilterra, Parigi alla Francia
in materia d'opinioni sovranamente.... Che se l'Italia tutta avesse
un centro, un punto d'unione, sarebbe più ricca d'assai nell'arti,
nelle lettere, e forse nelle scienze, che qualunque altra nazione;
ma questo disgregamento, che produce poi la discordia, la ge-
losia, l'opposizione d'un paese coll'altro, fa parere che gli ita-
liani siano più poveri che non sono, e più ridicoli » (Lett. II).
' In Nuovo gioru. dei Ictt. di Modena, vol. XLIII, 17-90,
- Vedi L. De Lkva, Schedule bibliografiche, ncW Annotatore, X, 1S84, n. fi.
"' Vedi A. Marchksan, Vita e prose di Fr. Btnaglio, Treviso, Turaz-
za, 1894.
* E di molti alili, i nomi e gli scritti de' quali sono accennati da
dumo Zacchrtti in una pubblicazione per nozze Zacchetti-Wanderlingh,
Pisa, Citi, 1890.
^ Vedi E. Krbera, AeZ«r/cre riVflri/idMe, Milano, Cogliati, 1894 ; A.Torrk,
Le lettere virgiliane CC. nel Giorn. dantei>co, u. S., auno I, qu. IV ; E. IlouVY,
Voltaire et la critique de Dante, nel libro Voltaire et Vltalie, Paris, Ila-
chcttc, 1898, pag. 37 e scgg.
332 SECOLO XVIII.
« Voi (liictc che questo jn'ova aver voi una repubblica letteraria,
e avete ragione; ma ella è tutta democratica, poiché il popolo,
anzi la plebe letteraria vi domina e dà le l(;{(gi, seppure anzi non è
un'anarchia» {Leti. IW). Vecchio ormai di ottantadue anni, ri-
tornò sopra Dante con una Dissertazione accademica, mescendo
lodi e biasimi, confessando che la Commedia « è la nostra Iliade
unita ^W Odissea *, protestando di ammirare «la grand' anima, il
sommo ingegno, la vasta scienza del grand' uomo»: benché, ei
soggiunge, «benché non grande poeta. > E anche nel sonetto (com-
posto però, pili che altro, per compiacere al card. L. Valenti-Gon-
zaga, suo antico protettore) che solo arrechiamo ad esempio del
suo valore poetico, e in altro in morte dell'Alfieri ei rese omag-
gio, e sia pure per forza ed ipocritamente, al gran poeta, accop-
piandolo ad Omero.
Fra le prose ricordiamo anche il Safjgio sul dominio delle
donne e della virtù, la Lettera sui pregj delle donne, le Lodi del
Petrarca (1786) ch'era il suo nume, come in generale de'poeti
« sensibili » del secolo decimottavo; e il Discorso sopra la Poesia
Italiana (premesso al tomo V delle Opere, ediz. Zatta, 1781), che, col
Saggio suW eloquenza citato, e colle lettere al Vannetti e al Ce-
sari, ci rivelano una seconda forma di critica del Bettinelli, tra-
mutatosi in paladino della lingua e dei generi nazionali contro
l'imitazione straniera, soprattutto delle letterature settentrionali.
In poesia lasciò Versi sciolti, ch'ebbe il coraggio di presentare
al pubblico come eccellenti insieme con quelli dell'Algarotti e del
Frugoni, accompagnandoli colle Lettere virgiliane; poemetti in
vario metro, e notevole tra essi, per l' imitazione del Lutrin del
Boileau, quello sopra, anzi contro, le Raccolte di versi; ^ rime
varie, e tre tragedie, il Serse, il Gionata, il Demetrio Poliorcete
(Bassano, 1771): ricordevoli, perchè esempio d'un teatro sui generis,
com'è il gesuitico,^ e perchè offrono materia di riscontri col tea-
tro francese.^
Nella Biblioteca di Mantova si conserva il suo carteggio, che
sappiamo esser stato già fruttuosamente esplorato ; è copioso e
importante, e si sa che fu detto argutamente, dovere il Bettinelli
metà della sua fama alla posta. Alcune lettere sue o d'altri alni
si trovano in molte pubblicazioni.* Nella biblioteca mantovana si
* Su questa produzione letteraria, speciale al secolo passato, vedi
un interessante studio di F. ColagrOSSO, Un'usanza letteraria in gran
voga nel settecento, Napoli, 1899 (in Studi di letter. ital., I, 240).
^ Vedi L. Fekrari, Appunti sid teatro tragico dei gesuiti in Italia, in
Bass. Uhi. d. leti, ital, VII, 124.
^ Vedi F. CoLAGROSSO, S. B. e il teatro gesuitico, Napoli, tipogr.
universit., 1898.
* Se ne trovano in Lettere di quaranta illustri italiani del sec. XVIII,
Milano, Bravetta, 1836 (per nozze Mazzetti-Altenburger); Lettere ined. d'ili,
ital., Padova, alla Minerva, 1838 (per nozze Maldiira-Rusconi); Barozzi,
Alcune lett. d' ili. ital. ad Isabella Teoloclii-Alhrizz' , Firenze, Le Mon-
I
SAVERIO BETTINl.LLI. 333
trovano:vnchc ilucpoemi iimditì: L' Europa punita o II secoloXVIH,
in (lodici canti, e il lionaparte in Italia in (inattro canti ; e que-
st'ultimo disdice in gran parte le opinioni espresse nell'altro;
colp:i,(!ol resto, non tanto di volubilitj\ sua propria, quanto delle
vicende de' tempi.
Esaltato troppo ai suoi giorni, troppo sprezzato dappoi, special-
mente a causa delle Lettere virgiliane, e per tal modo Kiu-^tamcntc
punito dell' irreverente sua petulanza, il Hettinelli rappresenta tut-
tavia un aspetto importante della letteratura del suo tempo ; la ribel-
lione, cioè, al passato, alla tradizione pedestre e pedantesca e il desi-
derio di rinnovare la cultura italiana, renderla più difiusae comune
a tutti, ed uguagliarne i progredimenti a quelli delle altre nazioni
europee. Ma nella tradizione ei non distingueva ciò che v'era di sano
e di vitale, da ciò ch'era marcio e vieto, e troppo piegò agli esempj
di fuori, specialmente nella lingua e nello stile, e troppo si affidò,
come altri suoi contemporanei, a certe norme astratte del cosi
detto buon gusto, eh' erano in sostanza un culto arbitrario di forme
volute dall'andazzo dell' et;\. Ma la stessa audacia sua nel com-
battere e neir abbattere, se non lo fa sempre degno di lode, lo
renderebbe degno di studio come precorritore di tutti coloro, che
nella letteratura non videro una cosa rimorta e vollero farne
eflìcace strumento di universale cultura.
[Per la biografia, vedi FR.GALEANl-NAPlONE,F«7a delVah. S.Ii.
e Delle lodi dell'ab. S. B., in Vite ed elogj d'illustri italiani, Pisa,
Capurro, 1818, voi. Ili, p. 177 e 227; UC.ONI, Continuazione al
CoKNiANi, ediz. Pomba, V, 302; D. Cortesi, Un gesuita nel
sec. XVIII, in Rassegna Nazionale, 16 ott. 1898.]
I petrarchisti. — Non avessimo lotto mai, nò lodato il Pe-
trarca I non altra volta fu mai veduto tanto scatenamento
di poeti importuni, di rimatori, di verseggiatori come il
giorno che ritornammo a foro adunanza.* Più di trecento
poeti italiani, ciascuno con un libro di rime sue, con un suo
canzoniere, alcuno con più volumi, e tutti col nome di pe-
trarcheschi, e i più col titolo di cinquecentisti, che per loro
nicr, 1856 ; Lett. iued. di S. D. e Giustina Jienier Michiel, Venezia, Com-
mercio, 1857; Berlan, Lettere ined. d'ili, ital., Milano, Gnreffi, 1806; Per
nozze lioati-Ouzani, Vicenza, Paroni, 1866; Lettere ined. d'ili, ital. a Ce-
sare Lucchcaini, Liicca, Laudi, 1S69 (per nozze Sforza-Pierantoni) ; Bi-
ooNZo e Fazio, Dodici lettere ined. d'ili, ttal., Genovft, Soidomuti, 1874;
Lett. iiìcd. d'ili, ital. (per nozze Poggosi-De Sivo), Pisa, Nistri, 1874; Sei
lettere ined. d'ili, ital., Pisa, Nistri, 1875 (per nozze Nuti-Tellini); A. Le-
zio, Jjtttere ined. di OiuHina lienicr Michiel a S. tì., Ancona, Moiolli, 1884;
BlADRGO, Carter/gio ined. d'una gentildonna veronese (S. Ciirtoni-Verza),
Verona, Artigianelli, 1884 : Per nozze Soster-Dondi, Padova, Seminario,
1887, e in altre simili pubblicazioni.
* Si fingo che Virgilio scriva queste cose dall' Eliso agli Arcadi.
334 SECOLO xviir.
era dire altrettanto che del secolo d'oro e d'Augusto, ven-
nero ad assediarci, e pretesero d'esser letti e approvati
non men del Petrarca, maestro loro e modello. Hen era
quello un popolo, e popolo di poeti. Il fuggir co.sì fatta inon-
dazione non era possibile, che tutto intorno era cinto d'as-
sedio e di grida. Ognun ripeteva il suo nome, o scritto il
mostrava. Chi può tutti ridirli? I principali erano Giusto
de' Conti, Aquilano, Tebaldeo, Poliziano, Bojardo, Medici,
Benivieni, Trissino, Bembo, Casa, Ariosto, Costanzo, Mon-
temagno, Molza, Guidiccioni, Alamanni, Corso, Giraldi, Mar-
telli, Varchi, Firenzuola, Rinieri, Ilota, Tarsia, due Tassi,
due Venieri, tre Mocenighi, Coppetta, Marmitta, Caporali,
Buonarroti, Caro, Tansillo, Sannazzaro, Celio Magno, Giu-
stiniano, Fiamma e cento altri, che confondonsi nel mio
cervello, come colà nel tumulto. Distinte furon, com' era
giusto, parecchie donne, pur petrarchesche e poetesse col
lor volume, le quali oltre al titolo di divine riscuotevano
dai poeti e dai letterati una specie d' adorazione. Un branco
di raccoglitori petrarcheggianti le corteggiavano, recando
libri di versi con titoli eccelsi di lagrime, di ghirlande^ di
templi: opere fatte ad onor loro. Noi non ebbimo a' nostri
tempi un tal onore tra le dame romane, onde più curiosa-
mente cercammo di risaperne i nomi. Il Ruscelli, il Dolce,
l'Atanagi e molt' altri, che a ciascuna di loro porgeano la
mano, o sosteneano lo strascico e il manto, con gran ri-
spetto le nominarono : Vittoria Colonna, Veronica Gàmbara,
Tullia Arragona, Gaspara Stampa, Tarquinia Molza, Lucia
Avogadra, Laura Terracina, Chiara Matraini, Laura Batti-
ferra, e seguivano pur nominando, se non che dissi bastar
queste che già pareggiavano le nove muse, altrimenti ve-
niva a farsi un intero parnaso femmineo, a gran pericolo
dell'autorità dell'antico. In altra parte avanzavansi pur
drappelli, a guisa di stormi, di poeti, ed erano adunanze,
accademie, arcadie, or di città, or di provincie diverse : ve-
neziani, pavesi, bolognesi, bresciani, napoletani, de' quali
soli v'avea moltV volumi, e tutti eccellentissimi intitolati.
Ciascuna di cosi fatte compagnie veniva armata d' un for-
midabile canzoniere, con simboli, allegorie, imprese, iscri-
zioni, emblemi : e tutto era ad onor del Petrarca e sotto
gli auspici e il dettato di lui. Altrove un nuvolo d' altri,
che settecentisti dicevansi, e vanto si davano d' aver ri-
suscitato il petrarchismo dall' obblivione, dopo un secolo
d'inondazione barbarica e rovinosa. Per ogni parte sbucavano
petrarchisti, eh' era un diluvio. Pensate qual fosse il nostro
spavento in mezzo a così fatta persecuzione che parea pro-
prio l'Inferno tutto scappato dai ceppi di Plutone. Qual con-
siglio potea prendersi per non irritare quel troppo irrita-
bil genere di poeti maschi e femmine ? In mente ne venne
di distribuirci la briga, e di prender ciascuno di noi qual-
clie libro di quo' poeti a leggere e ad esaminare. Greci e
SAVERIO BETTINELLI. .335
latini fnron tosto occupati quanti ve n'erano intorno ad un
libro di rime, ad un canzoniere, ad un volume di poesie; e
vi Cu alcuno di noi meschini, che si trovò un tomo in foglio
tra mano, tutto d'amor petrarchesco.
Legge van tutti attentamente, nò molto andò che qua e
]-X giù. miravasi sul volto de' leggitori cert'aria di lìiaravi-
glia, e a quando a quando degl' indizj di noja e di sazietii.
Fu il primo Catullo, che per natura insoll'erente, e nimico
di lunga applicazione, gittò da sé il libro; e questo, disse,
(luesto è pur il Feti'arca, il suo stile, il suo metro, il suo
amor, la sua Laura, infin lui f5tesso sotto nome d'un altro.
Il mio, pur dissero tosto molti d'accordo, il mio poeta non
altro egli è che il Petrarca. Qui v'ha qualche inganno, sog-
gi unser altri, perchè già non può darsi tanta scioccliezza
in un uom ragionevole, che pretenda aver fama di buon
poeta copiando un altro, o che tanto sfrontato pur sia, che
per opera sua pubblichi l'altrui litica veggendolo ognuno.
Allor cominciarono a leggere or l'uno or l'altro de' canzo-
nieri toccati loro a sorte ; e in verità non distinguevansi dal
Petrarca, fuor solamente in quel languore e in quella in-
sulsaggine, che nel linguaggio esser suole d'una finta ed
imitata passione, rimpetto a quel veemente e caldo sfogo
d'un cuor acceso per viva fiamma. Parca strano capriccio
(luello di tanti, che per far versi credettero necessario di
fingersi innamorati, o fecero versi per aver fama in amore.
Latini e greci esprimevano lo stupor loro in varie guise.
Noi tutti, dicevano, abbiam cantato ed amato; ma ciascuno
di noi ha impressa al suo canto l'indole propria dell'inge-
gno e della fantasia, e quindi ha ciascuno un proprio stile,
un pensar proprio, e colori e modi suoi proprj. Orazio giù
non somiglia a Pindaro, così che pajano un solo, né Teo-
crito a Mosco, Virgilio ad entrambi, né Anacreonte a Saffo,
né gli stessi elegiaci Catullo, Tibullo, Ovidio e Properzio
han pur somiglianza tra loro, fuor che nel metro
Calunnie ! gridò un' ombra, che stava in disparte tra i
cinquecentisti ascoltando i nostri ragionamenti. U Casa, il
Costanzo, il Bembo non sono essi classici ed originali ì Leg-
gete questi, e dite se sono imitatori. Si lessero ad alta voce,
e quantunque avessero qualche nuova maniera non tutta
al Petrarca rubata, parvero nondimeno assai petrarcheschi
nella sostanza. Il Casa per non so quale asprezza e vio-
lenza posta ne' versi suoi, parve alquanto acquistare di forza
e di gravità; nel Costanzo trovasi una certa disprezzatura,
che semplice e graziosa parca, benché più tosto vicina alla
prosa e all'argomentazione apparisse, che all'ottima poe-
sia. Nel primo un po' troppo sentivasi la fatica e lo studio,
nel secondo un po' troppo poco. Avean tentato un sentiero
solitario, ma nella via del Petrarca; lui per padre legit-
timo riconoscevano all'argomento, ai metri, ai modi ed allo
stilo fondamentale, ed essi stessi prodotto aveano de' copia-
33G SECOLO xviir.
tori. Quanto al Bembo ciascun f,'iurava di non veder altro,
che la fiaccJiGzza dell' imitazione, onde distinguerlo dal Pe-
trarca, benché gran lode si meritasse con tutti gli altri per
lo studio della sua lingua e per la purità dello stile, che è
la base di ogni vera eloquenza oratoria, non men che poe-
tica. Voi Arcadi abbiatelo a mente, e state sani.
Ragunatosi dunque il consesso de' greci e de' latini
maestri secondo V uso, alzò la voce Luciano, e disse : Ma
che direste poi, se non solo al Petrarca nei lirico, ma in
tutte Tarti e le scienze, e in tutti i generi di poesia li
vedei3te ad alcuno giurare la stessa fede e superstizione?
Io che studio gli umani costumi curiosamente, ho voluto
assicurarmi di questo prodigio, e in tutto il resto gli ho
ritrovati, quali a voi sembrano nel petrarchesco. Lascio a
parte la filosofia, e le più alte scienze poiché in queste
non sono stati essi soli per molti secoli superstiziosi ed osti-
nati seguaci dell' autorità d' un maestro, ma ristringomi
al solo poetare. Un Petrarca, siccome vedete, n' ha pro-
dotti infiniti; un Dante poco meno di lui multiplicò se stesso;
un poema romanzesco fé' nascere una nuova epica di ro-
manzo e di cavalleria non solamente, ma un Orlando eziandio
altri Orlandi produsse e generò. Chi può dire la fecondità
della pastorale e dell'egloga in questo clima d'Italia? 11
Sannazaro fece egloghe, il Tasso una pastorale, ed ognuno
formò a gara pastori e ancor pescatori su que' modelli. Chi
può numerare gli Aminta e i Pastorfidi, sotto nomi diversi
venuti al mondo? Cosi il Trissino per la tragedia, altri per
la commedia, pe' ditirambi, pe' drammi, e per ogni altra ma-
niera di poesia o seria o faceta, o grande o picciola, o lunga
breve, son padri di prole somigliantissima ed innumera-
bile. Io parlo della moltitudine de' poeti, che in Italia han
nome d'illustri. Poiché v' ha pure alcuno, il quale o per noja
di servitù o per talento vivace o per amor^ di gloria leva
il capo tra loro, e scuote il giogo. Ma nel tempo medesimo
un altro n'impone a nuova setta, che da lui prende il nome,
lo stile e il pensare, che l'adora e l'antipone ad ogni altro;
tanto è necessario ai poeti italiani un qualche idolo! Cosi
il Marini un secolo intero ha veduto nascer da sé ; cosi
quelli, che ! simolacro atterrarono del Marini, un altro
n'alzarono a' lor seguaci del settecento, e (mirate qual fu-,
rore d'imitazione) fu quel del Petrarca, che rialzarono e!
all'adorazione proposero, ai voti, all'ostinatezza del secoli
loro. Onde ciò venga principalmente, non é difiicile a in-j
tendere, chi conosca l'Italia. Occupazione vi manca, e vi|
soprabbondan talenti. Di moltissimi oziosi molti si fan poeti;;
di questi, accademie ed arcadie e colonie. Cantar bisogna,
e di versi la vita nudrire e la società sostenere. Al co-
modo, al facile slam tutti inclinati: ricca natura è in pochis-
simi: eccitamenti e premj e mecenati si cercano indarno;
che altro rimane se non che prender d'altrui, copiare dai
SAVERIO BETTINELLI. 337
libri, impastare, cucirò, in fino ìiiiitaro o darsi per poeta?
Qual danno ciò (accia alla poesia, (lual impaccio alla vita
civile il sanno gl'italiani, e il seppimo in Grecia eziandio
([iialclie volta. Un sol rimedio sarebbe a tal male; ma come
sperarlo, e da chi? Vn tribunale dovrebbe istituirsi, a cui
dovesse ognun presentarsi, die venga sollecitato da prurito
poetico. Innanzi a giudici saggj gli si farebbe esame del-
l'indole e del talento, e certe pruove se ne farebbono ed
esperimenti. Chi non reggesse a questi, all'aratro e al
fondaco, come natura il volesse, o alla spada e alla toga
n'andasse; chi riuscisse, un privilegio otterrebbe autentico
e sacro di far versi e pubblicarli, qual di chi batte moneta
del suo. Bando poi rigoroso a chi falsificasse il diploma, o
contrabbando facesse di poesie, non altrimenti che co' mo-
netar) s' adopera e co' frodatori de' dazj. Prigione o sup-
plizio secondo i falli : e questo non già poetico e immagi-
nario, ma inevitabile e vero.
Sorrisero i gravi antichi al parlar di Luciano; e volti
agl'italiani, che stavano intorno ulle sbarre aspettando sen-
tenza dell'opere loro, lodaronli d'eleganti verseggiatori e
di culti scrittori della lor lingua, ma sentenziarono insieme
l'opere loro com'era giusto. Intitolate le voller tutte: Nuora
edizione di messcr Francesco Petrarca. Quindi, trattine al-
cuni sonetti interi, ciò che fu di sol dieci, o troncati, e
poche stanze di canzoni, del resto fecesi un fascio, il qual
fu riposto in parte rimota, serbandolo per un tempo, in cui
la lingua italiana guasta e corrotta da genti straniere, bi-
sogno avesse d'una piena inondante d'acque limpide e pure,
quantunque insipide, a ripurgarsi. Fu fmalmente deciso ba-
star per tutti il Petrarca, ancorché ridotto da noi a più di-
scretii misura; per l'uso comune e il diletto della nazione
(juesto doversi leggere ed istudiare secondo il bisogno : e
COSI non verrebbe o ingiustamente posposto ad autori se-
guaci suoi nauseato da molti, per tanto moltiplicarsi
delle sue rime in tanti minori di lui. — (Dalle Lettere V7r-
(jf diane VI e VII, in Opere edite ed inedite, tomo XII,
pag. 78 e seg. Venezia, MDCCC.)
Pel restaurato sepolcro di Dante.
Al card. Valenti-Goìizaga,
Se dall' obli viosa ombra notturna
Ove giacque tant'anni il pittor vero
Il cantor del trigemino emisfero,
Traggi la fredda polve taciturna.
Deh, signor, nel recarla a più bell'urna,
Ond'ei fia teco e coli' Italia altei-o.
Tra '1 cener muto del toscano Omero
Cerca queir immortai sua cetra eburna.
IV. 22
338 SECOLO xviir.
Dal barbarico stil, dal suon discorde
Di concenti stranier, con essa in mano
Vo' il patrio rivocar genio incostante,
almen giurar su quelle sacre corde
Centra il gallo e german genio profano,
Eterna fede al buon Petrarca e a Dante.
GIAMBATISTA ROBERTI.
Quest'amico e confratello del Bettinelli, nacque di nobil fa-
miglia in Bassano ai 4 marzo 1719, Studiò a Padova ed a Bologna,
ed entrò fra i gesuiti nel '36. Insegnò a Piacenza, a Brescia, a
Parma, a Bologna. Soppressala compagnia di Gesù, tornò in patria,
ove mori il 29 luglio 179G.
Fu poeta e prosatore. Come poeta, cantò La moda (174G), Le
fragole (1752), Le perle (1756); e a proposito di questo genere di
poemi è notevole la sua Lettera sopra V uso della fisica nella
poesia, o^m^ sul genere scientifico; scrisse anche -FauoZe esopianf;
(1782) ed Epistole e versi latini. In prosa, ha molte scritture sacre
e teologiche; altre, filosofiche, meritano più speciale menzione,
particolarmente quelle pedagogiche o riguardanti il costume : i
Discorsi sopra le fasce dei bambini (1764), Del legger libri di me-
tafisica e di divertimento (1769), Del lusso (1772), Trattatello sopra
le virtic piccole (1778), Annotazioni sopra l' umanità del sec. XVIII
(1781), Della probità naturale (1784), Lettere sopra i negri (1786),
Dell' amore verso la patria (1786), Dei doveri dei padroni verso
i servitori (1817) ec. Scrisse anche Lettere sopra i fiori, sopra il
canto dei pesci, sul prender l'aria e il sole, la Lettera di un bam-
bino di sedici mesi colle annotazioni di un filosofo, ec. Tutte le
opere sue sono contenute in 15 volumi stampati a Bassano, Remon-
dini, 1797, e furono riprodotte a Venezia dall'Antonelli nel 1870.
Una scelta di sue Lettere erudite fu fatta da B. Gamba, Venezia,
Alvisopoli, 1825.
Come uomo, dabbene e pio ; come scrittore, fu ricco di varia
dottrina, e notevole per aver toccato certi argomenti con novità di
concetti e libertà di sensi. Ma per quello eh' è dello stile, si piacque
di una lindura luccicante e civettuola, talché a lui si posson rim-
proverare quei « gorgheggiamenti e strisciamenti e serpeggiamenti
e fioreggìamenti », ch'ei riprende in alcuni predicatori dell'età sua.
« Talvolta facondo (dice il Tommaseo), non mai si leva alla vera
eloquenza.... L'ambizione sua maggiore è divertire gli uditori e i
lettori,... Più d' una volta nella scelta dei temi, par che si faccia
giuoco de' lettori e dell'arte e di se. » Celebrò infatti, i manicaretti,
r sorbetti, il ciocolatte, i zuccherini, i gatti ec. « Sebbene (segue
il Tommaseo), « certuni de' suoi difetti si possan creder nati dal-
GIAMnATISTA ROBERTI. 339
r educazione gesuitica, io non amo concliiudero dal singolare al
generale, come pur troppi fanno ^ ; ma « troppi » davvero sono
(jnelli che nelle inzucclierate scritture del Roberti, ritrovano quella
forma artificiosa e sdolcinata che, seguendo l'andar de' tempi, dal
Uartoli digrada fino al nostro bassauese, come caratteristica agli
scrittori della Compagnia.
[Per la biografia, vedi Alehs. MORESCIir, Commentario della
vita e delle opere di G. B. li., e G. B. GlOViO, Elogio ce, nel
voi. XII dell' ediz. bassanese; C. Uc.ONI, nella Continuazione al
CORNIANI, edij5. Pomba, V, 327; N. Tom]\[ASEO, G. U. Jioberti, It
lettere e i gesuiti nel aer. XVIII, nel \o]. Storia civile nella lette-
ratura, Torino, Loescher, 1872, p. 317 e segg.J
Il lusso nel secolo XVI 11, Lettera a un vecchio feudata-
rio. — Voi, o Sii^iior Conte, ini scrivete di aver gai-rito in
oonversazione con certi signorotti giovani, li quali cele-
bravano questi giorni come quelli che sieno insigni per
un lusso squisito e solenne. Un pocolin vi adibiste, perchè
sembrò che essi, consapevoli solamente dello lor fogge
presenti di vivere, e innamorati dei loro vezzi e dei loro
agj, insultassero agli antenati, quasi ad uomini inculti ed
asperi ; e però ancora a voi che siete gijY vecchio. E poi-
ché io mi sono impacciato con qualche libretto sulla mate-
ria del lusso, voi mi proponete a decidere la quistione : se
il lusso presente sia maggiore del trapassato. Rispondo, o
chiarissimo cavaliere, eh' io lo reputo maggiore, e che giu-
dico potersi il secolo nostro appellare con titolo suo proprio
il secolo del lusso. Contraria è la vostra sentenza ; onde,
perchè, come sovente addiviene, non disputiamo vanamente
stabiliamo i contini della disputa, e conveniamo sopra i pre-
liminari. Il primo patto di convenzione sia che non si ri-
guardi solamente lo spendere e le sprecare : perchè i no-
stri antenati spendevano romorosamento ne' lor castelli e
ne' lor feudi in feste e cacce, e in fazioni ed inimicizie,
e in assalimenti e processi. Il portico rusticano ribolliva
di protetti facinorosi : e a voler pascere ed abbeverare tanti
sgherracci in cucina, la capace caldaja bolliva di un (|uarto
di bue tagliato in pezzi, e in cantina sgorgava dalla botte
qualche mastello di vin grande Voi che siete giusto
ed avveduto, ben intendete, che al lusso non basta la prodi-
galiti'i sconsigliata, mentre esso richiede la sontuosità dili-
eata. Il secondo nostro patto sia che non citiate, o signor
Conte, colla vostra molta erudizione esempj troppo anti-
chi E siccome lasceremo da parte i tempi antichi,
COSI pure lasceremo nelle storie senza toccarli gli esempj
straordinari, benché più moderni, come quelli dei pranzi dati
dai Visconti e dei festeggiamenti celebrati dai Medici
Noi dobbiamo restringere il nostro parlare, così entro agli
340 SECOLO XVIII.
spazj delle età nostre, come entro éille consuetudini della
nostra vita civile. Senza questa rliscrezione di ordine e
chiarezza di relazioni, la quistion si ravviluppa e s'intrica,
e nulla si conchiudc dopo un cianciamento infinito. Tutto
allora si può appellar lusso. Usò ^van lusso il primo che
portò le scarpe, e si mise in testa il cappello.
Infatti V. E. discende alla pratica, ed esamina i comodi
e gli splendori de' nostri sontuosi. Oggi si esalta V ingegno
della cucina e la pompa della tavola. Dicesi che i soli fran-
cesi sanno mangiare ; eppure il signor Mercier poco fa ha
scritto che il popolo di Parigi è il popolo più mal nutrito
di ogni altro popolo europeo. Ma la fastidiosaggine di certi
francesi è tanto arrogante, che, arrivati in Italia, al primo
saggiare di qualche nostro piatto, cotto in foggia diversa
dair usata di là della loro alpe, benché sieno poveri uomini,
come maestri di ballo o maestri di lingua, definiscono fran-
camente che esso è un piatto detestabile. Io per altro con-
fesso, che siccome presso i romani si pregiavano i cuochi
della Sicilia, cosi presso noi si pregiano i cuochi della Fran-
cia, e tra essi si riveriscono que' della Linguadoca, come più
dotti in quella che Montagne appella scienza della gola. La-
scio che questa gloria di quella illustre nazione mi par ridi-
cola : e lascio che si potrebbe in negozio per lei si grave ri-
cordare che al tempo di Caterina de' Medici andarono dai
focolari e dalle credenze d' Italia i nostri professori a inse-
gnarle r arte del lauto e fino mangiare ; e che colà i nostri
cuochi recarono la tattica della tavola, mentre i nostri ca-
pitani le recavano quella del campo. Ed in Montagne stesso
leggesi come egli intese da un cuoco del Cardinale Carafìa
maravigliose dissertazioni di cucina, ignote allora a tutta
Francia Pur troppo dai nostri sibariti si cerca il raf-
finamento, e la novità e la varietà ; perchè i ricchi volut-
tuosi talvolta han perduto e come logorato il gusto a forza
di usarlo ; e vogliono la energia delle salse ; e vogliono
ancora il consumato d' ogni carnaggio per fuggir la fatica
stessa del masticare. Restringendosi tuttavia entro alla mo-
derazione, e non favellando che delle consuetudini nostre
fra le eulte persone, seguo ad affermare, che oggi nella
tavola si spende più che un tempo non si spendeva, non
tanto perchè ogni grascia è rincarata (e ciò grava eziandio
i popolari), quanto perchè la sola maniera di apprestare il
cibo è nelle pulite famiglie più dispendiosa. Se si custodisse
negli archivi dei nobili la serie delle vacchette dello spen-
ditore, come si custodisce la serie degli strumenti del notajo,
vedrebbesi chiara la differenza E sinora, non ho con-
siderato che i cibi ; ed ho taciuto dei vini. È una decora-
zione solita dei pranzi, se sono alquanto solenni, voler bere
dei vini eh' abbiano passati i mari o le alpi. Il vin del Capo
di Buona speranza ed il Tokai, che si reputano i migliori
vini del globo, non sono sconosciuti a noi privati. Li fia-
(JIA^IHATLSTA liOlJERTI. .^41
sclictti ituliiuii non hanno dignità che basti : oppure questui
ì' quella Italia che colle sue vendemmie porse il vino (►pi-
miano, a non dire degli altri
Dopo la tavola, da V. K. si fecero annotazioni sopra il
vestiario, quale oggi ò usato dai nobili Trattenen-
domi neir ordinario vestimento semplice, è a considerarsi
che tuttavia è dispendioso, perchè si sdegnano i panni no-
strali, e non si vogliono che i forestieri. La spesa nel ve-
stirsi di lana e di seta doveva esser minore nel secolo pas-
sato ; giacche sino alla metà del seicento poche lane e
j)oche sete si trassero fuori d' Italia. I lanilìzj si mantene-
vano in Firenze con grande riputazione : e i panni di Olanda
e di Francia incominciarono a venire solamente sul fine dei
seicento. I panni d'Inghilterra uscivano non tinti, ed erano
imperfetti In lavori di seta non ancora Lione aveva
tolto il vanto nò a Bologna né alla Toscana. Le manifatture
dunque erano in casa, nò si doveva pagare, come oggi ad-
diviene, il loro viaggio sull'alpi, nò la loro navigazione sul
mare. Aggiungasi che se la materia degli abiti è semplice,
la foggia è varia : e ad ogni stagione si cangiano gli abitini
dilicati, ed i nostri giovani come farfalle eleganti non aspet-
tano la sola primavera, ma di due nu3si in due mesi alla
più lunga svolazzano lietamente, e riproducono la loro lieta
esistenza per le piazze e per le assemblee con un color
nuovo e una nuova modificazione di taglio, che si reputa
sempre gajo ed aggraziato, purché sia diverso da quello
che si usava la settimana antecedente. Quanto poi', o si-
gnor Conte, ai decantati drappi sazj ed arricciati d' oro e
di argento, li quali aggravavano col ricco peso le spalle dei
nostri avoli, e che provveduti sino dai primi giorni nuziali
promettevano immortalità, asserisco, che tanto era minore
l)ropriamente il lusso, quanto era maggior la durata. Oggi
nnandrienne dura (salvo l'onor della moda) appena tre anni :
allora senza disonore ne durava (juaranta. 1 liori inseriti
nelh» lievissime sete oggi sono cosi tenui, che accennano di
sfogliarsi presto fragili e caduchi L'andamento della
persona e il passeggio ed il più accidentale strolinamento
alla delicatezza di silVatti fregj porta (luel danno, che il
vento reca a certi fìoruzzi, che nascono col nascer del sole
e muqjono al suo tramontare. Una danza poi alquanto agi-
lata sarebbe a tali vesti una vera tempesta. Ben avreste
ragione, o sensatissimo Cavaliere, se tacciaste il lusso del
secolo XVIII come frivolo. In verità è tale Amasi la
bagattella elegante e fragile
K dopo la cucina e la guardaroba, che sono i due capi-
toli più notabili ed illustri del lusso, questo lusso si pre-
senta a questa età in ogni parte della vita civile. Lusso
è nelle scuderie de' cavalli e nelle rimesse de'cocchj. Una
carrozza provveduta in solennità di nozze appena si can-
giava un'altra volta, se la vita era lunga. Oggi le fogge
342 SECOLO XVIII.
de' cocchj sono variabili quasi quanto quelle delle cutlle : e
poi si vogliono i bronzi da Roma, lo molle da Ingliilterra,
le vernici da Parigi, lo sagome da Milano o da Verona.
Ognuna ed ognuno nelle opulenti famiglie vuole il suo legno
a parte per la città, per la villa, pel viaggio. Io non potrò
oggi dopo pranzo, scriveva Enrico IV al suo ministro Sully,
venir a trovarvi, perdw mia moglie adopera il carrozzone.
Uno de' nostri magnifici pubblicani scriverebbe cosi? Lusso
è nella servitù, la quale si vuole attillata in doppio arnese,
da estate e da inverno ; e sdegnerebbe uno stairiere por-
tar una livrea o troppo breve o troppo prolissa o per altra
guisa mal corretta, onde non si acconciasse air abitudine
della sua persona. I cocchieri gelerebbono nelle cotidiane
lor gite per le notti invernali, se non impellicciassero se
stessi e i loro destrieri cogli orsi setolosi. I credenzieri
ed i cuochi di prima classe si pagano più assai che non i
precettori de'proprj figliuoli. Se la umanità del secolo ha
scemato di molto il numero, a me sempre increscevole, dei
lacchè sfacciati a piedi, si supplisce in viaggio con quello
dei vistosi forieri a cavallo ; e per città, in qualche capi-
tale, coi cani danesi e corsi, che corrono furiosi innanzi alle
carrozze, e mangiano ben pasciuti anch' essi il pane dei po-
veri. Gian-Jacopo Rousseau cadde a terra per 1' urto di uno
di simili cani prepotenti, e dalla percossa forse poi ne morì.
Lusso è nelle conversazioni, ed in questo perpetuo giro di
visite e di ciance, onde il ceto nobile si studia di passare
le sue sì lunghe ventiquattro ore Lusso è nelle vil-
leggiature. La villeggiatura una volta era un disimpegno
dalle spese cittadinesche ; e la borsa del padron di casa,
vuotata fra V anno dall' urbana sontuosità, si confortava
colla villareccia frugalità. Non è che l' amico ospite non
interrompesse il silenzio e la solitudine colla sua grade-
vole venuta: ma 1' abbondoso domestico cortile, ma l'orto
ed il brolo fruttiferosi, ma i bariletti ed i fiaschi più riser-
bati, ma le cacce minori e le maggiori consolavan la tavola
senza disagio. Ora la villeggiatura è la prima e più forte
spesa dell' annata ; e se è necessario consiglio usare eco-
nomia, il primo e più usato studio è trovare accorti pre-
testi da intralasciarla. Trasportansi in villa i divertimenti
della città, come se non si fossero mai fra l' anno assaggiati.
Le aperture dei teatri nelle grandi città si succedono le
une alle altre ; ed il pagare i palchetti (la qual paga una
volta entrava alla schiera delle spese, cui una dama do-
veva soccombere colla quota assegnata per le sue spille)
oggi è un affare di serio dispendio, cui debbo supplire a
parte il marito e la famiglia. Ma i teatri si vogliono ancora
in campagna, e si va scarrozzando colle poste qua e là per
andare all'opera. Insigne atto di lusso è poi albergar Mel-
pomene e Talia in casa propria, che è una invenzione (sic-
come io potei osservare in parecchie contrade d' Italia) si-
GIUSEPPE BARETTI. 34:5
cura per dissipare il patrimonio con fretta H ciò clie
maggiormente mi determina ad appellare il secolo XVlll
il secolo del lusso, si è la dill'usa od amplificata univer-
salità del lusso per tutto le terre e per tutte le condizioni,
eziandio le più vulgari. Il signor marchese di Miraheau
racconta che una domenica chiese di presentarsi a lui un
pulito giovine vestito di seta nera, ben acconcio gli unti
capelli, con purissima calza bianca, e con manichetti di fina
tela ; e che dopo alquante parole intese che era il figlio
del suo mariscalco. Noi non abbiamo bisogno di andare a
Parigi per vedere somiglianti metamorfosi di leggiadria.
In ogni paese il maggior numero che sia di botteghe è
(]uello delle botteghe de' parrucchieri per arricciare ancora
gli artigiani, eguale a quello dei canottieri per sollazzare
gli oziosi. Qual difl'erenza omai passa fra l'abbigliamento
di una gran dama e di una piccola cittadina? Un trallicanto
veste e mangia e si diverte, come un cavaliere. Ne' giorni
che si chiude il fondaco e s' intromette il lavoro, si vuol la
gita in campagna, il pranzo o la merenda di compagnia,
il passeggio, il giuoco, la commedia. La plebe si abbandona
agli stravizzj della tarda osteria; ed al lunedì mattina si
prolunga il sonno, e si partecipa l'ozio del giorno antece-
dente, con danno delle arti e dei trallìci. Io non disputo
ora sulle ricchezze che porta il lusso in seno delle na-
zioni: solamente so che questi sono disordini. E però dopo
aver provato, come io estimo, che il lusso del settecento è
maggiore che quello del seicento, non mi congratulo già col
secolo nostro, né me ne fo un vanto. Noto anzi che lo smo-
dato lusso presente è nocevole ed al vero lavoro ed al buon
costume. — (Dalla Lettera critica sulle qualità del lusso
presente in Italia; nelle Opere, ediz. di Bassuno, voi. VI,
pag. 183 e scgg.)
GIUSEPPE BARETTI.
Nacque ;v Torino il 25 aprile del 1719 • da Luca Antonio, inge-
gnere ed estimatore generale del Ke e da Anna Caterina Tesio;
la sua fanìiglia, oriunda di Kivalta Bonniila nel Monferrato, ei la
credeva, pare erroneamente, derivata dai marchesi Del Carretto.^
Per contese domestiche, nate dalle seconde nozze del padre, che
aveva trascurata la sua educazione, abbandonò la casa paterna
nel 1735, recandosi a Guastalla presso uno zio, che lo pose come scri-
vano presso i Sartoretti, ricchi commercianti. Quivi conobbe Carlo
* Vedi Luigi Piccioni, Intorno alla data della nascita di G. lì., in Giom.
Star. Leti, hai., XXVIII, 305.
* Vedi A. D. Perrkro, Della famiglia di 0. B., in Curiotità e ricercht
di Storia subaìp., V, 524 (1883); e L. Piccioni, Dì G. Ji.. la famitjlia, %
primi anni, in Atti deWAtenco di Uercjamo, vol. XIII (1S09).
344
8EC0L0 XVIII.
Cantoni, che coltivava gli stndj della poesìa e che lo giovò dei suoi
consigli, e da lui ricevette la prima educazione letteraria.' DaCiuM-
stalla, dopo essere stato a l'arma e a iMantova, ove conobbe il
Frugoni e il poeta bernesco Vittor Vettori, e a Torino, dove forse
sentì le lezioni del Taglìazucchi, passò a Venezia, e vi frequentò lo
Zeno e la famiglia Gozzi; poi verso il 1710 si fermò a Milano per
circa tre anni, vivendo in allegra familiarità col Bieetti, col Ba-
lestrieri, col Passeroni e con altri valentuomini,^ coltivando la
poesia, specialmente bernesca, e lavorando alla mediocre versione
ùg' JRiviedj d'Amore e degli Amori di Ovidio, che fu pubblicata
poi, nel 1752. Tornò a Torino nel '42, ma ne parti presto, nominato
custode de' magazzini delle
fortificazioni di Cuneo 0743;;
indi, mortogli nel 1744 il padre,
tornò a Torino; poi rivisitò Mi-
lano, dove era stato ascritto
all' Accademia dei Trasfor-
mati, e Venezia, dove pubblicò
una traduzione delle Tragedie
del Corneille (Venezia, Herz,
1747) e scagliò contro un dot-
tor Schiavo certe Lettere (Lu-
frano, 1747) nelle quali rivelò
fin d' allora, in tutta la sua
acre violenza, il carattere del
futuro Aristarco. Nel '49 era
nuovamente a Torino, e ivi,
mentre entrava in aspra po-
lemica col prof. Giuseppe Bar-
toli, attese a una raccolta delle sue migliori Piacevoli Poesie (To-
rino, Campana, 1750). Nel 1751 andò a Londra, dove fu addetto
alla direzione del Teatro italiano, e si mise ad insegnar l'italiano
e a far pubblicazioni varie e in varie lingue.^ Nove anni vi di-
morò, onorato e incoraggiato da calde e generose amicizie, come
quelle di Lord Charlemont e di Samuele Johnson.* Nel 1760, subito
dopo aver dato in luce quel Dictionari/ of the Englisk and Itallan
languages, che fece fortuna e neppure oggi è dimenticato, ritornò,
* Vedi G. Malagoli, Carlo Cantoni umorista e favoleggiatore del se-
colo XVIJJ, nel Giorn. star, della leti, ital., voi. XXI, pag. 265 e segg.
^ Vedi L. Frati, Il B. a Milano sec. ale. leti, ined., in Bibliat. scuole
ital, Vili, 171.
'^ Vedi L. MORANDI, Epìsodj della vita dd Baretti a Londra, nella
Nuova Antol., 15 febbraio 1883 e in Voltaire contro Shakespeare, Baretti
coìitro Voltaire. Città di Castello, Lapi, 1884.
* Vedi L. Caetani, Bareni e Johnson, Roma, tipogr. tenne Diocleziane,
1894 (cfr. la recensione di Y. Cian in Rassegna bibliogr.lett.ital., Ili), e
L. Piccioni, G. B. e Lord Charlemont, in Studj e ricerche più sotto cit.,
pag. 383,
GIUSEPPE BAUETTI.
34-
pass,! Milo per il Portogallo, p(M- l.'i Spagna e per la rrnncla, a To-
rino, (; intanto acciiiistò pratica maggiore di lingue straniere. A
Milano sperò un ultieio dal conte di Firmian, e non ottenutolo,
attese a dar un ragguaglio del suo viaggio, in forma di Lettere
familiari ai suoi tre fratelli; ma, per richiami del ministro del
l'ortogallo, non potè stamparne a Milano se non il primo tomo
(Milano, Malatcsta, 171)2). Si recò allora a Venezia dove dimorò
alcuni anni pul)l)licandovi fra mezzo a molti ostacoli ^ la Frusta
Letteraria e il secondo volume delle summentovate Lettere (Ve-
nezia, Pasquali, 17G3). Lasciata Venezia nel 1705, stette nascosto
in Ancona- per potervi liberamente proseguire la Frusta, a Ve-
nezia soppressa : poi passò a Livorno, di lì a Genova, donile nel '(J<»
tornò, riprendendo l'abituai vita laboriosa, a Londra, e qui, nel
1768, fu nominato segretario deirAccademia reale di belle arti per
la corrispondenza straniera, ma senza stipendio. Viaggiò colla fa-
miglia d' una sua alunna per la Francia e le Fiandre, e poi, da
solo, nuovamente la Spagna, dove si trattenne qualche mese per
compiere una sua scrittura in lingua inglese: A Journei/ from Lon-
don io (ienoa ec. (London, Davies, 177U). Quanta fosse la stima e
l'atìetto da cui, malgrado le beghe e le insidie che anche là si su-
scitò contro, era circondato in Inghilterra, si vide allorquando nel
17(5'.>, processato per un omicidio da lui commesso per necessità di
difesa, i personaggi più eminenti ed autorevoli comparvero a de-
porre in favor suo, e contribuirono alla sua assoluzione. Rimpatriato
nel 1770, con un buon gruzzolo di danari, frutto delle sue oneste
fatiche letterarie, visitò i parenti a Torino e nel Monferrato, scorse
la Toscana, si fermò tra gli amici a Bologna, e fu ospite a Ge-
nova dell' amico suo il doge Negroni. L'anno seguente tornò in
Inghilterra dove, per la guerra colle colonie d'America, i tempi
v()lg(^vano poco propizj agli studj e agli studiosi, e fallitegli le
pratiche per tornare definitivamente, come sognava, in i)atria, e
disgustatosi coi fratelli, più non si mosse dall'Inghilterra, se non
per brevi gite in Francia, finché nel '72 consegui una pensione
annua di ottanta sterline dal Ke. Seguitando a lavorare e a pub-
blicare con ammirabile vigoria di mente e di corpo, il 5 maggio
del 1789, chiuse in Londra la sua vita quasi sempre disagiata e
tempestosa.
L'edizione più copiosa delle opere del Baretti è quella di Mi-
lano, Classici, 1838-39, in quattro voi. Buona scelta dei suoi Scritti
è quella di M. Mknc.hini, Fii-enzc, Sansoni, 1897.=' Ora diremo
de' principali suoi scritti.
' Vedi A. I). rK.liRKRO, // so;iffiornn dd fiarctli a Vauzia (1705-60),
«ci giornale La Letierainra (lei 3 marzo 1890.
• Vedi A. MoscnKTxr, G. 11. ud tuo lutscondigìin, in Mi-^cilf. uuziala
Ro8»i-Tcias, Bergamo, Arti grariclic, 1897, pa?. 2^3.
* Vedi su di ossa, (Jivrn. utor. leti. iUtt., XXXI, UG, 6 liasacfjna cri'
(leu leu. iUd., Ili, II.
340 SECOLO XVIII.
Della Frusta Utteraria si pubblicarono i primi venticinque nu-
meri (lo ottobre 17G3-15 gennaio 17G5) a Venezia colla data di lio-
veredo; altri otto (i» aprile-15 luglio 1705) ad Ancona colla data di
Trento ; nò era nuova, salvo la battagliera vivacità degli articoli,
questa forma di Giornale periodico in Italia. La Frusta fu un
giornale, coni' oggi si direbbe, bibliografico: il Baretti vi si na-
sconde sotto il nome di Aristarco Scannahue, vecchio soldato con
una gamba di legno, che aveva un servitore (Macouf) ed un amico
{Don Petronio Zamherlucco). Il Baretti, oltre che per intendimenti
critici e letterarj, che sarebbe ingiusto negargli, fece forse anche
cotesta pubblicazione per richiamar 1" attenzione su di sé e per
provvedere ai bisogni proprj.' Carattere ùoWdi Frusta fu più spesso
la crudità che la franchezza della parola e de'giudizj: utile del
resto, come per certi mali il ferro ed il fuoco, specialmente contro
le frivolezze erudite e le pastorellerie arcadiche, in un tempo di
cosi manifesto servilismo letterario, che il periodico potè esser
proibito dalle autorità venete col pretesto di un articolo poco re-
verente verso le poesie del Bembo. Sono ricordati ancora i vio-
lenti attacchi contro il Goldoni, ai quali il Baretti fu mosso anche
da Carlo Gozzi e dall'Accademia dei Granelleschi, mentre più
tardi si mostrò sinceramente benevolo all'autore del ^owrru òie/i-
faisant.- Fu costantemente e recisamente avverso alle novità fran-
cesi e alla scuola dei giovani che in Milano compilavano il Caffè,
che, fra molte buone cose, troppo mostravasi inchinevole al genio
oltramontano. Degna di ricordo è anche l'avversione del Baretti
pel verso sciolto: più del resto per la scipita contenenza di certe
poesie in quel metro, che non per errato giudizio sul valore d' un
verso destinato a produrre poi effetti maravigliosi per opera del
Parini, del quale il Baretti pur riconobbe i meriti, dell'Alfieri, del
Foscolo. Contro di lui si levò, fra gli altri, e con più accanito im-
pegno, il Padre Appiano Buonafede col Bue pedagogo, ec. (Lucca,
1764), e il Baretti gli rispose coi Discorsi fatti dall' autore della
Frusta letteraria al Reverendissimo Padre Don Luciano Firen-
zuola, ec, che vennero scritti in Ancona.^ La Frusta, tuttavia, ha
sempre un posto eccelso nella serie di quelle opere che contri-
buirono al rinnovamento della critica letteraria.*
Le Lettere familiari ai suoi tre fratelli, nelle quali il Baretti
narra molti particolari de' suoi viaggi, sono l'opera di lui più letta, e
^ Vedi A. Neri, G. B. e % Gesuiti, in Supplemento, n. 2 al Giorn. stor.
hit. itaì. (1899).
2 G. Sanesi, Baretti e Goldoni, nella Rassegna Nazionale, voi. LXIX,
16 febbraio 1893.
3 Vedi E. Masi, Frusta letteraria e Bue pedagogo, nel volume Parruc-
che e Sanculotti nel sec. XVIII, Milano, Treves, 1886.
* Vedi D. Ferrerò, B. e la Frusta lett., la La Letteratura, I, 132 (1891);
G. Canti, La Frusta letteraria, Alessandria, Chiarì, Romano e Filippa, 1890;
E. Ferrari, G. D. e la Frusta letteraria, Bologna, Zanichelli, 1896,
GIUSEPPE BARETTI.
347
certo, più pregevole dopo hi Frusta: di lettere sue familiari altre
furono pubblicate dal Custodi (Milano, liianchi, 1822-"J.'{) riprodotte
con molte altre iiell'odiz. cit. delle Opere, altre da L. Morandi,'
da A. Neri e da M. Menghini.* Queste non sono da confondersi colla
Scelta di lettere faììiiliari fatta per uso det/li studiosi di lìn(jua
italiana (Londra, Nourse, 177'.«), nella quale sono parecchi articoli
della /'Vws^rt, varie lettere sotto nome d'altri e la famosa in fran-
cese contro il proposto Marco Lastri, che aveva detto male della
Prefazione preposta dal IJarctti a una edizione di tutte le Opere
del Machiavelli (London, Davies, 1772). Altre ha messo a luce il
prof. Luigi Piccioni nel libro che più sotto ricordiamo, e che con-
tiene anche un Indice cronologico delle lettere haretliane edite a
note (pag. 5(J2 segg.)-
Lasciò anche poesie e traduzioni varie.
In inglese, oltre il Dizionario delle due lingue e quello Inglese-
Spagnolo (Londra, Nourse, 177S), pubblicò parecchi lii)ri didattici:
ricorderemo il The Italian Librarli (London, Millar, 1757), raccolta
di notizie sui principali scrittori italiani; YAn Introduction to the
inost nseful European /a/j/z/m^/fs (London, Davies, 1772), scelta op-
portuna di passi tratti dall'inglese, dal francese, dall'italiano e
dallo spagnolo: ' VEas;/ Pliraseologij for the use of young Ladies
(^London, Kobinson, 177ó), dialoghi in inglese e in italiano per l'am-
maestramento di una sua scolara, oc. Nò vanno dimenticate le sue
opere polemiche, le quali talora prelusero e talora continuarono
l'opera della Frusta: quale VA Dissertai ìon upon the italian poetrg
(London, Dodsley, H'^i), volta specialmente contro il Voltaire,* il
Tolondron (London, Faulder, 17S<')), contro .lohn IJowle, e altri mi-
nori. Cosi pure è merito suo grande quel Discours sur Shakespeare
et sur Monsieur de Voltaire (London, Nourse, 1777), nel quale difese
vigoro.samente il grande scrittore inglese;"' come nell'vl?! account
of the inauìiers aiid custoins of Jtali/ ec. (London, Davies, 17G8), di-
fese l'Italia e gl'Italiani contro l'inglese dr. Sharp, in un libro ricco
di curiosi particolari sulle coiTiumniize e la cultura nazionale di
quel tempo, e che si trova ancht! tradotto in italiano cui titolo:
Gli Italiani o sia Relazione degli usi e costumi d'Italia (Milano,
Pirotta, 1818). Come quest'ultima, così altre delle sue opere in-
' Nel voi. Voltnire contro S/uiLexpearef lìnreAti contro Vohnire, già cit.
- Littere ined. di G. lì. ad Ant. (ìreppi, neWArvli. stor. loinl>., anno Xlil,
188(1, fase. Ili, pagr. OH e segg.; Due Ictt. ined. di (!. li., Firenze, Carno-
sccchi, 1895.
3 Vedi Em. Tkza, // IH>ro quadrilingue di G. lì., iti Rasa. hihUorjr. Iet-
terai, ital., VII, 97.
* Vedi l'art, di A. Nkri, Un mazzetto di curiosità, in Giorv. Ligustico
di Genova, au. XV, fase. VII-VII I.
* Vedi il citato volume del Morandi e l'art, di A. NKRr, Due aneddoti
l'iicrari poco noli, in Guzz. Letter. di Torino, an. X, n. 21-. Il H. si trovò an-
olio in altri giudizj avversario del Voltaire: vedi K. Tkza, Giudizj del lìaretti
>• dei Voltaire sopra alcuni verni dei Lusiadas, Livorno, Giusti, 1899.
348 SECOLO XVIII.
(>leHÌ, furono voltate non clii; in italiano, anche in francese v. in
tedesco; il che <•- prova del valore e dell' importanza attribuite
ad esse dai contemporanei.
Il Baretti, come molti degli scrittori di questo periodo, derivò
in gran copia il nutrimento intellettuale dalle letterature straniere
e specialmente dall'inglese: e ciò gli conferì quella larghezza e
indipendenza di giudizio che non si trovano sempre ne' troppo ligj
alle tradizioni. Notevole in se e in quei tempi è il suo stile jier
certa amabile disinvoltura: ond' ci può dirsi uno di coloro che
meglio giovarono al rinnovamento della nostra prosa moderna,
come incontrastabilmente la sua arte critica, che fu acerrima bat-
tnglia contro il falso e il vano, fu, ad onta di alcuni scarti e di
alcune sviste, potente strumento di rigenerazione intellettuale.
[Per la biografia, vedi le Memorie della vita del B., premesse dal
Custodi agli Scritti scelti inediti e rari di G.B. (Milano, Bian-
chi, 1822-23) ; C. UGONI, Della Lette.r. ilal. nella seconda metà
del sec. XVIII (Milano, Beruardoni, 1856, 1, 3); E. Lidforss, G.B.
en italiensk litterator etc. (in svedese), Stockolm, 1894 (vedi SE. di
BlARTINO, in Rass. hihliogr. lett. ital., II, 170); LUJGI PlCClONJ,
Studj e ricerche intorno a G. Baretti con lettere e docum. ined.
(Livorno, Giusti, 1899: e su questo libro consulta T. Ortolani, in
liass. bibliogr. lett. ital., Vili, G5, e E. Bertana in Giorn. stor.
lett. ital., XXXIV, 436), Per la bibliografìa, l'opera cit. del Piccioni,
pag. 3, e 585-601, nonché del medesimo lo scritto cit.: La fami-
glia, i primi anni ecc.]
GII Inglesi. — Togliamo agi' Inglesi questa loro smisura-
tissima parzialità per la loro patria, e l'odio loro arrabbia-
tissimo contro i Francesi, e lo irragionevole lor disprezzo
per tutte le nazioni del mondo, gli Inglesi non sono gente
insoffribilmente cattiva. Sono, come ognun sa, molto corag-
giosi e intrepidi, vuoi per mare o vuoi per terra, né è fa-
cile trovare nelle storie esempj di codardia inglese. I Fran-
cesi qualche volta gli hanno rotti e vinti in battaglia, ma
non so se gli abbiano fatti fuggire una sol volta a rompi-
collo nelle tante guerre che le due nazioni hanno avute in-
sieme. La tempera naturale degl' Inglesi è un misto di sem-
plicità e di beneficenza. Se ti possono far del bene, te lo
fanno con molta magnanimità, e senza vantarsene dopo.
L' umanità loro s' è molto luminosamente palesata in que-
sta presente guerra (1760), raccogliendo per tutta la nazione
una contribuzione volontaria per vestire molte migliajade'lor
nimici, che avevano nella lor isola prigionieri, e che, senza
quella generosissima universal contribuzione, sarebbono in
gran parte morti di freddo l'inverno passato, che fu molto
rigido. Qual nazione antica o moderna ha mai dato un esem-
GIUSEPPE BARETTI. 310
pio al mondo di tanto eroica carità? Vi furono Ucf^l'lnfrlosi
elio diedero le venti, le trenta, e fin le cento e le du^^ento
f-liineo a questo elVetto, senza voler essere nominati nello
liste, clie si stamparono de'maunanimi benefattori di (Hie' po-
veri prigionieri ; e molti mandarono quelle buone somme
di danaro tanto destramente, elio da quelli i quali furono
destinati a ricevere quelle contribuzioni, non si potette sa-
pere d'onde e da chi quel danaro venisse. Mi dirà bene
qualche austero filosofante, che anche questi furono elfetti
d'amor proprio, e per conseguenza furono atti non degni
di lode ; ma canchero venga a tutte le dottrine filosoficlui
quando tendono a infiacchire la beneficenza degli uomini I
Molto migliore è sempre quella nazione che usa beneficenza
per un impeto di smisurata vanità, che non un'altra na-
zione, la quale per saviezza si astiene dal beneficare, onde
non appaja vana e rigogliosa. Pochi sono gli atti di pura
virtù che gli uomini fanno, e la vanità e l'orgoglio troppe
volte ne muovono a favore del nostro prossimo: tuttavia
sempre è lodevole chi ò liberale del fatto suo per ajutaro
il prossimo. Il fatto sta che gì' Inglesi fanno di gran cose per
aver danaro, ma quando n' hanno lo spendono liberamente,
e te ne danno se ne chiedi loro ; e se sai ùive qualche cosa
di buono, t' insegnano a lor potere le vie d'impiegare i tuoi
talenti e di procacciarti onestamente la vita ; e quando
sono persuasi che tu sei galantuomo, o forestiere o nativo
che tu sia, si fanno presto un punto d'onore di spalleggiarti
e di tirarti innanzi. Nel conchiudere i loro contratti usano
poche parole, lo lo seppi in prova più volte; e mi ricorderò
sempre che (juando m'accordai con otto librai associati per
correggere ed ampliare il Dizionario dell'Altieri, domandai
loro addirittura dugento ghinee. Un bicchier di vino e una
stretta di mano finirono l'accordo in meno tempo che non
lo scrivo; anzi quando il mio lavoro fu terminato, furono
presto unanimi in farmi aijclie un buon regalo, essendosi
da sé stessi persuasi che io aveva fatto qualche cosa di più
intorno a quel Dizionario, che un altro non avrebbe fatto.
I nobili d'Inghilterra non sono avari e superbi, come lo
sono in molte parti d'Italia. A vedere come trattano i loro
inferiori, pare che cerchino più di farsi amare, che non di
farsi rispettare; che all'incontro molti de' nostri nobili pa-
iono sempre agitati dal timore di non essere stimati per
que' che la fortuna li ha fatti ; e tanta più alterigia mo-
strano, (pianta più abbiettezza trovano in chi deve loro per
sua sventura accostarsi. PYa i nobili inglesi se ne trovano
molti di letteratissimi ; e in tanti anni eh' io sono stato fra
di essi, non ho trovato neppur uno che non si vergognasse
di essere troppo ignorante; che all'incontro mi ricordo
molti de' nobili nostri, i quali se ne stanno serenamente a
sedere sulla seggetta della sciocchezza, senza mai mostrare
d'essere nauseati dall'infinito puzzo che di quella esce, e
350 SECOLO XVIII.
clie anzi si fanno un animalesco pro;,no di ossero reputati
asinacci in o^mi sorta di buone lettere, fidandosi unicamente
alla riverenza che T antichità della prosapia e l'abbondanza
di quattrini naturalmente procurano. Lo arti in Inghilterra
si sono perfezionate più che in altro moderno paese. Tranne
la pittura, la scultura, L architettura e la musica, in cui
gV Inglesi non ci possono venir vicini per quanti sforzi si
facciano, nel resto vincono e noi e gii altri. Se noi abbiamo
primi adattata la calamita agli usi della nautica, e se primi
abbiamo vòlto il cannocchiale a' corpi celesti, essi hanno tanto
studiato su queste nostre due invenzioni, elio le loro bus-
sole e i telescopj loro hanno poi fatto scordare i nostri. Ma
sarebbe un voler bere L Atlantico ch'io vo solcando, chi
tentasse dire di quante arti gì' Inglesi sono stati o i trova-
tori i perfezionatori. E che dirò della loro poesia, della
loro astronomia, della loro metafisica, e di tutte le scienze
che allontanano 1' uomo dal bruto, e lo avvicinano all' an-
gelo? E che dirò della costumatezza e del garbo infinito
delle loro gentildonne, molte migliaja delle quali sono da
scambiare per creature celesti ? Graziose, modeste, prudenti,
generose, caritatevoli, affabilissime, allegre, pie, oh Dio le
benedica ! E pratiche di lingue moderne, e intendenti di
musica e di disegno, e conoscitrici di fiori, e dotte nel ri-
camo, e eleganti nel ballare, e naturali nel vestirsi, e si-
cure nel parlare come nel metter in carta, e esattissime
nella pronunzia, nell'ortografia e nella frase della loro lin-
gua, e leggitrici indefesse di poesia e di libri morali, oh
Dio le benedica un' altra volta ! In somma chi è nato in-
glese, paragonalo a qual uomo d' altra nazione tu vuoi, non
ha sul totale ragione alcuna di vergognarsi della sua pa-
tria, malgrado quella tanta corruttela, che ribocca per al-
cune parti d' Inghilterra, e spezialmente per Londra, che
si può veramente chiamare il centro d'ogni virtù e d'ogni
vizio. — (Dalla VI delle Lettere ai fratelli, de' 25 agosto 1760,
in Opere, voi. Ili, Milano, Classici, 1839, pag. 39.)
La caccia de' tori a Lisbona. — La festa de' tori, a chi la
vede per la prima volta, non si può negare che non sia cosa
da empiere di stupore. V'assicuro però che non butterei più
un quattrino per vederne un'altra, e che mi ha scandolezzato
molto il rimirare tanti cristiani, e spezialmente tanti preti,
assistere a un passatempo di tanta crudeltà n^l proprio
santo giorno di domenica. Ma per farmi da capo a dirvi di
questa inumanissima cosa, jeri Terso le tre ore dopo il
mezzodì montai in un calesse tirato da due muli, che qui
è la vettura la più comune; e dopo un'oruccia di bel trotto
giungemmo il signor Edoardo ed io ad un luogo chiamato
Campo Pequeno. Quivi è eretta una fabbrica tutta di legno,
fatta in forma decagona, di dugentocinquanta passi di dia-
metro circa. Il pianterreno di tal fabbrica contiene delle
GIUSEPPE BARETTI. 351
pancìie disposto anfiteatral mente, e il piano di sopra è com-
posto di palchetti elio potrebbono ben capire dodici e più
persone ciascuno. Parte dello genti che sono nell'antitea-
tro, stanno a sedere su (luellc panche, e parte s' appog-
giano a un riparo di tavofe, clie giunge sino al mento delle
persone di statura comunale. Quo' che sono ne' palchetti,
seggono su certi piccoli scanni molto scomodi. Noi eravamo
dalla parte dell'ombra, quasi in l'accia al palchetto del re,
e lontani tre palchetti da quello della regina. Il re, vestito
d'una seta azzurra senz'oro e senza argento, stava con suo
l'ratello don Pedro, che pochi mesi sono ha presa per mo-
glie la principessa del Brasile primogenita del re. La re-
gina, perchè mi stava di fianco, non la potetti mai vedere
in faccia, e mi dicono che aveva seco nel palchetto le sue
(juattro figlie, che non potetti neppure distinguer bene, per-
chè pochissimo si mostravano. Il popolo spettatore era nu-
merosissimo ; di maschi, s'intende, che le lemmine non mi
parve oltrepassassero le cento. (ìiù nello steccato v' erano
forse dugento persone, la più parte sedute in terra. Guar-
die del re non ve n'era neppur una; e una certa figura
vestita come da brighella se ne stava a cavallo con un
lungo e sottil bastone in mano, e fermo sotto il palco della
regina. Al giungere del re entrarono tosto nello steccato
due spezie di carri di trionfo tirati da sei muli cia.scuno.
Que' carri erano assai malfatti e disadorni. Sur uno d'essi
stavano otto birboni, che rappresentavano guerrieri mori,
e sull'altro otto altri birboni, guerrieri indiani. Fatti al-
quanti caracolli a tutta briglia, i Mori e gì' Indiani si lan-
ciarono giù de' carri, e cominciarono una breve e gofl'a zuffa,
nella quale gli otto Indiani furono distesi morti sul terreno
da' Negri valorosi con le loro spade di legno : e poi i Negri
vivi e gì' Indiani morti, con molte risa corsero tutti insieme
da un canto dello steccato, e diedero luogo a' due cavalieri
che dovevano combattere i tori, e che s'avanzarono vestiti
alla spagnuola, e con pennacchi in testa, su due bellissimi
cavalli bizzarramente bardati. La livrea d'uno era gialla;
quella dell'altro chermisina. Finite le l'iverenze e le capriole
fatte fare da' cavalli alla regina, al re e a tutta l'udienza, e
incoraggiti i due campioni dall'applauso universale, uno
d'essi s'andò a porre dirimpetto a una porta, che era quasi
sotto il palchetto del re, e l'altro galoppò al lato opposto
dello steccato. Aperta quella porta da uno, che nell' aprirla
si ricoperse con essa, ecco un toro che in tre salti si lan-
cia al campione giallo, il quale sta aspettando l' infuriato
animale con uno spiede in pugno, il toro si portò via nel
collo mezzo Io spiedo, e il toreador fece saltare con molta
destrezza il suo Rabicano * da un canto per iscansare le non
' liahicano e più sotto Arr/nlia, nomi dì cavallo e cavaliere desunti
dall' Orìantlo innatiioroto.
r/)2 SECOLO XVIII.
molto spaventose corna, le quali avevano le punte assicu-
rate e rese ottuse da un pezzo di lef,^no torniate. La be-
stia, sentendosi ferita, corse la piazza con molta rabbia, e
il cavaliere, seguendola e volteggiandole intorno, quando
quella se gli avventò di nuovo centra, con un altro spiedo
la trafisse ancora nel collo ; e il toro fuggendo da lui si
lanciò al toreador chermisino, il quale gli lasciò un terzo
spiedo pur nel collo ; e il campion giallo, sguainando uno
spadone, menò al disperato animale un taglio si giusto e
di tanta forza tra costa e costa sulla scliiena, che lo fece
procumber giù mezzo rovescio, e grondante d'infinito san-
gue. Appena fu il toro in terra, che molti toreadores a
piedi gli saltarono addosso, e afferrandolo per le corna lo
trafissero con moltissimi colpi di daga. Il brighella, o araldo,
officiale, che non so come sei chiamino, galoppò subito
verso una porta, che fa fronte al palco della regina, e dato
Lordine, entrò una quadriga di muli che strascinò via la
bestia non ancor ben morta, insieme con un moro, che per
allegria era saltato a sedere suir arrovesciato corpaccio.
Nojosa cosa sarebbe il dirvi, fratelli, i poco diversi acci-
denti che avvennero nelT ammazzare tutti i diciotto tori,
che perdettero a uno a uno la vita in quel giorno. Alcuni
prima di morire ebbero sino a otto spiedi nel collo, ficcati
loro talvolta dalli due toreadores a cavallo, e talvolta da
altri toreadores a piede. Ed è cosa maravigliosa vedere uno
agilissimo toreador a piede, che afferrando colla sinistra la
coda al cavallo di questo o di quel campione e colla destra
una bandiera, salta e corre senza mai abbandonar quella
coda ; e colla bandiera irrita e stuzzica la bestia, la quale
si scaglia ora a lui ed ora al cavaliere, e tosto che si sca-
glia, il cavaliere la ferisce, e feritala o in pieno o a sghembo,
tutt' e due la schivano, sempre volteggiando con destrezza
inesprimibile. Né mai è il toro percosso se non per dinanzi,
e quando si lancia; che il percuoterlo per di dietro o per
di fianco o quando fugge, sarebbe riputata cosa villana, e
moverebbe a sdegno V udienza. Uno de' tori, seguito e spa-
ventato dalle grida de' prefati Indiani e Negri, e da' torea-
dores a cavallo e a pie, balzò netto dentro l'anfiteatro e
vi cagionò un orribile scompiglio ; eppure nessuno de' nu-
merosi occupatori di quel luogo non vi rimase né morto
né storpiato, tanta è la sveltezza e la pratica de' Porto-
ghesi nel gittarsi da' canti e giù nello steccato, quando in-
travvengon simili casi. Sui gradini dello anfiteatro fu l'ardita
bestia scannata a colpi di spada dagli astanti; e scommesso
in pochi minuti il riparo, venne la quadriga de" muli che la
strascinò via ; e di questa avventura si fece molta festa
dagli spettatori. Ma non avrei già fatta festa io, se per
mia disgrazia mi fossi trovato in quel luogo. Alcuni spiedi,
che i toreadores lasciarono fitti nel corpo d'alcun toro, ave-
vano de' razzi e de' salterelli alla penna, e quando il fuoco
j|
GIUSEPPE BARETTI. 353
cominciò a farli sibilare e IViisciare,* il toro impazzava e
Taceva salti spaventevoli ; e quando que' salterelli e que' razzi
scoppiavano, traboccava il clamore e l'allegrezza de' bar-
bari circostanti strepitosissimamente, perchè gli è allora
che il toro diventava come ehi dicesse indemoniato. Un
negro con una bandieretta in pugno aspettò intrepidamente
uno de' tori, e nel punto che la bestia chinò le corna per
lerirlo, quel negro, leggiero come un passero, spiccò un
balzo sulla corona alla bestia e fattale una imperfetta ca-
priola sulla schiena, saltò giù netto. Un altro negro impu-
gnò a un altro toro il corno sinistro colla manca, e stra-
scinato con furia grande dal feroce animale, stette pur saldo
alla presa, e colla destra gli menò di molte dagate nel
muso e nella testa, e poi si lasciò dolcemente cadere da un
canto in terra, senza riceverne il minimo danno. Il diciot-
tesimo ed ultimo toro però fu vicino a fare le proprie e le
fratellesche vendette, riuscendogli ad un orrendo cozzo di
arrovesciar in terra il bel cavallo del giallo toreador, e di
passar sulla pancia di (juel tristo che gli avea cacciati già
due o tre spiedi nel collo; e se non erano que' pezzi di le-
gno torniati che aveva in punta alle corna, sbudellava cer-
tamente quel signor cavaliere, e quel che è peggio, quel
bellissimo cavallo, che niun de' quattro pia mai pose in
fallo. Rabicano però da una parte e l'Argalia dall'altra in
un baleno furono ciascuno sulle proprie gambe. Rabicano,
facendo salti di capra, s'allontanò dall'animale, che gli aveva
fatto quel bello scherzo, e il giallo Argalia s'avventò ira-
tamente e collo spadone alto al toro, e gli diede tanti or-
rendi tagli sul dosso, che se non erano l'ossa dategli dalla
natura salde come ferro, l'avrebbe spaccato come si spacca
un cocomero. Insomma tutta la turba de' pedestri toreado-
res diedero tante lanciate, sciabolate e dagate a quel po-
vero diciottesimo, che in poco d'ora lo spacciarono e tol-
sero di tormento. V. cosi lini la crudel festa con moltissimo
gaudio, tripudio e soddisfazione de' fedelissimi sudditi di
Sua Maestà fedelissima. — (Dalla Lettera XVI I^ del 1" set-
tembre 17G0. Ibidem, pag. 88.)
Il terremoto di Lisbona. — Sono stato a visitare le rovine
del sempre memorando terremoto, che scosso i due regni
di Portogallo e d'Algarve, con molta parte di Spagna, e
che si fece terribilmente sentire per terra e per mare in
molt' altre regioni nell'anno mille settecento cinquantacin-
que, il dì d'Ognissanti. Misericordia! È impossibile dire l'or-
renda vista che quelle rovine fanno, e che ftxranno ancora
per forse più d'un secolo, che un secolo almeno vi vorrà
per rimuoverle. Per una strada, che è lunga più di tre mi-
* E quel rumore che fanno i saltarelli e i razzi appena accesi, nel man*
dar fuori il fuoco.
IV. Q3
354 SECOLO XVIII.
glia, e che era la principale delia città, non vedi altro che
masse immense di calce, di sassi e di mattoni, accumulate
dal caso, dalle quali spuntan fuori colonne rotte in molti
pezzi, frammenti di statue e squarci di mura in milioni di
guise. E quelle cose che son rimaste in piedi o in pendio, no-
vantanove in cento sono affatto prive de' tetti e de" solfìtti,
che furono sprofondati dalle ripotute scosse o miseramente
consumati dal fuoco. E in quelle lor mura vi sono tanti fessi,
tanti buchi, tante smattonature e tante scrostature, che non
è più possibile pensare a rattopparle e a renderle di qual-
che uso. Case, palazzi, conventi, monasteri, spedali, chiese,
campanili, teatri, torri, porticati, ogni cosa è andata in in-
dicibile precipizio. Se vedeste solamente il palazzo reale,
che strano spettacolo, fratelli ! Immaginatevi un edifizio
d'assai bella architettura, tutto fatto di marmi e di macigni
smisurati, tozzo anzi che tropp'alto, con le mura maestre
larghe più di tre piedi liprandi, e tanto esteso da tutte
parti, che avrebbe bastato a contenere la corte d'uno im-
perador d'Oriente, non che quella d'un re di Portogallo:
eppure questo edifizio, che l'ampiezza delle sue mura e la
loro modica altezza dovevano rendere saldo come un monte
di bronzo, fu così ferocemente sconquassato, che non am-
mette più racconciamento. E non soltanto que' suoi maci-
gni e que' suoi marmi sono stati scommessi e sciolti dalle
spaventevoli scosse, ma molti anche spaccati, chi in due,
chi in più pezzi. Le grossissime ferrate furono tratte de' loro
luoghi, e altre piegate e sconcie, ed altre rotte in due dalla
più tremenda e dalla più irresistibile di tutte le violenze
naturali. Il molo della Dogana in riva al Tago, che era tutto
di sassi quadri e grossissimi, largo da dodici o quindici piedi,
e alto altrettanto, e che per molti e molt'anni aveva mas-
sicciamente sostenuto e represso il pesantissimo furore delle
quotidi^-^e maree, sprofondò e sparì di repente in siffatta
guisa, che non ve ne rimase vestigio; e molte genti che
erano corse sopr'esso per salvarsi nelle barche attaccate
alle sue grosse anella di ferro, furono con le barche e ogni
cosa tratte con tant' impeto sott'acqua, anzi in una qual-
che voragine spalancatasi d'improvviso sotto terra, che non
solo nessun cadavere non tornò più a galla, ma neppure
alcuna parte de' loro abbigliamenti. Gira l'occhio di qua, vol-
gilo di là, non vedi altro che ferri, legni e puntelli d'ogni
guisa posti da tutte parti, non tanto per tenere in piedi
qualche stanza terrena, che ancora rimane abitabile, quanto
per impedire che le fracassate mura non caschino a schiac-
ciare ed a sotterrare chi per di là passa. E tanto flagello
essendo venuto in un giorno di solennissima festa, mentre
parte del popolo stava apparecchiando il pranzo e parte
era concorsa alle chiese, il male che toccò a questa sven-
turata città fu per tali due cagioni molto sproporzionata-
mente maggiore, che non sarebbe stato se in un altro giorno
GIUSEPPE BARETTI. 355
e in un'aìtr'ora fosse stato dalla divina Provvidenza man-
dato tanto sterminio; perchè oltre alle numerose genti, che
a parte a parte nelle case e nelle strade perirono, quelle
che erano nelle chiese affollate, rimasero tutte insieme cru-
delmente infrante e seppellite sotto i tetti e sotto le cupole
di quelle; che troppo gran porte avrebbono dovuto avere
per porgere a tutti via di scampare, sicché molta più gente
andò a morte ne' sacri che ne' profani luoghi. Oh vista piena
d'infinito spavento, vedere le povere madri e i padri me-
schini, stringendosi in braccio o strascinando per mano i
tramortiti tìgli, correre come forsennati verso i luoghi più
aperti ; i mariti briachi di rabbioso dolore, spingere o tirare
con iscompigliata fretta le consorti, e le consorti con pazze
ma innamorate mani abbrancarsi a' disperati mariti o ai figli
o alle figliuole, e gli affettuosi servi correre ansanti co' ma-
lati padroni indosso, e le gravide spose sveni r'c e sconciarsi,
e tombolare su i pavimenti o abbracciare fuor di ogni
senso (jualunque cosa si parava loro dinanzi ; e molti uo-
mini mezzo spogliati, e moltissime donne quasi nude, e fin
le povere monache con crocifissi in mano, fuggire non so-
lamente delle case e de' monisteri por gli usci e per le
porte, ma buttarsi giù d(dle finestre e de' balconi per in-
volarsi, e la più parte invano, alla terribil morte, che s'af-
facciava loro d'ogni banda! Chi potrebbe dire, chi solo po-
trebbe immaginarsi le confuse orrende grida di quelli che
fuggivano o con le membra già guaste, o nel pericolo im-
minente d'averle guaste; e i frementi gemiti di (luelli che,
senza essere privi di vita subitaneamente, rimanevano cru-
delmente imprigionati sotto le proprie o l'altrui diroccate
magioni! E quantunque paja strano e quasi impossibil caso,
pure è avvenuto a molte infelici persone di morire sotto a
quelle rovine, senza aver ricevuta la menoma ferita o per-
cossa da quelle. K ancora viva una povera vecchierella, che
fu cavata fuora d'una cantine,, dopo d'essere stata in quella
rinchiusa e come sotterrata dal terremoto, e dove conservò
la vita nutrendosi di grappoli d'uva, che fortunatamente
aveva pochi dì prima appesi al solajo di quella per con-
servarli, come qui si usa comunemente. Le miserande stor-
piature e le strane morti cagionate da tanto calamitoso
accidente furono innumorabili ; e innumerabili furono i ge-
nitori che perdettero chi tutta, chi parte della lor prole,
e innumerabili i figli che perdettero i genitori; e pochis-
sime le famiglie che non furon prive quale del padre, quale
della madre, quale d'uno e quale di più figli, o d'altro
prossimo parente e consanguineo: e in somma tutti, senza
[eccettuazione, tutti ebbero o danno nella vita, o almeno
[nella roba; che, essendo, come già dissi, accesi tutti i fuo-
[chi, perchè era appunto l'ora, che in ogni casa si stavano
[allestendo i desinari, e rilucendo per le chiese infiniti lumi
[per la solennità del giorno, il rotolare di que' tanti fuochi
35G SECOLO XVITI.
su i numerosi pavimenti di legno, e il cadere de' sacri can-
delabri sui^li altari, e lo spaccarsi de' focolari e de' solai, e
rincontrarsi di tanti carboni e di tante fiamme in tante e
tante combustibili materie, fece in guisa che presto il vo-
race elemento si sparse e s'appiccò in tante parti della
città, e fu tanto presto ajutato da un'incessante tramon-
tana, die non essendovi chi potesse accorrere ad estin-
guere l'incendio, divenuto a un tratto universale, e venendo
pur guasti gli acquidotti, che somministravano a Lisbona
l'acque, in poche ore quel deplorabilissimo fuoco fini di
colmare d'estrema irremediabile miseria l'angosciato ri-
manente popolo, che, stupefatto da tanti replicati mali, in-
vece di adoperarsi in qualche modo, gli lasciò ogni cosa
in libera preda, e corse urlando e piangendo mattamente
pe' campi e pe' prati, dove chi potette s' era, per involarsi
al primo danno, rifugiato. Colà il comune infortunio aveva
agguagliato ogni grado di persone; e i signori e le dame
più grandi del paese, non eccettuati i principi e le prin-
cipesse del real sangue, si trovarono a una medesima sorte
con la plebe più abbietta; e colà molti, che per malattia o
pel digiuno dell'antecedente vigilia si trovarono estenuati
soverchio dalla fame, cadettero la seguente notte misera-
mente svenuti, e non pochi morti d'inedia sugli occhi del
loro addolorati ssimo sovrano, che per tutto quel troppo di-
sastroso giorno altro non ebbe che amare lagrime da dar
loro. E oh quanti doviziosi grandi, quante nobili matrone,
quante modeste donzelle furono colà costrette ad implorare
pietà e soccorso, o a soffrir vicina la stomachevole com-
pagnia di putenti mascalzoni e di sozze femminacce, e ad
invidiare talora un pezzo di pane accattato, che un qualche
mendico si traeva di tasca per mangiarselo! Tutti i tanto
vantati tesori del Brasile o di Goa mal sarebbono in quel
punto stati equivalenti, non dirò a un boccone d'ammuf-
fato marinaresco biscotto, ma neppure alla fradicia scorza
del frutto più comunale, tanto in poche ore divenne rab-
biosa la fame e universale. È una cosa, fratelli, che funesta
indicibilmente l'animo il visitare quelle rovine con alcune
di quelle persone che di tanta calamità furono testimonie, e
sentirle ad ogni passo dire : Qui rimase morto mio padre ;
là mia madre fu sepolta ; costà una tal famiglia perì senza
che ve ne scampasse uno; colà perdetti il meglio amico
che m'avessi al mondo! Ecco le reliquie del palazzo d'un
tale gran personaggio, che fu a un tratto estinto con tutti
i suoi, ed ecco le vestigio di quel bel tempio in cui più di
cinquecento Cristiani furono d'improvviso seppelliti! Cento
frati qui finirono a un tratto i lor giorni, mentre si stavano
cantando le laudi del Signore nel coro; e questo monistero
perdette cencinquanta monache, in meno che non si pro-
nunzia il nome di Dio! Giù di quelle scabre rupi si preci-
pitarono molti atterriti cavalli e muli, altri co' cavalieri o
ài
l
GIUSEPPE BARETTI. 357
co' cavalcanti sul dorso, e altri coi cocchi e coi calessi pieni
della gente che tiravano! Ecco i frammenti del muro, che
cadde addosso all' ambasciadore di Spagna, ed ecco dove
lo guardie, che seguivano il fuggiasco monarca nostro, fu-
rono dalla morte repentinamente involate al suo sguardo
reale! Migliaja di tali alUittive cose uno straniero, che va
errando per quelle compassionevoli rovine, sente replicare
da quelli che lo accompagnano; e uno interrompe l'altro
per raccontargliene un'altra più crudele della prima; e chi
passa, e si accorge della curiosità altrui, si ferma tosto
e con de' gesti pieni di paura, e con un viso elligiato di
cordoglio, e con delle parole ancora tremanti, quantunque
cinqu'anni sieno scorsi dal giorno fatale, ti narra la do-
lente storia delle sue disgrazie, e t'informa delle irrepa-
rabili perdite che ha fatte, e poi se ne va sospiroso e colmo
di tristezza. E ti fanno poi tutto raccapricciare di nuovo
quando si ricordano il freddo, il vento e la dirotta pioggia,
che per alquanti giorni dopo il terremoto fece morire as-
saissimi di quelli che scamparono da quel fracasso, perchè
troppo mal provvisti di panni nell'ora sventurata della
fuga; né è maraviglia se ancora prorompono in pianto e
in gemiti e in singhiozzi e sino in urli fremebondi, quando
si ricordano il tormentoso intirizzimento delle lor membra,
sendo stati costretti di stare per più giorni e per più notti
senza il minimo riparo contro l'imperversata ed insoppor-
tabilissima intemperie della ghiacciata stagione. E a tanti,
a tanti, a tantissimi danni e man aggiungi la perfetta ca-
restia d'ogni vettovaglia, che gli sforzò a mangiare non
solo le crude carni de' pollami e de' mangiabili quadrupedi,
che si pararono loro dinanzi, ma sino quelle de' cani, de' gatti
e de' sorci, e sino l' erba e le radici e le foglie e le cor-
tecce degli alberi, per acquetare l'irata fame, anzi che per
prolungarsi la vita. Varie sono state le relazioni che allora
andarono pel mondo di questo inlìnito disastro; e i Porto-
ghesi, quando il tempo cominciò ad apportare qualche ri-
medio a' loro troppo acerbi e troppo intensi mali, calcola-
rono che di più di novanta mila persone fu scemato il lor
popolo in ([uesta sola città; ma se anco avessero, come i
miseri soglion Aire, esagerato della metà, sarebbe nulladi-
meno sempre miserandissima cosa e da compiangersi in
sempiterno. — (Dalla Lettera XIX, del 2 settembre 1760.
Ibideyn» pag. 100.)
Avventure di viaggio in Portogallo. — Fuori della porta
per cui entrammo nella città di Elvas, v'era un mondo di
gente e di bestiame cavallino e bovino, perchè è tempo
di fiera. Di qua e di là dalla via v'aveano molte tele poste
a mo' di tende, e le corde che le sostenevano attraversa-
vano ed impedivano il passo di modo, che non avemmo
poco che fare a farci strada sotto quelle frequenti cordo
358 SECOLO XVIII.
co' calessi. 1 mercanti di quella fiera nel tirare quelle corde
in quel modo, apparentemente non s'aspettavano d'aver ad
alzarle per lasciar passare delle vetture, tanto pochi sono
i viaggiatori che vadano per quella via che andiam noi,
vuoi verso Madridde o vuoi verso Lisbona. In vedere quella
tanta gente accorsa alla fiera, il cuore mi cominciò a pic-
chiar di paura, perchè subito mi s'afracciò all'immaginazione
la difficoltà di trovar ricovero allo stallage, conghietturando
che sarebbe stato troppo pieno per darci ricetto. Né fu
pur troppo delusa la conghiettura miia, che giunti quivi ne
fu detto ogni minimo buco esser pieno pienissimo. Pensate
che imbroglio! e tanto più che cominciava a piovigginare.
Fattomi nuUadimeno coraggio, e fidandomi ai galloni che ci
eravamo messi indosso per vedere decentemente il palazzo
di Villaviciosa, balzai dal calesse, e sfoderando arditamente
tutto il portoghese che sapevo, rappresentai al signore stal-
lagero, che Sì Messe, cioè Sua Signoria, non ne potea
negar ricovero nel suo stallage, riflettendo con la sua so-
lita prudenza che avevamo un gran passaporto di Sua Mae-
stà Fedelissima, col quale se mi necessitava a farne uso,
sarei ricorso dal signor Governatore, Lo stallagero, volon-
teroso più di dar alloggio a degli stranieri gallonati che non
a de' Portoghesi senza calze, fece tanto or con buone ed or
con cattive parole, che finalmente cacciò un povero asinajo
fuor d' una stanza, la quale da una troja pregna sarebbe
stata scambiata per la rispettabile abitazione delle sue an-
tenatesse. Sventurato asiriajo, che ti stavi coricato sulla tua
propria pelle in queir umido e sozzo luogo russando tran-
quillamente, goditi in pace quella poca moneta che ti diedi
per espiare l'atto ingiusto, onde fui in indiretta maniera
colpevole ! Abbi pazienza, caro il mio asinajo, perchè quan-
tunque la più parte de' moderni poeti non sieno compara-
bili al più al più che a' tuoi somieri, pure quando la capric-
ciosa fortuna mette un po' di gallone suU' abito d' uno d'essi,
bisogna che non solo un asino, ma anco un asinajo ceda la
Tnano al signor vate, e che se n' esca all' occorrenza sino
d' un porcile di Elvas, perchè colui possa a preferenza in-
tanarsi. Di quel porcile fu d'uopo contentarci, e fattogli
fare un pavimento di paglia nuova e di stuoje vecchie, si
collocarono in pompa magna dal nostro gran Battista i pa-
gliacci nostri, sempre benemeriti, su quelle stuoje, e poi si
pensò alla cena. Il credersi di trovar d'improvviso nulla
d'immediatamente manducabile in questi paesi, dove ogni
cosa si fa bel bello, sarebbe troppa presunzione ; ma che
importava a noi, che avevamo nosco una tacchina, come
dicono i Fiorentini, o un gallinaccio, come diciamo noi, con
tanto di groppone, e un prosciutto di Lisbona, per giunta,
da muover l'appetito a un gran soldano, che avesse perduta
la gransoldania? E qui, fratelli, vi dirò in parentesi, che i
prosciutti di Lisbona fino nel Portogallo medesimo hanno
il
GIUSEPPE BARETTL 359
f;«,iiia presso lutti i ghiotti d' esserci audio migliori di que'di
X'estralia e di Hajona. Si ordinò diiuc|(ie T airostiinento della
tacchina e intanto s' andò in una larga cameraccia, alla
(jualc dai lati corrispondt3vano alcune stanze, tutto si pione
(li gente che ne scoppiavano. In cima e in l'ondo di (niella
cameraccia molti uomini stavano lunghi o distosi e por terra
co' loro lerriijuoli sotto por lotto, e tutti o doruìivano o fa-
cevano le visto di dormire. Quando fui a mezza della ca-
meraccia, ebbi a spiritare della paura, che avendo la testa
l»iona di terremoti, sentii traballarmi d' improvviso il suolo
sotto a' piedi ; ma pei' buona sorto non ora altro che il moto
de'miei piedi, che cagionava quel traballamento. Passeggiato
un poco in su e in giù, certi garzoncini mulattieri uscirono
d' una di (luello stanze, e uno di essi cominciò a strimpel-
lare una chitarra, e un altro ad accompagnarlo con una
canzoncina castigliana. I dun musici avevano appena dato
un cenno delle loro armoniche lacoltù., che subito da quelle
stanze ai lati della cameraccia scapparono fuora da trenta
(? più persone, parte maschi e parte fomminf; ; e per farhi,
breve breve, in tre minuti si cominciò a ballare certi balli
chiamati zuflLcdiiiUc e cert' altri chiamati fandaiujlii, che mi
sollucherarono l'anima. Qui bisognerebbe proprio eh' io di-
ventassi oca, e che tutte lo penne di tal oca l'ossero penne da
scrivere, e che tali penne da scrivere potessero tutte scri-
ver da sé, per dire, secondo il merito, di quo' balli e degli
abiti e delle figure e dello tisonomie e de' gesti e delle pa-
role e degli sguaj'di mordenti, e dell' allegria e della ela-
sticità, sì de' ballerini che degli spettatori. V'erano cinque^
o sei donne Portoghesi e (juattro Spagnuole. Le Portoghesi
erano mediocremente sudi(;ie, metliocremente gialle, nw-
diocremente brutte. Delle (juattro Spagnuole, una era vec-
chiae madre d'una giovinetta bruna e ben tarchiata; l'altre
due erano due sorelle, la più giovane dello (luali di (luindici
o di sedici anni sarebbe bella come la Venere do' Modici, se
la Venere de' Medici l'osse di carne e non di marmo. La so-
rella maggiore cedeva assai di bellezza alla minore, ma
avea in testa due occhi.... oh che occhi ! Che peccato che il
paragone degli occhi con le stelle sia già stato trovato da
migliaja e migliaja di poeti d'ogni nazione, e spezialmente
di pastori Arcadi ! Se quel paragone non fosse-stato trovato,
mi farei adesso molto onore, comparando quei due begli
occhi a due delle più belle stelle del firmamento, e uno lo
chiamerei la stella polare artica, e V altro la stella po-
lare antartica, per far la rima con artica. Gli abiti di (luc-
ste quattro Spagnuole sono sfoggiati anzi che no ; e tanto
la vecchia quanto le giovani hanno le loro sottanelle e le
loro mantelline molto ben guarnite chi d'oro e chi d'ar-
gento. Per quel che intendo, sono quattro donne di Bada-
joz venute con alcuni maschi lor parenti a veder lalìera;
e (quella bella bella bella si chiania Catalina, Ho veduto bai-
360 SECOLO XVIII.
lare d'ogni razza ballerini dalla Dalmazia sino al Norie
d'Inghilterra; ma torno a dirlo, che nessun ballo, di più di
cento diversi che forse ne ho visti a' miei di, non dà la
metà gusto di quelli, che questa gente ha pur ora ballati.
Ora sì, che s' io fossi un Valerio Marziale vorrei fare degli
epigrammi in lode delle danze betiche e gaditane, che m'im-
magino non fosser altro che la zighediglia e il fandango
ballati da quella fanciulla tarchiata e bruna, dalla bella
Catalina, e da quella sua sorella, che ha quegli occhi detti
di sopra. Certamente que' balli vivificano proprio la mente,
e ti rallegrano anche più di quelli de' marinai provenzali col
pifferetto e col tamburinello. Eglino sono ballati sì da' Por-
toghesi che dagli Spagnuoli, talora al suono d' una o di più
chitarre, e talora al suono delle chitarre unito al canto sì
degli uomini che delle donne. Eppure tanto gli uomini quanto
le donne appena muovono le persone ballando, e le donne
specialmente, il moto delle quali è incessante, ma a stento
sensibile. Nel ballare sì le donne che gli uomini scoppiet-
tano tanto bene e tanto a tempo colle dita d' ambe le mani,
scoccando il dito pollice col medio, e le donne picchiano
tanto presto e tanto forte il suolo coi calcagni e tanto a
battuta, che gli è cosa d'andar in estasi a vederle, mas-
sime chi le vede per la prima volta, com' era il mio caso.
E queir io che non avevo che dormicchiato per quattro notti,
che ero stracco morto del viaggio d'oggi, fatto in gran parte
a piedi, e che avevo per via risoluto d' andare a buttarmi
sul pagliaccio quasi senza aspettar la cena, io mi trovai
in pochi istanti così rapito da quello spettacolo nuovo, bello
e repentino, che non pensai più né a gallinaccio né a pa-
gliaccio, né a cos' altra di questo mondaccio ; e me ne stetti
coir anima inondata di subito diletto a guatare quella festa,
la quale era fatta viepiù bella, viepiù nuova e viepiù ina-
spettata dal vedere quegli sdrajati mascalzoni, poco prima
addormentati, saltare su a un tratto, e senza cerimonie e
senza vergogna delle loro calze piene di porte e di fine-
stre, entrar a ballare ora con quelle Portoghesi brutte e
mal vestite, ed ora con quelle Spagnuole belle e attillatis-
sime, senza che nessuno della brigata mostrasse di punto
scandalezzarsene, come avverrebbe in ogni altro paese a
me noto, dove il mal vestito fa sua fratellanza col mal ve-
stito, e il gallonato col gallonato, senza comporre insieme
il minimo miscuglio. In un angolo della cameraccia è una
tavola, e lì su quella tavola (dovrei dire su questa tavola,
perché sopr'essa sto scrivendo questo foglio), senza ceri-
monie e senza vergogna anch' io feci porre la tovaglia, e
col signor Edoardo m' acconciai a cenare, cogli occhi però
sempre più vólti a chi ballava, che non ai piatti. Finita
quasi la cena. Battista ne pose innanzi una certa torta can-
dita recata con noi da Lisbona, fatta all' inglese dalla pa-
drona di casa dove colà alloggiammo. Quella torta io la
GIUSEPPE BARETTI. 361
tagliai ili sottili fette, e messo quelle letto sur un piatto
piramidalmente, le andai a presentare a quelle donne, fa-
cendo loro un elegante complimento in castigliano, che ero
stato un quarto d'ora a compormi in mente; e tanto le
Portoghesi quanto le Spagnuole si servirono francamente
di «luelle fette, facendomi col capo un inciiinuccio per cia-
scuna, accompagnato da quattro leggiadre paroiette. Di-
stribuita la torta, feci portar del vino, ed invitati tutti i
ballerini e i mascolini astanti a bere alla salute delle si-
gnore, la virtù de' copiosi bicchieri doppiò il gaudio della
festa; e quegli uominacci, che prima non avevano posto
mente a los strangeros, cominciarono a deporre il grave
sopracciglio, e presto vennero a infilzarmi de' complimenti
portoghesi e spagnuoli, che non finivan mai, ai quali io ri-
spondeva con una dolcezza cosi ben temprata di gravità,
che non possa io aver roba mai, se non parevo proprio un
Alcalde * di Burgos o di Vagliadolid. Alle donne, dopo la
torta, feci portare de' bicchier d'acqua fi'csca, perche l'of-
frir loro del vino avrebbe guastato tutto il bene, che avevo
fatto con quella piramide di fette, non potendosi in questo
paese lare all'ronto maggiore al femmineo sesso, che of-
frirgli del vino; e dopo l'acqua feci anco distribuir loro
da Battista un bel cesto d'uva, che fu pure da esse molto
benignamente gradito. Una delie donne Portoghesi, che era
gravida, mi fece chiedere un po' del nostro prosciutto, e
portandoglielo io immediate, ne venne anche voglia all'al-
tre, che avevano il ventre smilzo, cosicché, in meno che
non balena, tutto il prosciutto, trattone l'osso, sparì via.
A mezzanotte il ballo fu interrotto da certi fuochi artili-
ziali, che si facevano per allegrezza delle nozze dell'Infanta
maggiore col signor don Pedro; onde, tutta la brigata in-
ferra) uolatasi, andammo per vederli da un rivellino,' giusto
fuori dello stallage : ma la pioggia che s'era fatta grossa,
gii aveva con molta mia sodilisfazione cos^i malconci, che
tornammo tosto a casa tutti, e quivi si cominciò a suonare,
a cantare e a ballar da capo, or una coppia alla volta e ora
due coppie. La sorella della bella Catalina, ch'era di fatto la
ballerina più possente della brigata, e, per quanto mi parve,
colatamente volonterosa di pagarmi tlella cortesia usata a
lei e alle sue compagne, ballò poi una danza sola soletta,
fece tanti piccioli passi e tanti piccioli gesti e tanti piccioli
graziosissimi moti e di testa e di spalle e di fianchi, ch'io me
la sarei proprio mangiata e bevuta viva, massime quando
mi ficcava un momento e di furto quo' suoi occhi negli occhi.
Quand'ebbe finita quella danza a solo, centra il sussiegato
costume di queste regioni, le battei le mani con tanta forza,
' Podeoth.
• Per similitudine di piccola opera a difesa, staccata dalle fortifica»
zioui : fabbrichettiv sporgente dalla luag-giore.
'502 SECOLO XVJir.
e l'ai in ciò ben secondato dui signor Ivloardo e da lialli-
sta, che tutti i circostanti, rotto il costume, le diedero il
meritato premio del suo bel ballare, battendole tutti alla
disperata le mani, come avevo fatt' io. E un fidaUjhino * Por-
toghese, pigliando il luogo lasciato vuoto da (quella, an-
ch'esso ne volle dar prova della sua leggerezza di gamba
e di persona, ballando solo anch'esso e scoppiettando colle
dita e capriolando a maraviglia; ma per applauso non volli
dargli altro clie un triplicato bravissimo, per lasciare alla
sorella della Catalina tutto il frutto della fatica fatta dalle
sue dita scoppiettando, e dalle sua calcagna battute con
forza e con furia indicibile. Delle canzoni che si cantarono
da quelle donne, ve ne fu una castigliana di quell'altra
fanciulla di Badajoz, che dissi bruna e ben tarchiata ; la
qual canzone avrebbe intenerito un sasso, tanto eran dolci
e vive le amorose espressioni che conteneva. E un'altra,
che fu cantata dalla bella Catalina, mi fece un po' ridere
all'ultima strofa, che terminò con questo strano pensiero :
Amor se encomienda
A la misericordia del Hospital.'^
Quando il cantare fu finito, non tanto perchè molte cose
in quelle canzoni mi piacquero, quanto per vedere se po-
tevo in qualche modo barattare quattro parole con quelle
donne, feci pregare le due canterine di favorirmi copia di
quelle, se il potevano fare senza loro troppo grave inco-
modo; e la bella Catalina mi mandò a rispondere che, an-
dando anch'essa il giorno dietro a Badajoz, me n'avrebbe
mandato un libro intiero alla posada? Notate però qui, fra-
telli, che quel giorno dietro voleva dire quello stesso giorno,
perchè erano ormai tre ore dopo la mezzanotte, come ho se-
gnato nella data, che non v'imbrogliaste nel ragguaglio delle
ore. Per far fare quella richiesta a quelle donne io m' era
servito d' uno, che alla sua familiarità con esse mi parve
proprio messaggiero ; e voi qui mi direte: Quare, domine,
ti sei tu servito di messaggero, quando eri nella stessa
stanza con esse? Non potevi mo dimandare tu quelle can-
zoni colla tua stessa voce? — Sappiate però, fratelli, che le
usanze di Portogallo e di Spagna sono alquanto diverse da
quelle d'Italia e di Francia e di Inghilterra; e sappiate che
se fosse stato lecito parlare con quelle donne, non mi sarei
fatto tirar gli orecchi per attaccar un mercato con esse e
colla sorella della Catalina spezialmente, che mi pareva
andasse tentando di farmi un pertugio nel cuore con que' suoi
occhi pieni di lesine, malgrado i miei quarantun anni. Poco
dopo le tre si finì la festa, e ognuno andò a dormire per
* In Spagna i nobili si chiamano hidalghi, in Portogallo Jidalghi,
laonde fidalghino varrebbe nnbiluccio, inccolo nobile.
^ Cioè: Amore ni raccommida alla misericordia delV Ospedale.
3 All'alloggio dove si fermano 1 viaggiatori e quelli ciie li conducono,
GIUSEPPE B A RETTI. 3G3
terra nel suo dato luogo. Si, signori, tutti per terra, sino
la stessa bella Catalina, e sino la sua flaninieggiante so-
rella, con tutto l'oro e l'argento o le fettucce e i nastri e
le trine, che avevano per le sottane o in capo e al collo.
Nessuno di tanta brigata ebbe miglior letto del signor Edoardo
e di me, e de' cani e de' gatti e de' muli e degli asini di Klvas.
Ma io mi trovai la fantasia in un gai'buglio tale, che in-
vece d'andarmene al mio pagliaccio, fattomi recare penna,
calamajo e carta, mi posi a scarabocchiare; ed ecco che le
sei sono suonate, ed io sono ancora qui in questa trabal-
lante cameraccia, che mi meraviglio come abbia potuto
traballar tanto, e non alVondarsi con me, con la bella Ca-
talina, con la sua sorella, con la lanci ulla bruna e ben tar-
chiata, e con tutti- i ballerini e con tutti gli spettatori, che
si sono tutti buttati qua e là a dormire. Qui d'intorno a me
vi sono (lasciate ch'io li conti) uno, due, tre, sei, e quat-
tro dieci e uno undici uomini, che mi stanno sonoramente
trombc^ggiando addormentati intorno; e giacché la pioggia
si è fatta dirotta, e che domane non abbiamo che tre corte
leghe di qui Ji liadajoz, mi vndo a buttare per alquante
ore bello e vestito sul pagliaccio, per non parere da meno
degli altri; onde addio. — (Dalla Lettera XXX \I, del 2-J set-
tembre 1760. Ibidem, pag. 203.)
L'Elia, il Voi e il Tu. — Gl'Italiani s'hanno tre maniere
di scrivere ne' loro reciprochi carteggi ; l' una chiamata si-
gnorile, amichevole l'altra, compagnesca la terza.
La maniera prima, cioè la signorile, sarebbe forse me-
glio non si fosse trovata mai, poiché il solo inveterato co-
stume può toglierle quell'apparenza, anzi pure quella so-
stanza d'assurdo, che trae con sé. In quella maniera l'uomo
non iscrive all' al tr' nomo, come la semplicità del vero chie-
derebbe; ma scrive alla signoria dell' al tr' uomo ^ vale a
dire, indirizza il suo parlare ad una cosa non formata dalla
natura, ma dall' imniaginatiVa; cosicché volendo, esempli-
grazia, domandare ad uno coìne stia di salute, non gli dice
t'ome stai tu. di salute? che sarebbe il modo naturale di
fare una simile domanda; ma gli dice come sta ella di sa-
lute? come sta di salute la sif/noria vostra, o vossignoria
illustrissima, o vostra eccellenza, o vostra rmineìiza, ec-
cetera, secondo che porta il grado, la (pialità o l'impor-
tanza della tal persona; e tutto il discorso corre a quella
foggia, quasiché la signoria, o l'eccellenza, o altro titolo della
tal persona fosse un ente muliebre, ed atto a formare un
soggetto da sé stesso, quando in fatto non è se non un'idea
fantastica e vana.
Che questa maniera, da noi usata si nello scrivere che
nel parlare, debba porsi nel numero degli assurdi più so-
b'uni che siano mai stati ghiribizzati, e che non sia punto
degna di essere adoperata da quelle creature, che chia-
364 SECOLO XVIII.
mansi ragionevoli per antonomasia, ognuno lo vede, ognuno
lo confessa liberamente. Ma che fa questo, se chi ricusasse
ora di adoperarla, o chi si mettesse all' impresa di sbarbarla
di toglierla dal colloquio o dal carteggio, non ci guada-
gnerebbe che del novatore scervellato e fuor de' gangheri ?
Questa maniera è, come dissi, chiamata signorile, per-
chè viene usata dall' uomo, che intende di trattare l' al-
tr'uomo non come uguale o minore suo, ma sibbene come
suo superiore e signore. E così gli uomini che non sono di
basso affare, quando scrivonsi T uno all' altro, e i minori
quando scrivono ai maggiori, e gli eguali di picciol conto,
quando scrivendo ai pari loro intendono di starsi sul quam-
quam,^ ed eziandio i maggiori, quando scrivendo a' minori
non giudicano a proposito di trattarli con albagia; tutte
codeste genti, dico, usano questa maniera signorile, e par-
lano a quel muliebre titolo, a quella emasculata qualità del-
l' uomo, anzi che all'uomo stesso: e chi non adottasse questo
sproposito consacrato dal costume, porrebbe oggidì molto in
collera un corrispondente, che farebbe di risentirsi, come
d' un' ingiuria non mediocre, con chiunque gli venisse a sfo-
derar sugli occhi la seconda o la terza delle tre maniere.
La maniera seconda del nostro scrivere, cioè l'amiche-
vole, corre nella seconda persona del plurale, come se l'uomo
a cui si scrive non fosse uno, ma sibbene due o più; e que-
sta si chiama dar del voi, come l'altra dar del signore.
L'usare questa maniera coi grandi quando siamo pic-
cini, sarebbe un delitto majuscolo e a mala pena perdo-
nabile, perchè oltre a non implicare il grado minore di
colui che scrive, non esprime né tampoco sufficiente rive-
renza, sufficiente ossequio, se l' uomo si sbracciasse anco a
cercare le parole più riverenti e le più ossequiose frasi
che si possano. Quindi è, che questo dar del voi è abban-
donato, per così dire, a quelli che sono bassamente eguali
in ogni punto: e i mercatanti, che nel mutuo trattare delle
loro faccende, badano al lucro, anziché alle cerimonie, se
l'hanno appropriata come la più comoda e la più sbriga-
tiva delle tre; e i letterati non isdegnano d'adoperarla né
anch'essi, quando non vogliono scioccamente starsi sulle
puntute altezze de' convenevoli ; e così pure l'usano in ge-
nerale tutti coloro, di qualunque grado si sieno, che amano
di trattarsi urbanamente e con amorevolezza, anzi che con
sussiego e con prosopopea.
Resta la maniera terza, cioè la compagnesca, che chia-
mano dar del tu; la quale, come quell'aggettivo importa,
s'adopera da buoncompagni, vale a dire da quelli che sono
legati fra di sé d'un affetto cordiale, e che s' hanno di co-
mune consenso bandita la cirimonia e le troppe sguaja-
tezze della cirimonia inventate o, per dire più schietta-
* Darsi aria d' importanza ; voler parere più degli altri.
GIUSEPPE BARETTI. 3G5
mente il vero, create ab inizio dalla superbia e dalla forza
de' ricchi e de' potenti, ajutata dalla meschinità e dall'inet-
tezza de' deboli e de* poverelli. K dà, cos'i del tu, e sei ricevo
a vicenda, un fratello, verbigrazia, o un cugino, che scrive
al fratello o al cugino, e un vero amico ad un vero amico,
e un padre ad un figliuolo; e in somma chiunque vuole
onestamente ed alla buona, considerarsi eguale all' altro,
o mostrare che gli vuol bene davvero, anzi che da burla.
Questa maniera del tu, che scaccia ogni ombra di ciri-
monia, comechè non escluda necessariamente il rispetto e la
creanza, cangia allatto di natura quando l'uomo in collera
scrive all'uomo da cui è stato olTeso, o dal quale si figura
d'essere stato ofleso. In questa caso il dar del tu indica sde-
gno, e rancore, e maltalento, e dispregio sommo. K i padroni
scrivendo a' loro lamigli l'usano pure alcuna volta, invece del
solito voi. Ma quando questo avviene, il tu è per l'ordi-
nario avvolto in una qualche frase cordiale ed amichevole :
e quando il caso è tale, fii d'uopo conchiudere che quel tal
lamiglio sia molto in grazia, poiché si merita dal padrone
un'utlahilitii di silVatto genere; intendendosi ne' casi più sem-
plici, che ogni padrone, se non è una bestia del tutto rigo-
gliosa e senza all'etto, deve usare il voi, anzi che il secco
tu, se scrivesse anche alla più trista delle sue livree : come
che poi nel parlare adoperi anzi il tu che non \\ voi con
ciascuno de' suoi servidori.
Oh quanti imbrogli e quante sciocche smancerie, mi dinì,
((ui un qualche leggitore inglese o francese ! Quante stra-
nezze inutili voi Italiani v'adoperate ! Perchè moltiplicare
le molle e le girelle e le ruote, quando la macchina si può
muovere né più né meno, come si fa da noi, con una sola
molla, con una girella o con una ruota sola?
Verissimo, signor mio! Klla dice bene! Vossignoria fa-
vella come un Boccadoro! Ma che ci poss' io, se gli uomini
d'Italia non sono tutti fatti né al suo modo né al mio? La
disgrazia vuole che ogni paese s'abbia le sue usanze; e
chi v'è nato, bisogna, voglia o non voglia, se le abbia per
ottime, siano cattive quanto ponn' essere; bisogna vi si ac-
conci zitto zitto, onde non riesca straniero nella sua pro-
pria patria, e chi é veramente straniero bisogna s' abbia
llemma anch'esso, o solTra che ciascuno in casa sua se la
rimescoli come più gli pare. La maniera signorile, s'io po-
tessi, la vorrei di sicuro cacciare immediate dal nostro scri-
vere, come anche dal nostro parlare; e chi sa ch'io non la
scomunicassi eziandio s'io fossi Papa; che quello indiriz-
zare il discorso nostro ad \\n fantasma femminino, creato
dall'immaginativa, come dissi più sopra, è certamente un
peccato contro la ragione.* Contuttociò, finattanto che il
' Il conte Veni, in un articolo del tomoli del ^'njfè, dimostra quanto
ancor più ridicolo sia 1' uso che si è fatto di questa strana maiiicra di
3G6 SECOLO XVIII.
nostro brutto costume durerà, e che lio pur paura voglia
durare quanto la nostra lingua, io medesimo pretenderò in
molti casi che alcuni, si nello scrivermi, sì nei parlarmi, si
scordino di quella cosacela chiamata io al nominativo e me
all'accusativo, e vorrò costantemente che certuni, più sda-
najati^ se non altro che non son io, parlino e scrivine alla
signoria che non ho, anzi che a me stesso ; entrandomi be-
nissimo nel cervello che l'essere una persona trattata
dall' altre persone come un ente spirituale, anzi che come
una creatura comune e fatta come tutte l'altre d'ossa e di
polpe, è cosa che solletica molto gratamente ogni anima pic-
cola come la mia; una cosa, la quale ti fa dimenticare per
un istante quella verità sì dura a considerarsi, che l'uomo
non è se non un povero tu fintanto che se la passa in que-
st'orbe sublunare, s'abbia quattrini e terre a sua posta,
e dottrina, e nascita, e autorità, e possanza quanta se ne
può sognare in luglio ed in agosto dal più gran fabbrica-
tore di castelli in aria, o s'abbia vanità, e superbia e grilli
in maggior copia, che non ne fu mai nell' antica o nella
moderna Roma.
Checché mi risolvessi &Q\Yella e della signoria s'io fossi
Papa Re di corona, fatto sta che delle tre maniere nostre,
quella del tu è la sola che s'ha diritto legale di domicilio
nel nostro paese. L'altre due non s' hanno quel diritto, che
per un mero privilegio accordato loro senza un buon per-
chè. Il tu è stato trasmesso a noi dai nostri antichi Italiani,
e noi dovemmo averlo conservato puro ed intatto, coni' essi
l'avevano redato dagli antichi Romani; ma Y ella sen venne
a noi dagli Spagnuoli, s'io giudico bene, e il voi da' Fran-
cesi, allorché que' due popoli bazzicavano più in Italia che
non oggi, e che la maneggiavano anzi a loro capriccio, mercè
quelle nostre tanto bestiali discordie, colle quali sapevamo
in diebus illis bistrattarci gli uni gli altri. Quantunque però
Velia e il voi sieno entrambi a riguardo nostro, stranieri
d'origine, sono tuttavia da dugent' anni divenuti sì baldan-
zosi e sì svergognati, che gli è un favore segnalato quando
permettono al meschino tu di dire i fatti suoi alla su' moda.
Di questo però voglio avvertire gli studiosi della lingua
italiana: a non si stupire quando s'abbattano in due delle
esprimersi nella corrispondenza famigliare, e riferisce, tra gli altri, il se-
guente esempio: «Un certo signor Agapito Stivale ricevette una lettera
curiosa, e nella soprascritta vi stava così : Al conosciutissimo che comanda,
che ha diritto di comandare, da coltivarsi moltissimo, che comanda, Agajìito
Stivale. Il signor Agapito fu niaravigliatissimo per tutto questo caos di
roba, e ciascuno de' miei lettori lo sarà al pari del signor Agapito, sin-
tanto che non faccia la seguente riflessione, ciie conosciutissimo rassomi-
glia molto a illustrissimo, che signore è quello che comanda, che padrone
è quello che ha diritto di comandare, 8 finalmente cho colendissimo è la
stessa cosa che il dire da coltivarsi moltissimo. »
* Più scarsi di denari, più poveri.
GIUSEPPE BARETTI. 367
tre maniere in nna stessa lettera; imperciocché un «galan-
tuomo, che sa giuocai* di penna bene, te le congiunge e te
le intralcia molto bellamente, malgrado il loro essere di na-
tura diversa; nò mancano gli esempj ne' nostri meglio scrit-
tori epistolari d'un voi ed anche d'un tu leggiadramente
legato col vossignoria; la qual cosa, invece di cagionare
ala e ribrezzo, produce anzi grazia ed accresce dolcezza
ed urbanità allo scrivere di chi sa veramente scrivere. —
(Dalla Prefazione alla: Scelta di lettere famigliari ad uso
degli stKdiosi, in Opere, voi. IV, Milano, Classici, pag. 351.)
Una raccolta da burla di poetastri italiani. — Grazie, grazie
della tanta tUligenza da lei usata nel ricogliere notizie, onde
impinguare la mia Storia de' Poetastri Italiani di questo se-
colo. Faccia, signor Pianta, di trasmettermele con qualche
po' di sollecitudine, poiché il primo tomo l'ho gi^i tanto
innanzi, che se n'andrà sotto il torchio fra due mesi alla
più ritardata.
Questo primo tomo, se Vossignoria vuol pur avere uno
s<diizzo dell'opera, le dico che contiene i poetastri dello Stato
di Milano, insieme con ([uelli del Ducato di Mantova, e che
s'avrà un'aj>pendice dreto, nella quale si farà motto de' poe-
tuzzi, de' poeticchi e de' poetonzoli della Liguria e del paese
subalpino. Quell'appendice sarà nondimeno cosasuccintetta;
conciossiachè, qualunciue ne sia la cagione, gli uomini liguri,
egualmente clie i subalpini, s' hanno in questo secolo pochis-
simo coltivata la poesia cattiva, e della buona e' pare non
s'abbiano nò tampoco idea, i subalpini specialmente.
Nel tomo secondo, che ho pur paura non vengami a riu-
scire più grosso del primo, si comprenderanno i poetastri
dello Stato Papalino, esclusa però la città di Roma, la quale
s'avrà per sé sola il terzo volume intiero intiero, mercè a
(luell'Arcadia, la di cui prolifica virtù nel produrre poeta-
stri non è mal simboleggiata dall'oceano settentrionale,
che ti manda fuori ogn'aniio (juelle sue immensità d'arin-
ghe, di salacche, di baccalari e di stocchitisci.
Dietro al tomo terzo, il progresso numerale richiede che
venga il tomo ijiiarto, nel quale saranno a lor bell'agio
coricati que' tanti poetantelli e poetantuzzi, che formicolano
ne' Ducati di Parma, di Piacenza e di Modana, i quali
s'avranno, come per giunta, o vogliam dire per coda,
que' tisici poetini di Guastalla, di Bozolo e di Sabioneta:
e scommetto, signor Giuseppe, che la Signoria Vostra si
farà le mille croci al vedere P amplissima ricolta di mo-
seiolini, di zanzare, di grilli, di farfalle, di bruchi, di ra-
gnuoli e di cavallette, che ho saputa fare lungo le poco
apollinee rive del Taro, del Panaro e del fangoso Crostolo,
che da' rauchi vati guastallesi è sempre con divino estro
chiamato il limpido Vrostìimio. Crederestilo, vita mia, che
i manufattori di smilsi versi prodotti da que' piccoli paesi
368 SECOLO xviir.
agguagliano quasimente per numero quelli del dominio
veneto, de' quali il tomo quinto darà contezza?
Competentemente grande sarà il tomo seguente, cioè il
sesto, dal quale si diranno i poeti della nostra Toscana,
tanto diversi da que' loro Danti e Petrarchi e Pulci e
Borni e Bonarroti, che in più felici tempi la feciono sfol-
gorare sopra ogn' altra poetica terra; e il settimo fmal-
mente, anch'esso d'un' assai buona misura, s'avrà quelli
di Napoli e della Sicilia, che Dio ne scampi i cani, i gatti,
ed ogn'altra spezie d'animali terrestri, aerei ed aquatici!
Ecco, signor Pianta, il disegno in iscorcio di questa mia
nuova opera, che, quantunque semplice assai, mi lusingo
le parrà ingegnoso e sottile oltremodo, poiché m'ha costate
di molte vegghie, e degli sforzi di mente più di tredici e
più di venzette : di maniera che, posso dirlo senza bri-
ciola di iattanza, lo stesso messer Lodovico non si beccò
tanto il cervello nell' ordinare i suoi quaranzei canti del Fu-
ì^ioso, né adoperò la metà invenzione fantasticando que' suoi
tanti caratteri, quanta n' ho adoperata io nel delineare i
miei, e nell' ordinare questa mia fattura.
E qui, sdrucciolando in un episodio, m' è d'uopo dirle,
signor mio, com' io non intendo mica in questa mia Storia
d'andarmene pedestremente sull'orme di que' tanti spetta-
bili viri, che in tutti i tempi e in tutti i paesi si compi-
larono storie di cotesta fatta, registrando in esse alla rin-
fusa ogni nome d' uomo, o grande o piccolo, o bruno o
biondo, magro o grasso eh' e' si fosse. Una difl'erenza so-
stanzialissima passerà fra l'opere di que' viri e questa mia:
eh' io non ammetterò fra' miei eroi nome veruno di scrit-
tore, sia chi si voglia, se non sarò più che certissimo in-
nanzi tratto del suo avere indubitatamente vituperato il
secolo nostro, e la nostra lingua, e la nostra contrada; né
dirò se non di quelli, che s' hanno scritto in verso. Que' che
se la scarabocchiorno in prosa, io me li serbo qui nella
manica ; cioè, me li serbo per un' altr' opera, che intra-
prenderò quando avrò compiuta questa, se la salute vorrà
durarmi salda per un' altra decina d' anni. — (Dalle Let-
tere ec, voi. II, lett. 6*.)
L'Arcadia. — Quegli amanti d' inutili notizie, che non sa-
pendo come adoperar bene il tempo, lo impiegano a impa-
rare delle corbellerie, e che bramano di essere informati di
quella celebratissima letteraria fanciullaggine chiamata Ar-
cadia, si facciano a leggere questo bel libro,* che ne dà un
ragguaglio distinto distintissimo. Il suo celibe autore l' ha
scritto con tutta quella snervatezza e con tutto quell'umile
spirito d'adulazione, che principalmente caratterizza gli Ar-
cadi; e assai nomi rinomatissimi si trovano in esso libro
* Le Memorie storiche ddV adunanza degli Arcadi ec.
GIUSEPPE BARETTI. 3G9
registrati, la rinomanza de' quali non è stata punto mai ri-
nomata nel mondo. L'opera ò divisa in dieci capitoli, che
sono come dieci gioielli di vetro. Kcco qui la sostanza di
que' dieci capitoli.
Il capitolo primo dice T Istituzione d'Arcadia, enarra,
fra le altre fanlaiuche, il caso memorandissimo d'un certo
poeta, il (juale avendo sentiti cert' altri poeti recitare certe
pastorali poesie in certi prati situati dietro un certo ca-
stello, proruppe in questa miracolosa esclamazione: Efjli mi
sembra (notate queirenl'atico egli), egli mi sembra che noi
abbiamo oggi r inovata l'Arcadia. Oh magica esclamazione,
alla quale deve l'Arcadia il suo nascimento, come da un pic-
ciolissimo seme nasce una zucca molto smisurata ! Item
in quel capitolo primo vengon via i quattordici nomi de' quat-
tordici fondatori d'Arcadia, undici de' quali nomi è un pezzo
che sono miseramente sprofondati in Lete, cioè a dire (juelli
del Coardi, del Taolucci, del Leonio, dello Stampiglia, del
Maillard, del Figuri, del Negro, del Melchiorre, del Vicinclli,
del Vili e del Taja. Dico che gli undici nomi di questi perso-
naggi sono sprofondati in Lete in ([ualità di nomi poetici, che
nessuno interpretasse male. I tre di (jue' quattordici nomi che
ancora si nominano, sono quello del Gravina, quello del Cre-
scimbeni e quello del Zappi. Quello del Gravina è ancor no-
minato dai dotti, perchè Gravina aveva un capo assai grande,
e pieno di buon latino e di buona giurisprudenza. Ma sic-
come tutti gli uomini hanno il loro difetto in mezzo a tutte
le loro perfezioni, il Gravina ebbe il difetto di voler fare
dei versi italiani, e quel che è peggio di volere con italiane
prose insegnar altrui a farne de' lirici, de' tragici, de' diti-
rambici e d'ogni razza, a dispetto della natura che volle
farlo avvocato e non poeta. Il nojne del Cresci mbeni è tut-
tavia nominato con somma venerazione da' nostri più mas-
sicci pedanti. Il Crescimbeni fu un uomo dotato d'una fan-
tasia parte di piombo e parte di legno, cosicché sbagliò sino
quel matto poema del Morgante maggiore per poema serio.
Che Axntasia fortunata per un galantuomo destinato dal de-
stino ad essere compilatore, e massimamente compilatore di
notizie poetiche! Quelle notizie, e tutt'altre cose, il Crescim-
beni le scrisse in uno stile così tra il garfagnino e il romano,
che gli è proprio la delizia degli orecchi sentirsene leggere
quattro paragrafi. Il Zappi poi, il mio lezioso, il mio galante,
il mio inzuccheratissimo Zappi, è il poeta favorito di tutte
lo nobili damigelle che si fanno spose, che tutte lo leggono
un mese prima e un mese dopo le nozze loro. Il nome del
Zappi galleggierà un gran tempo su quel liimie di Lete, e
non s'alVonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della
poesia eunuca. Oh cari que' suoi smascolinati sonettini, par-
goletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d'amorini!
Il secondo capitolo delle Memorie istoricue ne secca ali^
quantulum con le Leggi d'Arcadia, che sono scritte a imi-
IV. ;^4
370 SECOLO XVIII.
tazione di quelle dell'antica Roma, e che s'assomigliano a
quelle, come uno de' miei scimmiotti americani s'assomiglia
a un dottor di Sorbona; anzi come la mia gamba sinistra,
che è un pezzo di legno, s' assomiglia alla mia gamba de-
stra, che è una gamba bella e buona. Dopo il registro pun-
tuale di quelle leggi, il celibe autore delle Memorie ne dà
la vera e distinta relazione d'una tremenda e crudelissima
guerra, la quale poco mancò non rovinasse l' augusto im-
pero arcadico pochi giorni dopo che fu fondato. Due segna-
lati campioni si fecero molto distinguere con le loro braverie
in quella guerra. Uno fu Alfesibeo, primo califfo d'Arcadia;
l'altro fu un certo Opico, il quale non contento forse di es-
sere stato solamente creato uno de' principali argali (Ti del-
l'arcadico regno, e pretendendo d'essere anch' egli califfo,
almeno indipendente dal califfo Alfesibeo, si ribellò, e menò
un vampo terribile per l'arcadiche provincie, minacciando
di metterle tutte a saccomano, anzi pure di mandarle a
fuoco e fiamma. La descrizione di tal guerra nelle Memorie
iSTORiCHE è fatta così maestrevolmente, e i suoi varj e spa-
ventosi accidenti sono quivi dipinti con tal vivezza e furia
di colori, che se io conoscessi qualche arcadica pastorella,
la quale fosse incinta, la sconforterei dal leggere quella de-
scrizione per tema non si sconciasse, conciossiacosafossechè
io medesimo che mi sono visto portar via senza smarrirmi
un'intera gamba da una cannonata, e che ho intrepidamente
sofferta una marrovescia sciabolata sul labbro inferiore da
un odiato circasso nella città di Erzerum,* io medesimo, co-
spetto di bacco! mi sono tutto raccapricciato, quando giunsi
a leggere queir orribilissimo periodo, in cui il califfo Alfe-
sibeo spacca la testa al ribelle argaliffa Opico.
Il terzo capitolo parla del Bosco Parrasio, nel quale bo-
sco si sono veduti più poetici mostri e più paladini incan-
tati, che non se ne videro un tempo nella famosa selva
d'Ardenna. I nomi di que' mostri e di que' paladini sono a
minuto registrati in quel capitolo terzo.
Il capitolo quarto è intitolato Del Serbatojo, voce greca
derivata dal caldeo, la quale in Roma significa segreteria
poetica, e in Firenze significa stanzino da serbare uccel-
lami morti, tanto crudi che cotti, insieme con altre der-
rate mangiative.
Il quinto capitolo è intitolato De' Libri; e in quello siamo
assicurati, che «l'Italia, grazie alle leggiadre produzzioni
(con le due zete alla romana) fatte ascoltare nel prefato bosco
Parrasio poco meno che tutta aveva ripreso il buon gusto. »
L' autore con le « produzzioni fatte ascoltare » vuol dire che
gl'italiani usavano nel seicento cibarsi di pan mi^ffato, e
* Il Baretti fìnse die la Fninia letteraria fosso opera di iin Aristarco
ScANNABUE, il qualo, guerreggiando in Europa e in Asia, vi avrebbe per-
duto una gamba e riportato parecchie ferite.
I
GIUSEPPE BARETTI. 371
clie furono sforzati in quel bosco Parrasio a nutrirsi quin-
(liniianzi di pane azzimo; ma, per esprimersi arcadicamente,
dilania ìnion gusto il ;)rt;i(? azzimo.
Capitolo sesto. Favella delle Lapide di Memoria, vale a
dire de' pitatli incisi sulle tombe de' prefati calilli e arga-
lilli e altri eroi d'Arcadia.
Capitolo settimo. Delle Acclamazioni. Questo capitolo
è un catalogo, contenuto a fatica da diciannove pa^nno, di
famosissimi poeti e di famosissime poetesse. Non si può dire
quanta dottrina vi sia da imparare in quelle diciannove pa-
gine di famosissimi poeti e di famosissime poetesse.
Capitolo ottavo. Delle Colonie. Colonia paro che abbia
sempre significato, e che signilìchi tuttavia « un bel numero
di gente tratta d'un paese, e mandata ad abitare in un altro
paese per popolarlo. » Ma da questo ottavo capitolo si viene
a capire che Colonia significa in lingua arcadica molta
gente scioperata, che standosene in un paese a casa sua,
perde il tempo a scrivere delle fanfuluehe pastorali ad altra
gente scioperata, che se ne sta pure a casa sua in un altro
paese. Quelle Colonie nominate in quell'ottavo capitolo fu-
rono cinquantotto ne' più vertiginosi tempi d'Arcadia. A' no-
stri men fanatici di, quel numero di cinquantotto è tanto
scemato, che quelle colonie non eccedono omai più il nu-
mero delle Babilonie.
Capitolo nono. Della Effemeride. Ho saltato via questo
capitolo, conghietturando dal suo titolo, che non contenga se
non la descrizione dell'almanacco arcadico, insieme co' nomi
e cognomi di tutti gli autori di taccuini pastorali prodotti
dall'Arcadia, e dalle quondam sue colonie.
Capitolo decimo ed ultimo. Di alcune Memorie più con-
siderarim concernenti l'adunanza degli Arcadi. Il titolo
di questo capitolo non è cosi laconico come gli antecedenti,
onde Aristarco si contenta d'aver qui registrato quel lungo
titolo, e lascia la lettura dell'intiero capitolo a chi ama le
memorie considerabili, e le memorie concernenti. Forse chi
lo leggerà verrà a sapere questa considerabile cosa : che,
ehi vuol essere Arcade, bisogna sappia assolutamente quante
sillabe entrano in un verso, e quanti versi entrano in un
sonetto senza coda. In oltre chi lo leggerà verrà forse a sa-
pere quest'altra concernente cosa: che fa d'uopo leggere
almeno un paio di tomi della raccolta del Gobbi ; ' e poi pa-
gare uno scudo, o per dirlo con fi'ase più poetica, dieci
paoli, per ottenere una patente, che ti baratti un nome di
battesimo in un qualche nomacelo mezzo da pecoraio, e
mezzo da pa